Foodora e la gig economy: quale modello per il futuro?
- 23 Ottobre 2016

Foodora e la gig economy: quale modello per il futuro?

Scritto da Giacomo Cucignatto

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Il caso mediatico Foodora rappresenta un ottimo spunto per un’analisi complessiva dei fenomeni che stanno trasformando il mercato del lavoro negli ultimi anni. Prima di provarci, tuttavia, è forse il caso di fare un po’ di chiarezza terminologica.

L’azienda Foodora GmbH – nata in Germania nel 2014 – fornisce un servizio on-demand di consegna cibo a domicilio in vari paesi europei, connettendo gli utenti ai ristoranti della zona attraverso una piattaforma digitale e impiegando lavoratori che stabiliscono la propria disponibilità oraria attraverso un’app. Nel caso specifico è quindi scorretto parlare di economia della condivisione (sharing economy): non c’è niente di condiviso, non il pasto né il mezzo di trasporto utilizzato per le consegne; non si tratta di monetizzare risorse sottoutilizzate o non utilizzate – come nel caso di Airbnb o Blablacar – e l’unico punto di contatto con queste aziende è l’utilizzo di piattaforme digitali per lo svolgimento delle proprie attività.

Quando ci si riferisce a imprese come Foodora – Deliveroo e JustEat, per rimanere nel settore della logistica della ristorazione, oppure a grandi realtà come Uber, Mechanical Turk o Task Rabbit è dunque più corretta l’espressione gig economy: nella vulgata economica si tratta di un ambiente economico che genera “lavoretti”, dal momento che le aziende usufruiscono di “collaboratori” per lo svolgimento di mansioni a breve termine e ad alto tasso di intermittenza; si tratta di un settore in cui il “collaboratore” offre una prestazione di sé e un vero e proprio spettacolo, nel senso che esibisce il logo dell’azienda durante lo svolgimento dell’attività lavorativa in un flusso pubblicitario costante verso l’esterno1.

La protesta dei fattorini Foodora di Milano e Torino rivela alcune delle contraddizioni che caratterizzano queste realtà economiche emergenti: la diffusione del pagamento a cottimo (2,70 euro a consegna nella fattispecie), i costi degli strumenti di lavoro scaricati sulle spalle dei “collaboratori”, la segmentazione degli stessi a livello contrattuale, l’assenza di tutele in caso di malattia o incidenti sul lavoro. Si intravede in generale un tentativo di disintermediazione del rapporto di lavoro: il ricorso alla piattaforma digitale è cruciale poiché spinge l’azienda a negare l’esistenza stessa del lavoro; i “collaboratori” svolgerebbero compiti che non configurano un vero e proprio lavoro, ma piuttosto un “lavoretto” o un hobby. L’azienda attraverso il ricorso al management algoritmico cerca dunque di sfuggire al tradizionale ruolo di datrice di lavoro, cercando di abbattere i costi contributivi e previdenziali che questo comporta2.

La protesta dei fattorini di Foodora si inserisce in un contesto internazionale in cui i lavoratori stanno gradualmente prendendo coscienza delle ripercussioni e delle problematiche poste dalla gig economy; alcune vicende ci consentono di iniziare a inquadrare gli interrogativi cui la politica dovrà rispondere nei prossimi anni.

La class action degli autisti di Uber negli Stati Uniti verte ad esempio sulla riqualificazione come lavoratori subordinati e non contrattisti indipendenti. La controversia, nata nell’ambito del ride sharing, rivela la difficoltà del giuslavorismo ad inquadrare correttamente i rapporti di lavoro nella gig economy: diversi esperti sostengono che il lavoro su piattaforma e il lavoro digitale contribuiranno alla rapida diffusione del lavoro indipendente3, un terzo genere differenziato rispetto al lavoro autonomo o dipendente, una sorta di via di mezzo tra i due; peraltro il superamento dei fondamenti giuridici alla base di ogni relazione di lavoro tradizionale ha spinto diversi studiosi a introdurre l’espressione “capitalismo di piattaforma4. Altri negano la necessità giuridica del lavoro indipendente. Si pone in ogni caso il problema dell’identificazione di volta in volta della componente prevalente nell’attività lavorativa, ma la difficoltà di tale operazione rischia di tradursi nello smantellamento delle tutele dei lavoratori. Le sentenze dei giudici federali del distretto di San Francisco hanno tuttavia chiarito che gli autisti di Uber sono dipendenti di fatto e potrebbero dunque segnare una via per la riappropriazione dei diritti e la lotta contro lo sfruttamento.

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Scritto da
Giacomo Cucignatto

PhD in Sistemi produttivi e politiche pubbliche presso il Dipartimento di Economia dell’Univeristà degli Studi di Roma Tre; Laurea triennale in relazioni internazionali all'Università Cesare Alfieri di Firenze e specialistica in sviluppo economico e cooperazione internazionale all'Università di Bologna. Giornalista freelance, collabora con alcune riviste cartacee e online.

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