Il momento della difesa europea: prospettive e criticità a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina
- 11 Maggio 2023

Il momento della difesa europea: prospettive e criticità a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina

Scritto da Silvia Samorè

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Negli ultimi anni, diversi shock del sistema internazionale hanno svolto la funzione di campanelli d’allarme perché l’Unione Europea si rendesse conto della necessità di rafforzare le proprie capacità di difesa. In primo luogo, nell’estate 2021 il triste epilogo della permanenza statunitense e NATO in Afghanistan ha portato molti leader europei a riprendere il concetto di “autonomia strategica” ed è stato percepito come un sostanziale fallimento dell’intero mondo occidentale. Circa sei mesi dopo, l’invasione russa dell’Ucraina ha nuovamente costretto gli europei ad un duro bagno di realtà, mostrando quanto possa essere fragile l’ambizioso progetto di pace tramite progressiva integrazione economica che aveva spinto Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi a dare vita alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Il momento favorevole per la difesa europea sembrava essere arrivato. Ma è stato colto appieno? A che punto è l’Unione Europea sul piano della difesa e della sicurezza? A partire da una breve carrellata storica, i paragrafi successivi cercheranno di delineare un’istantanea della situazione, restituendo anche qualche spunto sulle maggiori ragioni di ottimismo e sulle sfide principali.

 

Una breve cronistoria

In primo luogo, per chiunque si occupi di questa tematica la domanda di partenza dovrebbe essere: ma che cos’è nello specifico la difesa europea? Il concetto in realtà è più sfuggente e meno concreto di quanto ci si dovrebbe auspicare, e si riferisce in particolare alla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). La PSDC è in sostanza il quadro politico mediante il quale gli Stati membri possono sviluppare una cultura strategica europea della sicurezza e della difesa, affrontare insieme i conflitti e le crisi, proteggere l’Unione e i suoi cittadini e rafforzare la pace e la sicurezza internazionali. Per fare questo, nel corso degli anni l’UE si è dotata di strumenti appositi, finanziari o di cooperazione in ambito procurement o di altra natura ancora.

L’idea alla base della Politica di sicurezza e difesa comune risale al 1948, quando Francia, Regno Unito e Benelux firmano il Trattato di Bruxelles, che ha portato, nel 1954, alla costituzione dell’Unione europea occidentale (UEO), un’alleanza politico-militare che includeva anche Italia e Germania occidentale e che è rimasta pressoché inattiva fino agli anni Novanta. Il principale quadro di riferimento per la sicurezza europea è stato infatti, fin dalla sua istituzione, l’Alleanza atlantica. Curiosamente, anche l’idea di creare un esercito europeo risale agli anni Cinquanta, benché ad oggi non sia mai stata realizzata: la Francia, infatti, dopo aver proposto la creazione della Comunità europea di difesa (CED), non ha ratificato il trattato, facendolo decadere. È a partire dagli anni Novanta che le tematiche di difesa e sicurezza prendono nuovamente spazio nel dibattito europeo, con una serie di iniziative che portano appunto a stabilire un primitivo quadro di politica estera e di sicurezza comune e a rafforzare la cooperazione con la NATO, rendendola più strutturata e duratura. Per gli addetti ai lavori, questi anni sono quelli in cui vengono stabilite le cosiddette “missioni di Petersberg”, adottate in occasione del Consiglio ministeriale dell’UEO del giugno 1992. Nei tre decenni successivi, inoltre, vengono fatti enormi passi avanti sia nel cercare di creare una cultura strategica comune, sia nell’avviare iniziative che permettano una migliore integrazione delle forze armate degli Stati membri. Nel 2004 viene creata l’Agenzia europea della difesa (EDA), dal 2009 è stato istituito il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE o EEAS) e nel 2016 è stato pubblicato un primo documento strategico rilevante, la Strategia globale europea. Inoltre, nel 2017 si è dato avvio alla PESCO (Cooperazione strutturata permanente), che consente agli Stati membri che lo desiderano e sono in grado di farlo di sviluppare insieme capacità di difesa, investendo in progetti comuni a beneficio delle proprie forze armate e di riflesso della capacità operativa a livello europeo. Infine, nel 2022, dopo anni di lavori preparatori, è stato pubblicato finalmente un documento strategico che identifica minacce comuni e azioni concrete per il futuro, la Bussola strategica, apparso giusto un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Questa breve cronologia della creazione dei vari strumenti a disposizione della PSDC permette di sintetizzare l’approccio multidimensionale europeo alla difesa con tre parole: preparazione, a cui si lega la politica industriale; prevenzione, tramite azioni politiche e diplomatiche; proiezione, che è da intendersi in compatibilità con la NATO e comprende le missioni e le operazioni CSDP.

Questa proliferazione di attori e strategie nel campo della sicurezza e della difesa da un lato dimostra che a Bruxelles risulta chiara la necessità di dotarsi di strumenti, ma allo stesso tempo, dall’altro lato, mancano spesso i presupposti perché essi siano determinanti, o in grado di superare le difficoltà legate al complicato settore europeo della difesa.

 

Difesa europea: elementi di ottimismo

Volendo porre l’attenzione sugli elementi di forte ottimismo, è fondamentale, ad esempio, che siano state istituite voci di bilancio apposite come il Fondo europeo della difesa e lo Strumento europeo per la pace, che sta contribuendo attivamente e facendo la differenza nel contesto ucraino. Pochi si aspettavano una reazione così coesa e decisa da parte dell’Unione Europea, anche perché nel 2014, quando i semi di questo corso della storia sono stati piantati, la reazione del mondo occidentale non è stata paragonabile a quella attuale.

Altrettanto fondamentale è stata la pubblicazione della Bussola strategica, che ha stabilito obiettivi concreti da realizzare entro il 2025 – e per questo consiste in un documento estremamente più determinante e concreto rispetto alla Global Strategy del 2016. Tra questi obiettivi vi sono: la creazione di una capacità di reazione rapida di 5.000 unità; il miglioramento delle capacità di cyber defense; la creazione di un pacchetto di strumenti contro le minacce ibride, tra cui le campagne di disinformazione; la definizione di una strategia per lo spazio; un incremento del Fondo europeo per la difesa; la stipula di ulteriori accordi di partenariato con altri Stati, come la Norvegia, il Giappone, i Paesi Balcanici, in aggiunta alla ormai consolidata collaborazione con la NATO.

Dalla lista di questi obiettivi, a più di un anno dalla sua entrata in vigore, possiamo di certo spuntare la pubblicazione della Strategia spaziale europea per la sicurezza e difesa, avvenuta il 10 marzo 2023. Si può ovviamente obiettare che, rispetto ad altre grandi potenze globali, Stati Uniti e Cina in primis, questo passo sia stato effettuato fortemente in ritardo, ma nonostante tutto esso dimostra una maggiore presa di coscienza della crescente importanza di questo dominio.

Anche la storica e proficua collaborazione con la NATO è stata rinsaldata, con la stipula di un nuovo accordo di cooperazione, la dichiarazione congiunta firmata il 10 gennaio 2023. Si tratta della terza dichiarazione congiunta, dopo quella di Varsavia nel 2016 e di Bruxelles del 2018, nell’ambito di una partnership più che ventennale. L’aspetto più significativo è probabilmente la dichiarazione di voler «rafforzare ulteriormente la nostra [dell’UE e della NATO, ndr] cooperazione nelle aree esistenti ed espandere e approfondirla in particolare per quanto riguarda la competizione geostrategica, le problematiche legate alla resilienza, alla protezione delle infrastrutture critiche, alle tecnologie emergenti e dirompenti, lo spazio, le implicazioni securitarie del cambiamento climatico, così come la manipolazione delle informazioni e le ingerenze da parte di attori stranieri».

Tutte queste tematiche si sono pian piano fatte strada nell’agenda di priorità delle due istituzioni internazionali e, sempre adottando una lente cognitiva tarata sulle problematiche per la sicurezza, l’Unione Europea ha dato forte risalto negli ultimi anni all’ultimo aspetto, solitamente conosciuto con l’acronimo inglese FIMI, ovvero foreign information manipulation and interference. Sebbene questa locuzione possa sembrare criptica, è semplicemente un modo più specifico per riferirsi a quella che comunemente è chiamata disinformazione. In particolare, il Consiglio dell’UE e l’EEAS da anni lavorano con i Paesi membri per implementare misure di contrasto al fenomeno. Questa materia, così come la cyber security, hanno assunto a partire dal 2014 un’importanza sempre crescente ed è certamente più semplice per l’UE dotarsi di misure controffensive e di professionalità in questo campo rispetto a tutto ciò che orbita attorno alle dimensioni di sicurezza più tradizionali.

A tal riguardo, la novità più interessante apportata dalla Bussola strategica è stata la proposta di creazione, entro il 2025, di una capacità di reazione rapida, l’European Rapid Deployment Capacity (EU RDC), con lo scopo di permettere il dispiegamento di truppe, fino ad un massimo di 5.000 unità, in un ambiente non permissivo in risposta a vari tipi di crisi. A circa un anno dalla pubblicazione della Strategic Compass, il 9 marzo 2023 il Comitato degli affari esteri del Parlamento europeo (AFET) ha approvato un report per definire meglio le caratteristiche da attribuire a questo nuovo strumento, considerato chiave per l’autonomia strategica dell’Unione. Il progetto è stato poi finalmente presentato in seduta plenaria, che ha approvato la risoluzione intitolata EU Rapid Deployment Capacity, EU Battlegroups and Article 44 TEU: the way forward.

Il paragone tra EU Rapid Deployment Capacity e gli EU Battlegroups è stato inevitabile fin dalla presentazione di questo nuovo strumento, benché ad una più attenta analisi i due strumenti presentino significative differenze sostanziali. Gli EU Battlegroups sono definiti come «unità militari multinazionali, generalmente composte da 1.500 persone ciascuna, e costituiscono parte integrante della capacità di reazione militare rapida dell’Unione Europea per rispondere alle crisi e ai conflitti emergenti in tutto il mondo». Questi gruppi tattici sono operativi dal 2007 e hanno fornito un contributo in quanto strumento di cooperazione e trasformazione della difesa, ma per vari motivi non sono mai stati impiegati a livello operativo. Essendo uno strumento che ricade sotto l’ombrello della CSDP, infatti, la decisione sul loro utilizzo deve essere concordata all’unanimità da tutti gli Stati membri. Inoltre – fattore forse ancora più determinante a scoraggiarne l’uso – il loro funzionamento prevede che le truppe siano fornite a rotazione dai Paesi dell’Unione e che il loro eventuale impiego venga finanziato interamente da chi in quel momento sta contribuendo in termini di uomini ed equipaggiamenti (costs lie where they fall principle). Per l’EU RDC, consci di questo enorme ostacolo, si è invece deciso di provvedere a finanziamenti a livello centrale, così da svincolare la decisione in merito al suo impiego da qualsiasi ragione di tipo economico, e lo strumento cardine che probabilmente ne garantirà la copertura è ancora una volta l’EPF. Questa risoluzione del Parlamento europeo dovrebbe avere una risonanza mediatica molto maggiore di ciò che sta invece attualmente ottenendo, perché costituisce un passo avanti notevole nel processo di costituzione di questo strumento potenzialmente rivoluzionario. Tuttavia, anche in questo caso, trattandosi di misure relative alla Politica di sicurezza e difesa comune, il potere decisionale resta ancora nelle mani dei Paesi membri.

 

Criticità ancora da superare

Se da un lato i progressi mostrati finora costituiscono ragioni per essere ottimisti sul buon proseguimento del cammino verso una più efficace difesa europea, esistono tuttavia altrettante ragioni che invitano alla cautela. In primo luogo, adottando una prospettiva storica, emerge come ognuno dei passi avanti compiuti sia stato la conseguenza di qualche shock del sistema: la fine della Guerra fredda, la Brexit, l’elezione di Trump, la ritirata statunitense dall’Afghanistan e ora l’invasione russa dell’Ucraina. L’atteggiamento tendenzialmente reattivo, invece che proattivo, delle istituzioni europee costituisce senza dubbio una caratteristica non ascrivibile al solo ambito della sicurezza e difesa, ma in questo, più che in ogni altro, può dimostrarsi ingenuo e fatale. La tendenza al disengagement statunitense dall’area euro-mediterranea in favore di un maggiore focus sul Pacifico risale ai primi anni Dieci del Duemila, eppure solo di fronte all’evacuazione di Kabul i governi europei sembrano essersi definitivamente accorti dell’urgenza di una maggiore capacità strategica che sia indipendente dalla volontà politica di Washington.

Inoltre, quello che probabilmente rimane il nodo gordiano della difesa europea è il problema della cooperazione in materia di ricerca e sviluppo (R&D) e di produzione di sistemi d’arma interoperabili dalle varie industrie nazionali della difesa. Le peculiarità di questo settore fanno sì che i benefici economici derivanti dalle economie di scala si scontrino spesso con difficoltà legate ai brevetti, alle difficoltà tecniche di mantenere attive supply chain a livello nazionale per garantire una certa autonomia dei singoli Paesi e alla complessità di mettere insieme così tanti interessi diversi, di ordine politico, militare ed economico. Dal punto di vista degli analisti, è facile approcciarsi a questa problematica mettendo in luce l’impressionante numero di sistemi d’arma differenti in uso presso i Ventisette e proponendo maggiore cooperazione e un miglioramento del procurement comune. Nonostante le numerose iniziative sotto l’egida della PESCO e i fondi a disposizione per lo sviluppo di nuove piattaforme di difesa, purtroppo tradurre i suggerimenti di policy in pratica è molto più complesso ed è sul dialogo tra decisori politici e stakeholder che forse dovrebbero concentrarsi gli sforzi, sperando che le esigenze politiche e strategiche dell’Unione possano trovare un giusto compromesso con gli interessi nazionali.

Alla luce degli elementi di ottimismo e delle criticità ancora presenti, risulta difficile avanzare previsioni sul futuro della difesa europea. Auspicabilmente il dibattito sull’EU RDC fornirà uno slancio verso una maggiore operatività dell’Unione in materia, e l’attuale trend sugli investimenti comuni in sicurezza e difesa fanno ben sperare almeno nella continuità di risorse finanziarie a disposizione. Ma il “momento della difesa europea” è arrivato e se ne è andato in diverse occasioni negli ultimi anni: saranno probabilmente ancora una volta le volontà politiche degli Stati membri e le sensibilità specifiche delle figure istituzionali con maggiore potere decisionale a far pendere l’ago della bilancia verso una maggiore determinazione geopolitica europea o verso un progressivo raffreddamento degli entusiasmi.

Scritto da
Silvia Samorè

Laureata in Scienze strategiche all’Università di Torino, ha conseguito il master di secondo livello in Studi internazionali strategico-militari presso il Centro Alti Studi per la Difesa di Roma nel 2020. Ha inoltre svolto un tirocinio Blue Book presso il Service for Foreign Policy Instrument della Commissione Europea e successivamente è stata Pan European Fellow del think tank European Council on Foreign Relations presso l’ufficio di Roma. I suoi interessi di ricerca includono la difesa europea, analisi del conflitto, stabilizzazione e ricostruzione post conflitto e la riforma del settore della sicurezza.

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