Comunità energetiche e autoconsumo: verso una Legge regionale
- 20 Dicembre 2021

Comunità energetiche e autoconsumo: verso una Legge regionale

Scritto da Giuseppe Palazzo

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Le comunità energetiche sono tra gli esempi di iniziative di decarbonizzazione menzionati nel Patto per il Lavoro e per il Clima della Regione Emilia-Romagna. Fanno parte delle linee di intervento nell’ambito della transizione ecologica: «incrementare la produzione e l’utilizzo di energie rinnovabili e l’accumulo, anche in forma diffusa, attraverso una Legge regionale sulle comunità energetiche». Per quanto poco presenti nel dibattito pubblico, le iniziative “dal basso” nel mondo energetico hanno un grande potenziale sia in termini quantitativi (elettricità prodotta e ricadute economiche) sia qualitativi, generando benefici ambientali, economici e sociali per i singoli, sotto forma di risparmi in bolletta ad esempio, e per la collettività. Questo articolo punta a spiegare che cosa si intende quando si parla di iniziative di questo tipo e fornisce un quadro dei benefici che portano, segnalando alcuni importanti esempi nel territorio emiliano-romagnolo.

 

Comunità energetiche e non solo

Dare una definizione delle iniziative di partecipazione “dal basso” nel settore energetico non è così semplice. Ve ne sono di diverso tipo ma tutte consistono in gruppi di cittadini e/o imprese che realizzano impianti rinnovabili. Oltre che di comunità energetiche spesso si parla di cooperative energetiche, dato che la cooperativa è una delle forme societarie più utilizzate da queste esperienze, ma non l’unica. Anche il termine “comunità” può servire per descrivere molte di esse ma non tutte. Si tratta comunque di un termine usato in modi diversi: in base a quello che si intende per comunità energetica si possono includere nella definizione tante o poche realtà. La normativa, europea e nazionale, ancora in fieri, adotta una definizione “ristretta” rispetto all’uso, spesso probabilmente poco rigoroso, che si fa dell’espressione “comunità energetica”. Ma, come vedremo, nella normativa non ci sono solo le comunità. Nel corso dell’articolo si farà riferimento alle definizioni adottate dal legislatore.

Come spiega il rapporto della società di consulenza Elemens, la normativa europea prevede quattro modelli: autoconsumo collettivo e Comunità (energetiche) Rinnovabili (di seguito CER), introdotti dalla direttiva RED II, e Comunità di Cittadini e Cliente Attivo, introdotti dalla direttiva IEM. Questi ultimi non sono molto diversi dai primi ma prevedono impianti basati non necessariamente su rinnovabili. Pertanto, su questi modelli non ci soffermiamo. Gli impianti possono essere di proprietà degli stessi partecipanti o di una società terza, di solito una ESCO (energy service company)[1]. In Italia il decreto Milleproroghe 2020 recepisce in anticipo e in modo sperimentale la direttiva RED II. Nel settembre 2020 l’allora Ministro dello sviluppo economico, Patuanelli, ne ha firmato il decreto attuativo. Oggi in Italia sono pertanto costituibili l’autoconsumo collettivo e le CER, nel rispetto delle condizioni sintetizzate efficacemente dallo studio di Elemens.

L’autoconsumo collettivo riguarda solo i soggetti all’interno di un singolo edificio e vi possono essere più impianti, purché installati sullo stesso edificio. Per edificio si intende un condominio, ospitante domicili, imprese e negozi, ad esempio, ma anche stabili adibiti solo a uffici. La natura di condominio e le dinamiche di vicinato possono configurare una situazione in cui l’iniziativa viene presa dai diretti interessati, che possono rivolgersi a una ESCO per le soluzioni tecniche. In generale, più il contesto è ampio, più riguarda un numero elevato di soggetti diversi tra loro, più è probabile che l’iniziativa sia presa da enti pubblici o dalle imprese del settore, che possono avanzare delle proposte. Le CER possono coinvolgere domicili, PMI ed enti della PA connessi alla stessa cabina di trasformazione dalla media alla bassa tensione (si tratta di un’area paragonabile alla via di una grande città o al quartiere di un paese). Di solito in queste configurazioni il ruolo del pubblico e delle ESCO è importante.

CER e autoconsumo collettivo generano proventi per i partecipanti. Si tratta di incentivi (100 €/MWh per l’autoconsumo e 110 per le CER), di un riconoscimento per i risparmi a vantaggio del sistema elettrico italiano e dei profitti della vendita alla rete nazionale dell’energia non autoconsumata. In entrambe le configurazioni gli impianti non devono essere entrati in esercizio prima del 1° marzo 2020 e devono avere una potenza massima di 200 kW ciascuno. Tutte le iniziative che non rispettano questi criteri non costituiscono, formalmente, CER o autoconsumo collettivo.

Infatti, Legambiente auspica che nel processo che porterà al completo recepimento della direttiva RED II siano rimosse alcune limitazioni[2]. In particolare che siano estesi il dimensionamento delle CER e la platea di soggetti partecipanti. Da un lato l’aumento della dimensione permetterebbe, ad esempio, di realizzare comunità che includano un intero Comune in contesti rurali o montani. Dall’altro poter coinvolgere ONG ed Enti del Terzo settore potrebbe attivare nuove energie preziose per iniziative dal carattere partecipativo. Inoltre, gli incentivi, ad oggi, sono indipendenti dalla dimensione degli impianti, scoraggiando l’utilizzo di impianti più potenti, e riducendo le possibilità di realizzare maggiori economie di scala[3]. Si tratta di limiti che saranno superati, stando al decreto legislativo 199/2021 pubblicato il 30 novembre scorso. La potenza massima dovrebbe passare da 200 kW a 1 MW, mentre il perimetro delle CER dovrebbe essere esteso dall’area sottesa alla stessa cabina secondaria (che trasforma l’elettricità da media a bassa tensione) all’area, più vasta, sottesa alla stessa cabina primaria (che trasforma l’elettricità da alta a media tensione)[4].

Oltre a questi spunti offerti da Elemens e Legambiente, sono importanti le osservazioni dell’RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), che sottolinea come le CER, oltre a produrre elettricità rinnovabile, possono rispondere a esigenze delle comunità locali. Un ruolo, questo, ben evidenziato nella RED II. La diffusione delle rinnovabili sul territorio, per contribuire a un vero sviluppo locale, secondo l’RSE, deve coinvolgere i cittadini. Le opposizioni che si manifestano in diverse situazioni derivano da interventi calati dall’alto, i cui benefici non vengono redistribuiti localmente, che non generano nuove opportunità per le comunità locali e che non si integrano col territorio. Il modello delle CER, se valorizzato anche sotto questi aspetti, supera questi limiti[5].

 

I benefici di comunità e autoconsumo

In termini quantitativi il contributo al sistema energetico e al processo di decarbonizzazione è tutt’altro che marginale[6]. Secondo le stime di Elemens, autoconsumo collettivo e CER, alle condizioni stabilite dall’attuale normativa italiana, possono raggiungere, tra il 2021 e il 2030, 11 GW di capacità. La stima sale a 17,2 GW nel caso in cui si accogliessero le richieste di modifica avanzate da Legambiente e da Elemens. 17,2 GW di capacità significano un incremento della produzione rinnovabile di 22,8 TWh, ovvero il 30% della quantità di energia pulita che l’Italia deve produrre in più rispetto ad oggi per conseguire gli impegni presi nel PNIEC. Le emissioni sarebbero ridotte, da oggi fino al 2030, di oltre 47 milioni di tonnellate di CO₂. Inoltre, il minor costo dell’elettricità prodotta tramite queste iniziative, rispetto a quella fornita dalla rete nazionale, renderebbe più economica l’elettrificazione del riscaldamento e della mobilità. Nel prossimo decennio il valore aggiunto per le aziende della filiera rinnovabile ammonterebbe a 2,2 miliardi di euro, con un gettito fiscale di 1,1 miliardi e la creazione di 38.000 posti di lavoro.

Oltre a questi benefici RSE ricorda come le CER e l’autoconsumo costituiscono un vantaggio per la rete. La generazione distribuita, tramite impianti rinnovabili diffusi, si avvicina ai poli di consumo e contribuisce a ridurre le perdite di rete. Inoltre, CER e autoconsumo collettivo permettono di aggregare più impianti rinnovabili e sistemi di accumulo in modo che possano fornire servizi di flessibilità[7]: possono contribuire, immettendo più o meno elettricità nella rete, al mantenimento dell’equilibrio del sistema elettrico[8].

I benefici sociali sono più difficili da misurare. Riguardano il contrasto alla povertà energetica, in presenza di strumenti e incentivi che non escludano da queste iniziative le fasce più in difficoltà. Riguardano la catalizzazione dell’imprenditorialità locale, che attorno alle rinnovabili può trovare nuove opportunità, costruire nuove «filiere corte locali, ad alto valore aggiunto e a forte valenza conoscitiva e tecnologica»[9]. Gli stessi proventi generati dall’elettricità prodotta dalle comunità possono essere usati per rispondere a esigenze locali. Le CER e l’autoconsumo collettivo possono essere la base per un welfare “dal basso”. Su questi aspetti la normativa europea è esplicita. Le CER devono rispondere a esigenze, progettualità e finalità locali, con un ruolo delle imprese energetiche legato alla fornitura degli impianti, alla loro installazione e a forme di supporto e condivisione di know-how.

 

Cosa possono fare le Regioni

Il compito delle istituzioni dovrebbe essere quello di fornire gli strumenti e il supporto necessari per incoraggiare queste iniziative. In particolare, ha spiegato a «Pandora Rivista» Matteo Zulianello, vice-responsabile del progetto RSE legato alle CER, le Regioni possono svolgere efficacemente questo ruolo purché non introducano definizioni e meccanismi confliggenti con la normativa europea e nazionale ed evitino specificità molto diverse tra le zone del Paese. Le Regioni possono introdurre meccanismi «con una natura addizionale e non sostitutiva rispetto a quanto stabilito a livello nazionale». «Pertanto, possono introdurre dei meccanismi incentivanti aggiuntivi legati a degli aspetti non considerati dalla normativa nazionale. Possono ricorrere a premialità extra o a iter preferenziali per autorizzazioni e riscontri sull’analisi di fattibilità dei progetti. Meccanismi che possono essere rivolti a comunità energetiche che, oltre a soddisfare i requisiti nazionali, rispondono a esigenze di tipo locale. Ad esempio, per riconoscere il fatto che una comunità utilizza risorse locali (ad esempio la biomassa legnosa entro 30 km di approvvigionamento) o contribuisce a contrastare la povertà energetica», che ancora oggi in Italia riguarda due milioni di famiglie. Altri criteri possono riguardare l’elettrificazione dei consumi, l’uso di sistemi di accumulo come batterie e l’uso di tecnologie che valorizzano il territorio.

La cura da parte delle istituzioni è importante per impedire che diverse iniziative si arenino. Fra le principali sfide riscontrate dalle cooperative rinnovabili in Germania, ma comuni anche in Italia[10], vi sono la percezione del, e l’avversione al, rischio (soprattutto riguardo agli investimenti) e la mancanza di risorse come tempo, competenze e capitali[11]. Gli incentivi, un assetto normativo stabile e una semplificazione a livello burocratico non possono che ridurre le barriere che scoraggiano o ostacolano iniziative come queste[12]. Si tratta di aspetti da tenere a mente, soprattutto ora che la Regione Emilia-Romagna intende dotarsi di una Legge regionale sulle comunità energetiche. In particolare, secondo Zulianello, la legge può servire a «indirizzare il lavoro delle amministrazioni pubbliche in vista dell’implementazione del PNRR, che riconosce un ruolo rilevante ai Comuni con meno di 5.000 abitanti. Si tratta di Comuni spesso sprovvisti delle competenze necessarie e che quindi avranno bisogno di supporto a livello di politiche territoriali ed energetiche».

 

Le iniziative in Emilia-Romagna

È evidente come il contributo che autoconsumo collettivo e CER danno sia potenzialmente determinante nel rispetto degli impegni sulla decarbonizzazione da parte del Paese. Più ci si dà obiettivi ambiziosi e più le risorse e le competenze dei cittadini e delle imprese devono essere coinvolte. Soprattutto considerando l’obiettivo dell’Emilia-Romagna di conseguire la totale decarbonizzazione della Regione prima del 2050 e la transizione a energia 100% rinnovabile entro il 2035. Un balzo importante dato che i consumi energetici finali lordi di energia della Regione sono coperti da rinnovabili per l’11,3% (dato 2019 del GSE, esclusi i trasporti)[13]. Il territorio emiliano-romagnolo conosce comunque questo genere di esperienze e le istituzioni locali hanno già dimostrato di saperle sostenere. L’intenzione di dotarsi, inoltre, di una Legge regionale ad hoc può fornire agli emiliano-romagnoli uno strumento molto utile per il conseguimento dei diversi obiettivi fissati dal Patto per il Lavoro e per il Clima, dalla transizione energetica al contrasto alle disuguaglianze territoriali.

Legambiente segnala la presenza di 25 esperienze particolarmente interessanti in Emilia-Romagna, considerate buone pratiche e storie di innovazione[14]. A causa dell’uso generalizzato non rigoroso dell’espressione “comunità energetica” è difficile fornire dei numeri relativi a quante iniziative di comunità e autoconsumo collettivo esistono nella Regione e quanta energia producono. Anche perché, come ci spiega Matteo Zulianello di RSE, la normativa in vigore è recente e molte esperienze realizzate negli anni precedenti, per quanto comunemente definite comunità energetiche, a livello normativo non sono tali (ad esempio perché hanno impianti più grandi di 200 kW o in esercizio prima del 1° marzo 2020)[15]. Inoltre, la situazione cambierà ancora con il recepimento completo della direttiva RED II.

È comunque opportuno menzionare alcune delle esperienze che, su scale e con caratteristiche diverse, risultano più significative[16] nel contesto Regione Emilia-Romagna, anche se precedenti alla normativa esposta in questo articolo. Tra queste emerge in particolare il progetto GECO (Green Energy COmmunity), avviato nel 2019 nelle zone di Pilastro e Roveri di Bologna col supporto economico e la collaborazione del fondo europeo EIT Climate-KIC, dell’Agenzia per l’Energia e lo Sviluppo Sostenibile (AESS), di ENEA e dell’Università di Bologna, nonché del Comune e della Regione. Tra gli elementi che più colpiscono di GECO vi è l’area interessata e il numero di soggetti coinvolti: 7.500 abitanti, di cui 1.400 in alloggi sociali, 200.000 mq di area agricola e 1 milione di mq di area industriale. Infatti, Felipe Barroco di AESS ha descritto il progetto a «Pandora Rivista» come un energy district, «una simbiosi energetica che mette a sistema commerciale, industriale e residenziale»[17]. Al momento, installata soprattutto sui tetti del Centro Agroalimentare di Bologna e della Fondazione FICO, la capacità di produzione solare ammonta a circa 18 MW (il tetto solare più grande d’Europa). Entro il 2023 sarà installata una potenza fotovoltaica ulteriore di 14 MW, associata a sistemi di accumulo che renderanno residenti e aziende veri prosumer. La riduzione di emissioni di CO2 ammonterà a circa 58.000 tonnellate annue. Inoltre, il tutto sarà accompagnato da una piattaforma per l’analisi dei flussi di energia, curata dall’Università di Bologna, e un sistema blockchain per la registrazione dell’autoconsumo, a cura di ENEA. Tuttavia, «l’attuale normativa italiana pone grossi limiti a progetti ambiziosi come questo», spiega Barroco. «Ci troviamo in un limbo, in attesa del completo recepimento della RED II che, tra l’attuazione da parte dell’Autorità e le verifiche lato RSE, non sarà effettivamente in vigore prima di aprile 2022. Il tutto è stato comprensibilmente rallentato dalla pandemia ma ora è necessario riporre l’attenzione sul tema in vista dei 2,2 miliardi di euro stanziati per le CER dal PNRR. Non trattandosi di denaro a fondo perduto, il business plan delle iniziative deve essere solido ma occorre una normativa completa e definitiva che non lasci dubbi agli investitori»[18].

Un’esperienza che vede tra i promotori privati cittadini è quella dell’associazione Comunità Energetica di San Lazzaro di Savena (BO). 15 cittadini hanno realizzato un impianto fotovoltaico da 20 kW sul tetto della scuola elementare, al quale l’impianto è stato donato. L’elettricità viene autoconsumata dalla scuola, mentre i proventi degli incentivi vanno all’associazione[19]. Degna di interesse è, inoltre, l’iniziativa promossa a Imola da Bryo, ESCO pubblico-privata legata al consorzio ConAmi, interessata a estendere il proprio business alle CER. Gli impianti saranno installati e finanziati da Bryo. Gli incentivi saranno incassati dalla ESCO ma l’energia prodotta andrà a beneficio di quattro aziende meccaniche, che avranno risparmi del 20% per le spese energetiche. Alla fine del periodo di erogazione degli incentivi la proprietà dell’impianto passerà alla CER[20]. Un altro esempio è quello dell’Ecovillaggio Montale di Castelnuovo Rangone (MO) promosso dal Comune e dalla Società Immobiliare Bertuccia S.r.l. L’autoproduzione solare, di 103 kW di potenza complessiva, si inserisce nel progetto di un villaggio che, tra abitazioni altamente efficienti, programmi di riforestazione e valorizzazione della mobilità dolce e elettrica, costituisce un modello urbanistico a emissioni negative.

 

Conclusioni

È chiaro come autoconsumo collettivo e CER rientrino del tutto nello spirito e nelle finalità del Patto per il Lavoro e per il Clima. Possono dare un contributo importante alla decarbonizzazione e alla riduzione delle disuguaglianze, territoriali e non. Fra le linee di intervento del Patto vi è la promozione di «sostenibilità, innovazione e attrattività dei centri storici attraverso lo sviluppo di processi di rigenerazione». Si intende perseguire una transizione che abbia ricadute positive sulla coesione e sulla competitività dei territori, sottolineando che non si tratta solo di innovazione tecnologica ma anche di innovazione sociale. E attorno alle rinnovabili, sfruttabili con impianti diffusi e a costi accessibili, le aree interne possono trovare una nuova fonte di partecipazione e opportunità economiche. Per non parlare dell’attenzione posta dal Patto sulla responsabilizzazione dei cittadini. Finora le rinnovabili si sono diffuse sul territorio con un’ottica top-down, senza coinvolgere le comunità locali, rendendo il sistema elettrico più orizzontale solo da un punto di vista infrastrutturale, passando da una produzione di elettricità centralizzata a una produzione diffusa. CER e autoconsumo collettivo possono rendere il sistema più orizzontale anche da un punto di vista “democratico”, contribuendo a una cittadinanza protagonista della transizione[21].


[1] Elemens, Il contributo delle Comunità Energetiche alla decarbonizzazione, 2 dicembre 2020.

[2] Legambiente, Comunità rinnovabili 2021, maggio 2021.

[3] Elemens, Il contributo delle Comunità Energetiche alla decarbonizzazione, 2 dicembre 2020.

[4] Ricerca sul Sistema Energetico (RSE), Le comunità energetiche in Italia. Note per il coinvolgimento dei cittadini nella transizione energetica, ottobre 2021.

[5] Idem.

[6] Il mondo delle cooperative rinnovabili tedesche nel suo insieme, per fare l’esempio di un Paese in cima alla lista per quanto concerne queste iniziative, è il quattordicesimo attore del mercato elettrico europeo. Si veda G. Ruggieri, Cittadini o sudditi energetici?, in M. Mariano (a cura di), Come si fa una comunità energetica, Altreconomia, Milano 2020, pp. 11-20.

[7] Si tratta della partecipazione di impianti rinnovabili e sistemi di accumulo al mercato dei servizi di dispacciamento. Il meccanismo è spiegato in G. Palazzo, La svolta delle energie rinnovabili per la rete elettrica, «pandorarivista.it», 11 febbraio 2020.

[8] Purché il meccanismo sia opportunamente regolato. «In questo contesto è centrale la regolazione e la valorizzazione di questi servizi, dato che garantire determinati margini di flessibilità potrebbe deteriorare le prestazioni dello schema in termini di autoconsumo e di conseguenza i vantaggi economici complessivi per la CE (comunità energetica)», Ricerca sul Sistema Energetico (RSE), Le comunità energetiche in Italia, p. 62.

[9] Idem, p. 67.

[10] Si veda G. Palazzo, Energie condivise: cooperative e rinnovabili. Intervista a Gianluca Ruggieri, «pandorarivista.it», 5 agosto 2021.

[11] C. Herbes, V. Brummer, J. Rognli, S. Blazejewski e N. Gericke, Responding to policy change: New business models for renewable energy cooperatives – Barrier perceived by cooperatives’ members, «Energy Policy» 109 issue C, (2017), pp. 82-95.

[12] In particolare, nel nostro Paese gli iter burocratici sono uno dei fattori critici più dannosi per la diffusione delle rinnovabili, che già da prima della pandemia è molto rallentata, diversamente da altri Paesi UE. Si veda Energy Strategy, Renewable Energy Report – Il Green Deal europeo: un laboratorio di idee per lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, maggio 2021.

[13] Gestore Servizi Energetici (GSE), Fonti rinnovabili in Italia e nelle Regioni – 2012-2019, Monitoraggio dei target nazionali e regionali – burden sharing, Rapporto di monitoraggio luglio 2021, luglio 2021. Per consumi finali lordi di energia ENEA intende: «Totale dei prodotti energetici forniti a scopi energetici all’industria, ai trasporti, alle famiglie, ai servizi, compresi i servizi pubblici, all’agricoltura, alla silvicoltura e alla pesca, ivi compreso il consumo di elettricità e di calore del settore elettrico per la produzione di elettricità e di calore, incluse le perdite di elettricità e di calore con la distribuzione e la trasmissione».

[14] Legambiente, Comunità rinnovabili 2021, maggio 2021.

[15] Intervista a Matteo Zulianello (RSE) svolta telefonicamente in data 10 novembre 2021.

[16] Legambiente, Comunità rinnovabili 2021, maggio 2021.

[17] Intervista a Felipe Barroco (AESS) svolta telefonicamente in data 26 novembre 2021.

[18] Idem.

[19] Legambiente, Comunità rinnovabili 2021, maggio 2021.

[20] D. Patrucco, Un progetto di Comunità Energetica nella zona industriale di Imola, QualEnergia.it, 8 luglio 2021. Si veda anche sul sito di Bryo: https://www.bryo-spa.it/2021/06/04/nascera-a-imola-la-prima-comunita-energetica-in-italia-targata-bryo/

[21] Ricerca sul Sistema Energetico (RSE), Le comunità energetiche in Italia, novembre 2021.

Scritto da
Giuseppe Palazzo

Laureato in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, si è poi specializzato nel settore energetico, conseguendo un MSc in Global Energy and Climate Policy presso la SOAS University of London e un master in Energy Management presso il MIP Politecnico di Milano. Ha intrapreso percorsi legati alle politiche pubbliche ed europee, presso ISPI e Scuola di Politiche, e legati alla regolazione del settore energetico italiano presso l’Università di Siena. Ha lavorato come consulente in BIP, ora è project manager per le attività internazionali di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), dipartimento Sviluppo sostenibile e Fonti energetiche.

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