Il Patto come strumento di policy e come metodo di governance: tra innovazione e replicabilità
- 20 Dicembre 2021

Il Patto come strumento di policy e come metodo di governance: tra innovazione e replicabilità

Scritto da Gianluca Scarano

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La maggiore importanza che oggi assumono processi di “transizione ecologica” si deve alla crescente necessità di intensificare le risposte dei governi per far fronte al surriscaldamento globale e prevenire cambiamenti climatici non reversibili. A questo occorre aggiungere anche la consapevolezza che la pandemia stessa ha radici “socio-ambientali”, dal momento che la diffusione di virus di origine animale, come il Covid-19, è una conseguenza dell’alterazione di ecosistemi naturali da parte dell’uomo. In altri termini, cambiamenti climatici e naturali sono il risultato degli effetti che le attività produttive moderne hanno sull’ambiente. Il concetto di “transizione ecologica” si riferisce pertanto all’insieme delle trasformazioni del sistema produttivo necessarie per minimizzare l’impatto ambientale delle attività economiche. Man mano che i problemi ambientali aumentano, sfide sociali ed economiche, acuite e non ancora risolte a seguito della Grande recessione, chiamano in causa risposte future di politica economica e del lavoro che dovranno necessariamente essere green, ovvero tali da soddisfare criteri di sostenibilità ambientale. A tal proposito, organismi internazionali, come le Nazioni Unite e l’Unione Europea, hanno promosso iniziative che hanno lo scopo di indirizzare le politiche nazionali verso obiettivi di sostenibilità ambientale da raggiungere nel medio-lungo periodo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile del 2015, con target fissati al 2030; il Green Deal europeo del 2019, con target stabiliti al 2050. Il governo italiano ha adottato, nel 2017, una Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile (SNSvS), quale quadro strategico di riferimento per le politiche settoriali e territoriali che hanno il compito di declinare a livello nazionale gli obiettivi dell’Agenda 2030. In particolare, la SNSvS ha attribuito alle Regioni un ruolo di primo piano nell’implementazione delle politiche necessarie per il raggiungimento dei target stabiliti a livello internazionale.

È in questo contesto che la Regione Emilia-Romagna ha costruito il Patto per il Lavoro e per il Clima (di seguito Patto), siglato sul finire del 2020, quale iniziativa politica dell’amministrazione regionale finalizzata a progettare e integrare interventi di sviluppo economico e occupazionale, coerenti con la realizzazione di un processo di transizione ecologica. L’elaborazione di questa iniziativa ha seguito il medesimo percorso istituzionale già inaugurato dal Patto per il Lavoro, siglato nel 2015. Come in quel caso, anche nel Patto del 2020 si registra la volontà dell’amministrazione regionale di massimizzare investimenti pubblici e privati, sfruttando gli spazi di programmazione e finanziamento dell’Unione Europea. Il legame tra ambiente e sviluppo economico, nel caso dell’Emilia-Romagna, diventa particolarmente evidente quando si considera un’area come la pianura Padana, che rappresenta la zona a maggiore concentrazione manifatturiera d’Italia e si caratterizza per un elevato livello di capitale produttivo e di capitale naturale allo stesso tempo.

È possibile analizzare questa iniziativa attraverso una duplice prospettiva: il Patto come policy; il Patto come metodologia di policy-making. Questo esercizio permette di comprendere le specificità del Patto e ricondurle sul dibattito più recente, sia accademico che istituzionale. Un modo per riflettere sui punti di forza e di maggiore complessità dello strumento, nonché per interrogarsi su una sua eventuale possibilità di essere replicato in altri contesti territoriali.

Il Patto come policy chiama in causa una riflessione che riguarda tre dimensioni della transizione ecologica: la relazione con la crescita economica; il ruolo delle politiche del lavoro; l’interazione con le politiche per l’innovazione. Più in generale, il Patto si divide in “quattro obiettivi strategici” e quattro “processi trasversali”; dove ciascuno di questi assi a sua volta si articola in molteplici linee di intervento. La differenza tra i due assi risiederebbe in una diversa destinazione delle risorse, a seconda che queste vengano indirizzate a interventi chiave per il successo del Patto o ad iniziative ad ampio spettro ritenute essenziali per tutti gli obiettivi strategici. Per semplicità possiamo riassumere gli interventi previsti, raggruppandoli in sette macro-aree: green policy, formazione, occupazione, welfare, incentivi per le imprese e l’imprenditorialità; digitalizzazione del settore pubblico e privato; semplificazione amministrativa. In particolare, le green policy adottate dal Patto ruotano principalmente attorno a misure finalizzate a raggiungere un effetto positivo netto sulla competitività delle imprese regolamentate. Tali politiche sarebbero, infatti, destinate a incoraggiare miglioramenti di efficienza nella gestione dei costi delle imprese, che a loro volta compenserebbero i costi dovuti alla regolamentazione in materia ambientale, laddove l’investimento in nuove tecnologie ricopre un ruolo cruciale per questi scopi[1]. A queste misure occorre aggiungerne ulteriori che investono il rapporto tra caratteristiche dell’ambiente, qualità di vita e modelli di consumo: la tutela di risorse naturali, boschive, idriche e del verde urbano; la promozione del turismo sostenibile, della mobilità sostenibile, dell’agricoltura biologica e delle filiere corte; la gestione dei rifiuti basata su raccolta differenziata; consumo di suolo e superamento delle plastiche monouso.

È importante tenere a mente che il Patto chiama in causa politiche per l’ambiente e politiche sociali che mirano a promuovere la crescita economica attraverso il supporto e l’integrazione con politiche finalizzate a incentivare investimenti di tipo green. Al contrario, il dibattito sul tema ha registrato in passato anche la previsione di politiche “eco-sociali” non necessariamente orientate alla crescita economica e anzi in contrasto con essa, in quanto incentrate su un paradigma di “decrescita”, mettendo in discussione la desiderabilità stessa della crescita economica[2]. Nel contesto del Patto, al contrario, le green policy sono l’ambito di intervento primario per realizzare una crescita economica sostenibile, o “verde”, dal momento che sono progettate per allineare gli incentivi economici con la responsabilità ambientale. Approcci di questo tipo sfidano un modello neoliberale puramente growth-first, il quale assegna la massima priorità alla crescita economica senza vincoli. Alla base di questo vi è infatti la convinzione che la crescita veloce, il libero mercato e le innovazioni tecnologiche senza vincoli siano ingredienti necessari e sufficienti per promuovere lo sviluppo della società. Un approccio che sottostima implicazioni di carattere “socio-ecologico”, laddove la crescita economica illimitata e senza vincoli tende progressivamente a degradare le condizioni stesse per il suo mantenimento[3].

La relazione tra crescita economica sostenibile e buone performance del mercato del lavoro, nel contesto di approcci di policy di tipo win-win, come negli intenti del Patto, è però tutt’altro che scontata. Da un lato, le green policy possono contribuire a obiettivi occupazionali, dall’altro, le politiche del lavoro possono aiutare a raggiungere obiettivi della transizione ecologica. Tuttavia, non c’è un collegamento automatico tra energia pulita o riduzione delle emissioni e buone performance del mercato del lavoro, seppur questi obiettivi possono spesso essere resi complementari. La transizione ecologica comporta aggiustamenti del mercato del lavoro che possono essere caratterizzati da nuova occupazione, così come da perdita di posti di lavoro e cambiamenti nelle competenze e nei profili occupazionali richiesti dal mercato. Trasformazioni produttive orientate a creare una economia “verde” a basse emissioni di carbonio, come nel disegno del Patto, possono per esempio creare opportunità di lavoro nella ricerca e sviluppo, nella produzione, installazione e manutenzione delle tecnologie verdi. Ma possono, allo stesso tempo, andare a detrimento dell’occupazione in altri settori economici, nel momento in cui vengono inibiti gli investimenti nei comparti “non-green[4]. In particolare, una transizione ecologica di successo si distingue per i seguenti effetti sull’occupazione[5]: l’impatto netto sull’occupazione (pari al saldo tra posti di lavoro creati e cessati); la riallocazione di lavoratori da aziende e settori in declino a settori in crescita; la trasformazione di posti di lavoro esistenti per soddisfare requisiti green.

Questi aggiustamenti possono non essere necessariamente simultanei e manifestarsi con maggiore o minore intensità a seconda di un territorio. Va da sé, per esempio, che simili effetti possono essere più problematici per i lavoratori poco qualificati e per quelli appartenenti a comunità mono-industriali. Più in generale, in questi casi l’abilità dei policy-maker sta nel cercare di anticipare possibili fattori di distorsione nel reclutamento e di mismatch nelle competenze, che ostacolerebbero la transizione ecologica, assicurando che gruppi svantaggiati possano beneficiare delle nuove opportunità di lavoro. A tal proposito, l’accento posto dal Patto su concetti come “lavoro di qualità” e “qualità sociale e ambientale” può essere letto in termini di opportunità di inclusione sociale, nella misura in cui gruppi più svantaggiati nella forza lavoro possano effettivamente aver accesso ai potenziali nuovi posti di lavoro associati alla transizione ecologica. In virtù di queste considerazioni, assumono un ruolo chiave gli interventi sul mercato del lavoro che dovrebbero accompagnare la transizione ecologica. Le politiche del lavoro possono contribuire a una strategia complessiva di politica di sviluppo sostenibile riducendo i costi sociali associati alla transizione ecologica. Un contributo che diventerebbe cruciale per assicurare una transizione più rapida e più equa, rafforzando anche il consenso politico alle misure introdotte. Gli interventi più significativi possono riguardare: il sostegno alle imprese per trattenere e/o riqualificare alcuni lavoratori; matching dei lavoratori con nuovi posti di lavoro; identificazione tempestiva dei fabbisogni di competenze; schemi di sostegno al reddito ad hoc per le occupazioni a rischio; orientamento e il supporto alla ricerca attiva per chi viene ricollocato o entra per la prima volta nel nuovo mercato del lavoro.

In questo contesto, le politiche per l’innovazione restano imprescindibili per consentire lo sviluppo di nuove tecnologie, necessarie per dissociare la crescita economica dall’esaurimento delle risorse ambientali. Su questo fronte, gran parte dell’impianto progettuale e finanziario degli interventi messi in campo poggia sulla Strategia di Specializzazione Intelligente (Strategia S3), definita da tutte le Regioni secondo la normativa comunitaria. La Strategia S3 identifica i criteri e le regole, definiti dai livelli di governo nazionali e regionali, che hanno l’obiettivo di individuare le priorità di investimento in ricerca, sviluppo e innovazione della programmazione operativa dei fondi strutturali europei. In particolare, l’ecosistema regionale dell’innovazione è stato codificato in sette aree tematiche, che corrispondono alle priorità strategiche identificate dalla Strategia S3, sulla base dei settori chiave del territorio: tre sistemi produttivi portanti (agroalimentare, edilizia e meccatronica), due ad alto contenuto innovativo (salute e benessere e culturali e creative) e due ambiti trasversali (energia e innovazione nei servizi). Su di esse, la Regione opera per mezzo di organizzazioni specifiche di ricerca e trasferimento tecnologico: i Tecnopoli, la Rete Alta Tecnologia, incubatori di impresa, i Fab Lab e i Clust-ER. Queste costituiscono una rete a loro volta connessa con le reti universitarie, con le reti di imprese, con le reti di scuole. Su queste tematiche un’attenzione particolare va posta sul settore agricolo e, in generale, sul “sistema food”, dal momento che si tratta di uno tra i principali settori responsabili delle emissioni di gas climalteranti, oggetto di recente dibattito in ambito UE[6]. L’insieme di queste strategie deve porsi anche l’obiettivo di realizzare efficacemente iniziative di riequilibrio che caratterizzano le “aree interne” della Regione, vale a dire quei territori – principalmente zona appenninica e basso ferrarese – che in anni recenti sono stati caratterizzati da maggiore debolezza dal punto di vista demografico, occupazionale, dotazione di servizi e opportunità di sviluppo economico. Si tratta, infatti, di territori a forte dotazione di “beni comuni” naturali: risorse fluviali (bacino del Po, Polesine), mare e pesca (Rimini e riviera romagnola, ravennate), bosco (Appennino). A tal proposito, la digitalizzazione appare strettamente connessa alle sfide ambientali. In particolare, l’uso dell’intelligenza artificiale abbinato ai Big Data potrebbe aprire nuove possibilità per il monitoraggio e l’analisi ambientale. Il collegamento di diversi tipi di dati (ad esempio, sulla destinazione del terreno, sugli schemi di circolazione o sugli edifici, con variabili socio-economiche, come i dati sulla popolazione) consentirebbe di raggiungere una capacità di analisi finalizzata ad approfondimenti, previsioni, monitoraggi che riguardano la qualità del territorio, oltreché la mitigazione dei rischi[7].

Come già anticipato, il Patto configura una interessante “metodologia di policy-making”, rispetto alla quale vale la pena interrogarsi su quali potrebbero essere i fattori che ne consentirebbero una replicabilità in altri contesti territoriali. Già negli intenti degli ideatori del Patto per il Lavoro c’era il disegno di creare un modello riproducibile di politica pubblica e di governance dell’amministrazione regionale. In particolare, si parla di all-government approach con riferimento all’integrazione delle politiche che afferiscono a diversi ambiti di intervento: pubblica amministrazione, sistema delle imprese, rete educativa e della ricerca, sistemi di welfare, ambiente e territorio. Rispetto al Patto per il Lavoro del 2015, nel Patto del 2020 l’approccio resta identico, con la principale differenza che le green policy (seppur già presenti nel Patto per il Lavoro) acquisiscono un ruolo preminente e catalizzatore nella progettazione degli interventi di medio-lungo periodo. Laddove, nel caso del suo predecessore, le diverse strategie di intervento erano finalizzate in ultima istanza perseguire obiettivi per il mercato del lavoro e per il tessuto produttivo, in stretta interconnessione tra loro.

Entrambi i patti si caratterizzano per la creazione di una organizzazione reticolare di attori pubblici e privati, secondo un approccio di participate governance (“governo socialmente partecipato”) finalizzato alla ricerca del più ampio consenso su una visione strategica di lungo periodo. Non si fa con ciò riferimento ai soli processi decisionali, bensì alla quantità e qualità delle iniziative sviluppate in rete tra attori pubblici e privati, che possano favorire produzione, condivisione e trasferimento di conoscenze sul territorio[8].

Questa impostazione permette di identificare in maniera chiara un obiettivo e un metodo di valutazione. Se l’obiettivo del Patto per il Lavoro del 2015 era l’aumento del valore aggiunto e la riduzione della disoccupazione (diminuire la disoccupazione almeno fino al 5% entro il 2019), nel caso del Patto del 2020 si tratta della neutralità climatica al 2050. Sia nel 2015 che nel 2020 si fa previsione di riunioni semestrali del tavolo di coordinamento per monitorare lo stato di avanzamento delle azioni intraprese, al fine di valutarne l’impatto ambientale e proporre eventuali integrazioni o modifiche. Laddove il sistema di valutazione deve essere basato su indicatori chiari, misurabili e congrui con gli obiettivi strategici. È a partire da questi due aspetti che si potrebbe ipotizzare una metodologia di policy-making partecipato e collettivo che può divenire di riferimento per altre esperienze.

L’obiettivo del tasso disoccupazione, originariamente fissato dal Patto per il Lavoro, è stato raggiunto arrivando fino al 4,7% nel 2019 (rispetto al 9% di inizio legislatura). Tuttavia, sarebbe riduttivo soffermarsi su questo unico elemento per giudicare il Patto per il Lavoro, il quale, come già anticipato, ha rappresentato un vero e proprio “ombrello” o “contenitore” di iniziative istituzionali riguardanti una pluralità di obiettivi differenti. Gli obiettivi del Patto per il Lavoro e per il Clima sono ancora più ambiziosi perché chiamano in causa sfide molto complesse non solo per l’Emilia-Romagna ma per il sistema economico globale. L’arco temporale di programmazione degli interventi del Patto va dal 2021 al 2027, risultando leggermente più lungo rispetto al precedente. Al termine di questa finestra sarà possibile fare una valutazione, altrettanto complessa e in equilibrio tra benessere socioeconomico ed eco-compatibilità.


[1] M. E. Porter e C. van der Linde, Toward a New Conception of the Environment-Competitiveness Relationship, «Journal of Economic Perspectives», 9-4, (1995), pp. 97-11.

[2] M. Büchs e M. Koch, Challenges for the degrowth transition: The debate about wellbeing, «Futures: the journal of policy, planning and futures studies», 105, (2019), pp. 155-165.

[3] A. Dobson, Justice and the Environment: Conceptions of Environmental Sustainability and Dimensions of Social Justice, Oxford University Press, Oxford 1999; C. Hepburn e A. Bowen, «Prosperity with growth: Economic growth, climate change and environmental limits» in R. Fouquet (a cura di), Handbook of Energy and Climate Change, Edward Elgar Publishing, Cheltenam 2013 pp. 617-638.

[4] N. Pestel, Employment effects of green energy policies, «IZA World of Labor», 76, (2019), pp. 1-11.

[5] OIL e OCSE, Sustainable development, green growth and quality employment. Realizing the potential for mutually reinforcing policies, Background paper for the Meeting G20 dei Ministeri del Lavoro, Guadalajara, 17-18 maggio, 2012.

[6] COM/2020/381: Comunicazione della commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Una strategia dal produttore al consumatore per un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente.

[7] Agenzia Europea dell’Ambiente, Verso una “Europa a inquinamento zero”, Lussemburgo 2020.

[8] P. Bianchi, F. Butera, G. De Michelis, P. Perulli, F. Seghezzi e G. Scarano, Coesione e innovazione. Il Patto per il Lavoro dell’Emilia-Romagna, il Mulino, Bologna 2020.

Scritto da
Gianluca Scarano

Professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna e Docente presso il Master in Diritto dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro. È inoltre assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale e della Produzione del Politecnico di Torino. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Sociologia Economica e Studi del Lavoro presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Precedentemente è stato coautore del volume “Coesione e innovazione. Il Patto per il Lavoro dell’Emilia-Romagna” (il Mulino 2020).

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