Scritto da Francesco Scanni
15 minuti di lettura
Questo articolo si inserisce in un dibattito promosso da Pandora sulle categorie di liberalismo, liberismo e neoliberismo. Leggi gli altri contributi sul tema usciti finora:
1) Le due facce della medaglia neoliberale
2) Il neoliberismo di destra e di sinistra. Note a una presentazione
3) La sinistra italiana e il liberalismo
4) Brevi cenni sul neoliberismo
5) La società degli individui non esiste
6) Nel labirinto del neoliberalismo
7) Riflessioni sul neoliberismo in Italia
8) Non gettiamo Akerlof (e i Clash) con l’acqua sporca
9) Una breve ricostruzione del dibattito storico-teorico sul neoliberismo
10) Neoliberismo e soggetto: una problematizzazione
11) Lunga vita a John Maynard! Sì ma quale?
Nel dibattito sul Liberalismo/Liberismo, assume un’importanza fondamentale inserire una riflessione meticolosa sulle costruzioni teoriche che hanno sorretto la struttura Capitalistica.
Bisogna dunque tener conto, degli effetti concreti che le sovrastrutture teoriche hanno prodotto nel senso comune e nella coscienza sociale, al fine di studiare in maniera approfondita in che modo è stata incoraggiata l’affermazione del modello di produzione esistente e come, le sue categorie, sono state non solo immesse ma consolidate all’interno della società.
Ciò al fine di creare un nuovo orizzonte di senso tra le fila dei ceti popolari, i quali molto spesso si sono trovati (ed ancora si trovano) a galleggiare tra il vaneggiamento meccanicistico di una rivoluzione “necessaria”, e l’utilizzo di categorie prese a prestito dal campo egemonico avversario, rivestite di moralismo, che non essendo in grado di dare risposte concrete al conflitto sociale ed ontologico1 hanno il nefasto effetto da un lato di aumentare la confusione ed il turbamento tra le classi popolari, dall’altro di sprigionare populismo negativo ed avversione nei confronti delle istituzioni identificate come l’ostacolo da abbattere per ottenere la libertà.
Per riuscire adeguatamente in questo compito, la Sinistra ha la necessità di analizzare fino in fondo la principale “arma” teorico/ideologica di legittimazione del Liberalismo, al fine di padroneggiare il senso di smarrimento che ormai ne caratterizza l’azione da un trentennio a questa parte. Si tratta dei Diritti Umani, concetto sdoganato indistintamente da tutti i Partiti politici della seconda repubblica.
Appare necessario, a questo punto, fare chiarezza sulla portata reale di queste dissertazioni, sulla caratterizzazione che le forze di Sinistra dovrebbero ricercare riguardo all’argomento per riuscire a distinguere la propria visione da quella delle destre, e per ritrovare in profondità la sua reale funzione storica senza esaltare e decantare gli effetti miracolosi di concetti astratti, letti in termini neutri, trasformati in cartine di tornasole.
Il primo sforzo che bisogna compiere è quello di assumere i Diritti umani non come un dato assoluto, bensì come un prodotto storico. Ciò comporta la ricerca storica delle fondamenta e la ricostruzione delle varie tappe che questa ideologia ha percorso, per riuscire alla fine a comprendere le condizioni materiali, sociali e culturali che ne hanno permesso e sospinto l’affermazione.
Prima di diventare norme giuridiche, i diritti si sono manifestati come espressione di bisogni socialmente organizzati. Lo stesso loro sviluppo e la loro affermazione sono legati ai cambiamenti politici, economici e culturali che hanno dispiegato i loro effetti nel tempo.
Sebbene solo dal 1500 in poi, nei fatti, si può parlare di una “politicizzazione” del concetto di diritti, una loro prima teorizzazione si può trovare già nell’antichità. I diritti dell’uomo come strumento dell’affermazione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini hanno origine dallo stoicismo. Gli stoici furono coloro che per primi collegarono l’ordine razionale del mondo, guidato dalla ragione divina, con il concetto di giustizia. E’ qui che si può trovare la prima assolutizzazione del “giusto” che si richiama alla ragione Divina universale e viene tradotto in legge naturale dalla comunità umana. Si tratta già di una legge superiore, assoluta perché perfetta ed immodificabile. Queste teorie costituiranno la base delle riflessioni che verranno poste in essere dal 1500 in poi.
Se unica è la legge che governa l’umanità, unica sarà la stessa comunità umana che su questa legge si fonda. Gli uomini allora non possono sottrarsi all’applicazione di questo principio che ad essi si impone da un ordine superiore di natura ultraterrena.
Lo stoicismo riprende la concezione antropologica del platonismo-aristotelismo secondo cui la libertà per l’uomo consiste nell’essere “causa in sé”. Questa formula rintraccia nell’autodeterminazione non solo il tramite per approdare alla libertà, ma soprattutto la conformazione e l’adeguamento all’ordine metafisico del mondo, l’adattamento al Destino. Successivamente, nel medioevo questa impostazione verrà ripresa dal Cristianesimo e rivelata attraverso l’enunciato : –tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio.
Ciò che distinguerà l’impianto teorico dell’antichità e del medioevo da quello che sorgerà dal Seicento in poi sarà l’abolizione dell’elemento religioso e l’attribuzione della legge naturale non più ad un progetto Divino ma ad una ragione umana universale. Questa definitiva scissione comporterà la fine dello sforzo della Scolastica e di Tommaso di conciliare Ragione e Fede attraverso la Filosofia.
La norma su cui ogni diritto si fonda ha natura morale. Generalmente un diritto giuridico presuppone un diritto morale che ne costituisce l’origine ed il fondamento. L’aspirazione di chi sostiene un diritto morale è quella di trasformarlo in un diritto positivo, quindi in un diritto giuridico riconosciuto ed in grado di produrre effetti. Si tratta della pretesa di alcuni soggetti di tradurre una norma morale in una norma giuridica a cui corrisponde un obbligo/dovere di altri soggetti. La definizione di diritti soggettivi, utilizzata già nelle teorie giusnaturalistiche seicentesche, definisce il diritto come attributo di un soggetto che si realizza o attraverso l’astensione o attraverso prestazioni obbligate di altri soggetti.
Ogni individuo è quindi possessore di una intrinseca libertà ontologica che costruisce di per sé. Questa concezione, che vedrà il suo compimento definitivo proprio con il liberalismo di Locke, descrive l’uomo come completo, compiuto dalla nascita, unito.
Il punto di partenza di queste teorie è la visione dell’Uomo come libero dalla nascita, ed il rapporto con l’altro, con il mondo, è il vero ostacolo al dispiegamento della sua reale libertà ontologica. Gli strumenti principali della effettuazione di detta libertà sono i diritti che poichè ineriscono alla persona in quanto tale, essendo espressioni di bisogni e valori essenziali di ogni uomo, assumono la definizione di Diritti Umani. Essi sono considerati inviolabili da qualsiasi autorità, persino dal singolo stesso che ne è titolare2 ragione per cui vengono definiti inviolabili in alcuni enunciati (si veda Costituzione Italiana). Ma la definizione più diffusa per indicare i diritti pubblici inviolabili ed inalienabili è diritti fondamentali, al fine di sottolinearne un duplice aspetto: il fatto che essi siano compendiati nei testi fondamentali nazionali e il fatto che essi siano a fondamento della componente ontologica dell’uomo, ovvero che qualifichino l’uomo stesso come individuo, cioè entità autonoma, portatore di diritti.
La nascita del concetto è certamente collegata alla resistenza contro l’oppressione monarchica ed aristocratica ed alla rivendicazione della libertà individuale come sovranità di ciascuno sul proprio corpo e sui propri beni. Nel ‘500 saranno questi i nuovi valori che si porranno al di sopra del potere politico e che prevedranno garanzie contro l’arbitrio dispotico del regime precedente, sebbene ancora non si riferiscano all’individuo in quanto tale ma solo in quanto membro di ceti ed istituzioni particolari.
Posteriore sarà invece l’affermazione dei diritti dell’uomo intesi come facoltà spettanti a tutti gli individui indistintamente. Essa coinciderà con l’avvento e l’affermazione della classe borghese, la quale non aveva interesse a preservare le differenze sociali vigenti, anzi intendeva sopprimerle per consentire al nuovo sistema economico-sociale di consolidarsi.
Congiuntamente all’offensiva contro il sistema feudale in senso proprio, la borghesia in ascesa sferrerà un duro colpo anche alla religione identificata come fondamento teorico/spirituale per la legittimazione degli interessi dell’aristocrazia. L’atto principale di contrapposizione della borghesia nei confronti della chiesa cattolica fu la rivoluzione francese, ovvero la secolarizzazione del principale costrutto teorico dell’epoca: Il diritto naturale. Esso, nel giusnaturalismo e nel liberalismo verrà a coincidere non già con la volontà divina, ma con l’afflato razionalistico che si libera da ogni forma di dogmatismo3.
I valori del diritto naturale, divengono così parametri di valutazione per il diritto positivo, ovvero il diritto messo in forma giuridica dagli uomini in un dato momento storico. Come possiamo notare sin da ora, appare il problema, tipico del diritto, della sistematica separazione che gli è connaturata tra il valore che si pone di tutelare e la concreta previsione legislativa nell’ordinamento. Già Aristotele ed i sofisti distinguevano tra giusto per natura e giusto per legge proprio a testimonianza della difficile armonia tra i due momenti4.
Questo contrasto persiste, seppure in forme parzialmente mutate fino ai giorni nostri, e si traduce in una divisione organica tra la dimensione formale e quella sostanziale delle tutele, la quale evidenzia una forte discrasia tra diritto naturale e diritto positivo che ha origine dalla differenza profonda che sussiste tra valori universali ed interessi concreti che germinano nella società5. E’ facile notare come, nei fatti, già dal Seicento la dottrina dei diritti naturali sia strettamente collegata agli interessi materiali, sociali e culturali della borghesia in ascesa benché si tinga di un razionalismo trascendentale che si sostituisce alla divinizzazione.
Nell’Europa del XVII e del XVIII secolo, l’universale smette di essere oggettivo per diventare soggettivo. Il diritto non coincide più con valori che valgono genericamente per la società in quanto aggregazione di individui (quindi anche per il singolo comunque pensato in comunità) ma diviene rivendicazione in capo al soggetto singolo. I diritti umani divengono diritti che ogni singolo uomo ha per natura, attribuitigli dalla ragione e che esistono a prescindere da ogni volontà e dalla loro effettiva realizzazione attraverso norme giuridiche positive.
Caratteristico di questi secoli è l’incontro tra le dottrine giusnaturalistiche e quelle contrattualistiche che implica una crasi tra la teoria per cui l’evoluzione storico/sociale dell’umanità sia dovuta al passaggio da uno stato di natura ad uno stato civile attraverso patti sociali dai quali si forma e riconosce un’autorità politica garante dei patti stessi, e quella del diritto naturale che esprime uguaglianza e libertà di tutti gli uomini. Il più importante sostenitore di tale visione è certamente il filosofo britannico Thomas Hobbes.
Il potere dei sovrani si fonda secondo Hobbes su un patto con i sudditi e non più sul mandato divino. In questo quadro storico che segna il passaggio alla concentrazione dei poteri e funzioni in capo allo Stato moderno, che comporta il tramonto dell’idea medievale di legittimazione, emerge una doppia esigenza: 1- Riconoscere l’autorità affidandole un fondamento razionale che sostituisca l’investitura divina. 2- Fornire al contempo una tutela agli individui nei confronti dei poteri sovrani che si traduce nella teorizzazione dei diritti naturali.
Il problema principale appare allora quello di limitare la libertà che ogni uomo ha in sé connaturata perché si abbia un patto che permetta la convivenza civile ed escluda la possibilità che si verifichi uno scontro tra libertà individuali. In Hobbes, teorico dell’assolutismo, vediamo crescere il ruolo del Sovrano.
Successivamente questa teoria venne criticata da un altro britannico, padre del liberalismo e dell’empirismo: Jonh Locke. Egli pone l’accento non sui limiti da porre alle libertà dei singoli, bensì sui limiti entro cui recintare l’azione del sovrano stesso. L’azione dello Stato, il ruolo del potere politico nascono con l’unica funzione di garantire i diritti che l’uomo ha per natura e di condurlo non collettivamente, ma singolarmente alla libertà. Lo Stato diviene allora un funzionario sostituibile se non adempie al compito che gli è proprio, così Locke fornisce una giustificazione teorica alla rivoluzione popolare che ispirerà l’illuminismo. Gli stessi sovrani sono dunque soggetti al limite dei diritti naturali, la loro stessa legittimità e sopravvivenza dipende dalla loro capacità di tutelare i diritti dell’uomo. La legge diventa fondamento del Governo.
Ma cosa significa che i diritti appartengono all’uomo per natura? E cosa che essi gli vengono attribuiti grazie alla Ragione Universale? L’uomo per i liberali è visto come libero dalla nascita. Che i diritti gli appartengano per natura significa infatti che prima che nasca la società, prima della formazione del potere politico, aldilà delle reali condizioni storiche e sociali l’uomo ne era titolare. Il fatto che non ne abbia usufruito è stato causato dalle istituzioni che glieli hanno compressi.
Il contatto con l’altro, le istituzioni, le formazioni sociali sono ciò che può intaccare la libertà dei singoli e non già entità atte a costruirla. L’altro da sé diviene un pericolo e l’unica istituzione che ha il compito di evitare l’intaccamento è lo Stato che fonda la sua stessa legittimità su questa azione di tutela.
Alle soglie del 1700 tutti i più importanti atti giuridici (L’Habeas Corpus del 1679, il Bill of Right del 1689) comprendono tutti gli elementi della teoria che abbiamo enunciato.
Un concetto su cui è doveroso focalizzare l’attenzione è quello di proprietà. Perché ciò che suona strano è che se ci si sporge appena aldilà degli altisonanti principi razionali che divengono universali quali la libertà e l’uguaglianza, la loro formulazione concreta pare ubbidisca ad aspetti profani della vita che vanno ineludibilmente a coincidere con interessi materiali e socio/politici della borghesia.
La proprietà è il nocciolo del diritto soggettivo. Essa è annoverata tra i diritti naturali dell’uomo e non si traduce esclusivamente nel riconoscimento del possesso sui beni e sulla propria vita da parte dei singoli, ma sulla possibilità di avere relazioni commerciali ed intraprendere attività economiche. Doveva allora fungere da garanzia per le classi emergenti di artigiani, di commercianti imprenditori contro i limiti del sistema feudale. Dal diritto originario di disporre dei propri beni si arriva al riconoscimento del diritto ad acquistarli, a trasmetterli per eredità, ad accumularli.
Non è un caso che in Locke appare evidente come la proprietà assurga a diritto naturale per eccellenza, e la sua tutela diventa il compito fondamentale dell’autorità pubblica. Egli stesso sostiene “ Il grande e principale fine per cui gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano ad un Governo è la salvaguardia della loro proprietà”6 .
L’accordo sociale è fondato non più sulla comunità ma sulla volontà della persona singola. Esso viene ufficializzato sotto la forma del contratto, che si identifica come la manifestazione per eccellenza della autonomia individuale, frutto di una razionalità strumentale che calcola costi e benefici derivanti dal patto.
Dal 1700 in poi si consolida questa direzione. Dall’unione del diritto naturale con la teoria del contratto sociale deriva la diffusione della cultura politica europea dei diritti naturali individuali, innati ed uguali per ogni uomo, e l’idea della sovranità popolare. Questo matrimonio si celebra sotto l’egida della Ragione che, perché universale, controlla la validità assoluta di ogni atto e del valore che esso contiene e promuove.
Ancora nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino si fonda sulla commistione tra teoria liberale di Locke e quella di Rousseau della sovranità popolare. Nonostante nel Rousseau del “discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” si possa intravedere una analisi concreta dei fondamenti dell’ineguaglianza ed una volontà di ispezione delle condizioni concrete oltreché dei valori astratti, battaglie come l’abolizione delle successioni inique, l’uguaglianza nelle eredità e nelle donazioni, la proprietà privata come origine della sopraffazione, presentano ancora una forma embrionale e si scontrano con le reali esigenze della borghesia, classe promotrice della rivoluzione.
Appare evidente allora, come un concetto astratto come quello dell’uguaglianza, propugnato dai liberali, in realtà assume una valenza non solo mondana, ma anche parziale in quanto essa si traduce in una uguaglianza che dispiega i suoi effetti esclusivamente a livello giuridico mentre contemporaneamente la diseguaglianza economica e sociale è riconosciuta ed ammessa nel nuovo ordine.
Oltretutto, l’errore di astrarre le due dimensioni, lo sbaglio di sganciare la libertà teorica dalle condizioni concrete, produce sovente l’effetto di non assicurare neppure il rispetto dell’enunciato.
Nell’800, sotto l’influsso del positivismo, la positivizzazione del diritto diviene il problema centrale. L’attenzione si sposta dal piano filosofico/morale a quello del diritto vigente. Con il giuspositivismo si arriverà alla separazione tra diritto positivo e diritto naturale7. Il diritto vigente diviene l’unico riferimento valido per i giuristi ed il diritto naturale resta invece confinato alle speculazioni filosofiche. Il disinteresse per le fondamenta del diritto (morale, diritto naturale, giustizia) determina una necessità non molto dissimile da quella dei primi giusnaturalisti: trovare un principio ispiratore che consenta di vagliare il diritto. Questo viene rintracciato da Bentham nell’utilità (nasce l’utilitarismo ed ha il via un approccio consequenzialista del diritto che succede a quello deontologico8) che intravede nelle norme stesse il fondamento dei diritti.
Il diritto non è più preesistente allo Stato ma è una sua diretta creazione che funge da autolimite. Il diritto soggettivo va ora a dipendere da quello oggettivo dello stato, fino ad arrivare a Kelsen il quale porterà il diritto soggettivo a coincidere con quello oggettivo. Interessante notare allora il passaggio da diritto come soggettivo oggettivato tipico del liberalismo a diritto come oggettivo che produce il soggettivo.
Il giuspositivismo ha il merito di riportare la ragione con i piedi per terra. I valori universali non sono frutto di un astratto razionalismo ultraterreno ma della ragione degli uomini di un dato periodo storico. Ma neppure questo nuovo razionalismo viene investigato a dovere. Esso viene accettato come dato, e ciò comporta che l’assolutizzazione si sposti dalla ragione in senso stretto agli effetti che essa produce. Le categorie del diritto non vengono pensate come categoria storica ma come necessaria conseguenza della razionalità degli uomini9.
Ancora una volta possiamo notare come l’oggettivo venga totalmente assorbito dal soggettivo. I valori vengono ricondotti ad una a-storica ragione umana che non riconosce altro all’infuori di sè. Non esistono condizioni sociali, materiali, politiche che producono effetti sulle categorie giuridiche, ma sono le costruzioni dell’uomo a creare le condizioni reali.
Sebbene lo faccia da un punto di vista idealistico, già Hegel comprende la necessità di superare i limiti dell’idealismo soggettivo tramite la comprensione di ciò che per l’uomo appare come altro da sé. Il suo tentativo di istaurare un confronto tra oggettivo e soggettivo che trapassi nell’Assoluto prende forma proprio dalla consapevolezza della necessità di non pensare il soggetto come im-mediato.
Per Hegel infatti non esiste un naturale in senso astratto ed assoluto, poiché l’uomo è sempre inserito in un contesto sociale con il quale ha da fare i conti. Da qui deriva il suo bisogno di mediazione. Dal fatto che, dal contatto con gli altri l’uomo comprende la sua finitezza che è anche libertà poiché lo induce ad investigare ciò che si trova fuori da sé. Solo attraverso questa tensione alla conoscenza il singolo potrà conciliarsi con il tutto, il parziale con il generale. La critica qui è principalmente rivolta non solo all’immediatezza del soggetto kantiano, ma anche alle teorie liberali che vedono il soggetto come dato, e capace, perché completo, di passare dal singolare all’universale senza mediare con l’altro da sé. A questa visione individualistica viene contrapposta una concezione “orizzontale” dell’uomo, il quale costruisce la sua libertà insieme con l’altro, pensando se stesso alla luce della sua divisione tra parte e tutto.
Si tratta allora di uno sforzo teso alla conciliazione di due concezioni del sé totalmente opposte: una che prevede l’identità del sé a prescindere dal contesto sociale (il soggetto diviene allora una specie di “puro essere razionale” impermeabile a qualunque determinazione storica e sociale), l’altra, all’inverso, che prevede che l’identità si costituisca senza alcun distacco dal contesto esterno, e che vede dunque l’uomo come prigioniero delle circostanze sociali e storiche della sua costituzione.
Il rischio pare allora quello di pensare astrattamente l’individuo come completo e non comprendere che proprio la sua incompletezza, per dirla indebitamente alla maniera dello Hegel, gli consente di analizzare ciò che è fuori da lui, che su di lui produce effetti, e quindi di completarsi non incorporando immediatamente l’oggettivo ma mediando con esso.
Anche il movimento operaio riprende questa impostazione teorica. L’uomo non nasce libero, ma costretto dall’insicurezza della vita, dal disagio ontologico e dalle condizioni concrete in cui si trova. Le circostanze che gli si presentano alla nascita non sono da lui pensate, ma sono qualcosa di dato, frutto dell’addomesticamento del mondo che gli uomini prima di lui hanno tentato e che su di lui producono effetti. A questo punto ogni essere umano conosce l’altro da sè, che però non è per lui costrizione, ma condizione stessa di riflessione su sé e sull’altro. Questa riflessione, che è continua ricerca del proprio posto nel mondo, diviene allora il viatico per la costruzione di una libertà che è sempre libertà collettiva, mai individuale, perché costruita assieme all’altro e non contro all’altro. Il mondo non è allora a portata di mano ma è conoscibile e correttamente interpretabile solo attraverso questo sforzo collettivo di costruzione che si compie attraverso il lavoro. Il lavoro diventa non più mezzo per comperare altri beni rispetto a quelli da me prodotti (come in Locke) ma il mezzo stesso che può condurre l’uomo alla sua liberazione, strumento di conoscenza e di collegamento con l’altro, con il mondo esterno.
Seppure riprendendo le fila del discorso sul rapporto tra il soggettivo e l’oggettivo, che si presenta come fondamentale per costituire un’appendice filosofica di riferimento, le critiche mosse da Marx alle teorie giusnaturaliste prima e giuspositiviste poi, riguardano prevalentemente aspetti socio/economici e politici.
Per quanto riguarda il rapporto tra soggetto e oggetto, Marx non riconosce, da materialista, né la riduzione oggettiva del soggetto, né quella soggettiva dell’oggetto, neppure nella formula specifica di assoluto pensata da Hegel. Stiamo parlando del principio della trasformazione della dialettica hegeliana da dialettica idealistica a dialettica materialistica. L’oggetto non è valutato in Marx come rozza empiria da riassorbire nel soggettivo, ma come storicamente determinato, perciò non dileguabile nel soggettivo.
Il rapporto idea-realtà è allora una dialettica di unità-distinzione che non si prefigge di annullare né il primo né il secondo termine. Il pilone portante di questa teoria non deve essere l’ unità ideale, ma proprio il riconoscimento della stabile eterogeneità dei due termini, quindi la ricomprensione dell’ideale nel reale, l’idea come non prevaricante l’oggetto poiché in rapporto con esso pone la sua verificabilità.
Perché la società non dilegui nell’idea di società, bisogna riferirsi ad essa come qualcosa di determinato che sull’idea stessa produce degli effetti. La comprensione di questi effetti è l’unica strada che l’uomo deve compiere per evitare il determinismo e divenire parte attiva nella trasformazione della realtà.
L’analisi concreta muove allora dalle condizioni economiche e sociali in cui gli uomini si trovano in un dato momento storico, e dalla comprensione delle categorie giuridiche come riproduzione di una struttura sociale determinata. Seppure si fondi sulla volontà di ordinare il reale, la superstruttura giuridica riflette gli interessi della classe borghese, ed è questo il motivo per il quale si manifesta una discrasia tra valori assolutizzati e la concreta attuazione degli stessi.
Marx fa notare che in realtà questi valori che vengono presentati come universali hanno una natura particolare che deriva dagli interessi specifici della classe borghese. Nei fatti, se si guarda agli effetti ed all’attuazione concreta di tali diritti si nota come l’enunciazione non coincide con l’effettiva attuazione che rimane appannaggio di un tipo specifico di uomo e non dell’uomo in generale.
Questa costruzione teorica diventa allora funzionale allo sviluppo della proprietà borghese, all’affermazione dell’homo oeconomicus moderno, dell’individualismo e dell’accumulazione capitalistica.
Se si vogliono veramente affermare i valori che l’uomo erige secondo ragione bisogna allora indirizzare lo sguardo verso la realtà concreta per analizzarne a fondo gli istituti ed evidenziarne le contraddizioni. L’avanzamento della borghesia è prima di ogni cosa conseguimento di fini materiali. L’azione politica borghese è finalizzata all’affermazione del modo di produzione capitalistico che costruisce a suo sostegno superstrutture teoriche per accrescerne la legittimazione. Tra tutte le superstrutture, quella dei diritti è la più caratteristica in quanto preposta alla costruzione di una nuova tipologia di rapporti interpersonali.
A questo punto lo sforzo di ripensamento delle categorie del sistema capitalistico si designa come azione collettiva dei sottoposti all’ordine dato, e mai catarsi individuale, processo di distaccamento dal tutto. La liberazione è sempre collettiva e basata sulla costruzione di un ordine nuovo che tenda a riconoscere dialetticamente le contraddizioni del presente e si impegni a superarle. In questo sforzo è contenuta la soluzione tra enunciato teorico ed attuazione pratica dei valori di riferimento.
L’unione tra astratto e concreto, tra enunciato ed attuazione pratica dei valori, potrà avvenire soltanto rapportando dialetticamente le sovrastrutture teoriche con la contingenza storica, riconoscendo il nesso tra esigenze concrete e teorizzazione di supporto ad esse. Attraverso questo sforzo si coglie tutto il reale, lo si approfondisce e ci si libera dalle sue determinazioni. Si passa allora dal determinismo economico/politico al costruzionismo come elaborazione consapevole di un modello alternativo di organizzazione sociale ed economica.
La comprensione di questa lacerazione tra realtà oggettiva e realtà idealizzata è fondamentale per il ripensamento di tali concetti. Questa si presenta una sfida necessaria alla sinistra per riformulare la sua visione dei diritti: riconnettere i valori a fondamento dei diritti umani con i rapporti di produzione è l’unico modo per renderli finalmente universalmente applicati. Se questo sforzo non verrà compiuto la formulazione resterà astratta manifestazione di intenti intrappolata in una realtà piena di contraddizioni e di storture.
1 Per conflitto ontologico si intende la condizione dell’uomo nel suo essere. L’uomo nasce incompleto, insicuro di fronte all’infinito e calato sin da subito in contesti sociali che sono altro da lui. Questa condizione lo pone alla continua ricerca di senso, e presuppone la libertà come costruzione collettiva anziché come catarsi individuale contro istituzioni e comunità.
2 Vedasi annosa questione sul tema dell’eutanasia e sulla possibilità del soggetto titolare di diritti di poter disporre o non disporre di essi.
3 Il socialismo dall’utopia alla scienza Friedrich Engels
4 Questo contrasto tra leggi positive e legge divina si ritrova già nella splendida tragedia del Sofocle: L’Antigone.
5 Inizia da qui la critica che definirei Realista alla concezione assolutizzata di diritti che hanno in realtà natura immanente.
6 J.Locke, Trattato sul governo.
7 Nasce in questi anni la Giurisprudenza.
8 sarebbe molto interessante approfondire questo legame filosofico e gli effetti concreti che il nuovo approccio produce sia riguardo al diritto sia con l’attenzione ai processi sciali.
9 Per la riconduzione del positivismo nell’alveo dell’idealismo si guardi: Materialismo ed Empiriocriticismo di V.Lenin
Bibliografia
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