Recensione a: Barack Obama, Una terra promessa, Garzanti, Milano 2020, pp. 848, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Marcello Reggiani
9 minuti di lettura
Non è la prima volta che Barack Obama si cimenta con il genere autobiografico, ed è normale che – data la statura umana e politica della figura, e la forte urgenza comunicativa – periodicamente sia stato necessario un “aggiornamento” dei passi compiuti. Nel 1995 I sogni di mio padre raccontava il senso di smarrimento di un giovane operatore di comunità appena entrato ad Harvard, che in Kenya, sulla tomba di un padre assente, cercava un modo di mettere ordine nella molteplicità di radici etniche e culturali della sua giovinezza, caratterizzate da una identità afroamericana sui generis. Nel 2006, per lanciare la sua candidatura alle primarie democratiche dell’anno successivo, pubblicava L’audacia della speranza, in cui la presentazione di sé e delle sue idee era molto più funzionale ad un ambizioso obiettivo: diventare il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Una terra promessa costituisce il primo di due volumi dedicati a ricostruire in prima persona la vita di Obama, centrata ovviamente sui due mandati presidenziali. Questo primo volume, finito di scrivere nell’agosto 2020 e uscito in novembre, a ridosso dei risultati elettorali che hanno favorito il suo ex vice Joe Biden, ripercorre rapidamente le storie già raccontate nelle prime opere di Obama per concentrarsi poi più direttamente nel racconto politico e umano dell’esperienza delle primarie, delle elezioni e della prima parte dell’incarico presidenziale, fino all’operazione della CIA che portò all’uccisione di Osama Bin-Laden, il 2 maggio 2011, un clamoroso successo con cui di fatto si apriva la difficile campagna elettorale per il secondo mandato.
La narrazione procede in modo abbastanza lineare per le prime 250 pagine, dedicate a raccontare l’infanzia, la giovinezza e le prime esperienze politiche di Obama: la nascita alle Hawaii, il trasferimento in Indonesia, il ritorno negli USA alle superiori, la laurea alla Columbia University, la prima esperienza politica con il lavoro come operatore di quartiere a Chicago, l’ingresso alla Law School di Harvard (dove conobbe la futura moglie, Michelle Robinson), l’incarico di senatore statale dell’Illinois, l’ingresso sulla ribalta nazionale grazie a un memorabile discorso alla Convention democratica del luglio 2004, la conquista dopo un primo fallimento di un seggio al Senato federale e, neanche due anni dopo, la vittoria prima alle primarie del Partito democratico e poi nel confronto con il candidato repubblicano John McCain. In questa prima parte, l’elemento che può suscitare maggiormente l’interesse di un lettore non statunitense è lo sguardo in presa diretta sul concreto funzionamento dell’attività politica in un Paese con regole molto diverse a quelle cui siamo abituati e, in particolare, al variegato e per certi aspetti estenuante processo di selezione di un candidato alla presidenza.
La seconda parte del libro si focalizza direttamente sulla presidenza, con una argomentazione per capitoli molto ben studiata che riesce a tenere insieme l’esigenza di un percorso cronologico abbastanza lineare e l’analisi esaustiva di temi e questioni specifiche. Obama riesce però anche a trattenere la scrittura, che spesso tende a diventare un saggio storico-politico, inserendo considerazioni personali sui pensieri e le motivazioni che lo hanno portato a determinate scelte e soprattutto dedicandosi periodicamente alla descrizione di uno spazio più “umano” di racconto della vita quotidiana e della gestione del tempo e degli affetti della “persona più potente del mondo”, grazie alla selezione di alcune scene particolarmente efficaci.
In questo resoconto per temi, una prima parte è destinata, ad esempio, a tracciare la complicata storia della reazione dell’amministrazione Obama alla crisi economica del 2008, il salvataggio di Wall Street e dell’industria automobilistica. In questa parte, non nascondendo le difficoltà e i difetti di preparazione e gestione del Recovery Act, il giudizio di Obama sui risultati raggiunti dall’azione del suo team è molto netta: il piano, improntato a rilanciare l’economia del Paese attraverso una politica espansiva, aveva ampiamente raggiunto i suoi obiettivi e viene difesa anche la risposta tutto sommato emergenziale ai grandi colossi finanziari che gli fu criticata dagli elementi più progressisti del suo elettorato. Quello che era mancato, a suo dire, non era un’azione efficace, ma «una narrazione capace di dare un senso alla sofferenza e di ispirare» gli americani in difficoltà (p. 603).
In continuità con questo tipo di argomentazione è anche il racconto del tortuoso processo di approvazione della riforma sanitaria. Questo permette a Obama di mostrare alcuni aspetti più generali del policymaking poco noti al pubblico meno informato (l’importanza dei collaboratori, le visioni diverse tra attori all’interno della stessa amministrazione, le trattative estenuanti e spregiudicate al Congresso), con una parentesi sulla gestione dell’epidemia di H1N1 che al lettore del 2020 suscita inevitabili parallelismi con il presente. Inoltre, mostra senza incertezze come l’intervento sulla sanità fosse, agli occhi di Obama, il cardine principale del suo progetto riformatore, per realizzare il quale era disposto a una grandissima parte di quei compromessi che si rendevano obbligati per poter far passare la legge al Senato. Sono numerosi nel testo i riferimenti alla storia di altri periodi di grandi riforme, in cui le leggi «erano state inizialmente approvate in una versione ridotta, su cui poi si era intervenuti nel corso degli anni» (p. 481), utili per giustificare i numerosi cedimenti rispetto ad un progetto originario che nelle intenzioni delle componenti più progressiste dell’establishment democratico voleva essere il primo passo verso una copertura universale. Anche in questo caso, come a proposito del Recovery Act, le perplessità e i ripensamenti di Obama non riguardano tanto lo scarto tra propositi e risultati, nella convinzione di aver fatto tutto quello che era possibile nelle circostanze date, quanto gli errori compiuti dal punto di vista della strategia comunicativa, che non era riuscita a contrastare le critiche da destra e da sinistra (contro cui continua a difendersi anche nel corso del libro) e che portarono a una sonora sconfitta dei democratici alle elezioni di midterm: «Per quanto mi riguardava, le elezioni non dimostravano che il nostro programma era sbagliato. Provavano solo che – per mancanza di talento, astuzia, fascino o fortuna – non ero riuscito a mobilitare la nazione per ciò che sapevo essere giusto, come aveva fatto un tempo Franklin Delano Roosevelt. E questo, dal mio punto di vista, era una colpa» (p. 681)
Più di altre, queste considerazioni riflettono uno dei tratti maggiormente distintivi dell’amministrazione di Obama, fondata su una visione della politica come costante bilanciamento tra aspirazioni ideali e possibilità concrete. L’importanza di una narrazione efficace è resa tanto più necessaria quanto più aumenta quel fenomeno di lunga durata che in quel periodo conobbe un’impennata notevole fino a diventare oggi uno dei più pressanti problemi della politica americana: la polarizzazione politica. Se un primo esempio della degenerazione della competizione politica viene affrontato con stupore nella descrizione della figura di Sarah Palin, candidata repubblicana alla vicepresidenza, nelle pagine seguenti Obama spende molte energie per ricordare le idee e le realizzazioni concrete della sua azione riformatrice, le continue distorsioni ad opera di elementi radicali sempre più influenti nell’area repubblicana (come nel caso dell’emittente Fox News), la totale e a tratti irresponsabile indisponibilità al compromesso di deputati e senatori (che sarà probabilmente un tema centrale del secondo volume), fino all’ascesa di Donald Trump e delle sue teorie sui falsi certificati di nascita di Obama, rispetto alle quali l’ex-presidente ricorda le grandi responsabilità dei media che «fecero pochi sforzi, se non nessuno, per classificare le sue teorie come inaccettabili» (p. 766). Pur ricordando questi fattori, Obama cerca in modo ostinato di rifiutare lo scontro diretto a cui viene continuamente chiamato dai suoi avversari: si compiace più dell’ammissione dei propri errori che dell’attribuzione di colpe altrui, più nel sottolineare l’importanza storica di una sua azione che nel giudizio sull’ipocrisia e la scarsa lungimiranza di una intera classe politica. Questo atteggiamento, che risponde al carattere fortemente pragmatico e non divisivo di Obama e che risalta per moderazione rispetto alle posizioni più combattive, espresse ad esempio della speaker della Camera Nancy Pelosi, è forse uno degli aspetti che sollevano maggiori interrogativi, ancora difficili da pesare oggettivamente, se confrontati con l’evoluzione successiva della politica americana fino ai giorni nostri.
Nelle sezioni dedicate alla politica estera risaltano alcuni elementi caratteristici. Un primo elemento di forte discontinuità è dato ovviamente dal ripensamento sulla guerra in Iraq: la lungimirante posizione di Obama, che da subito aveva definito l’intervento di Bush una «guerra stupida», era stata uno dei punti di forza della campagna elettorale, e gli permise di agire con relativamente pochi dubbi e difficoltà nell’organizzazione del ritiro delle truppe americane nel corso del suo primo mandato. L’uscita di scena dell’esercito americano dall’Iraq non implicava però per Obama la rinuncia all’utilizzo della forza in altri teatri: pure al costo di numerose tensioni interne all’amministrazione, in particolare nella gestione del rapporto con i vertici militari (in cui, è opportuno notarlo per il futuro, si distinse il suo vice Biden), Obama si trovò a dover inviare nuove truppe in Afghanistan, al fine di perseguire quello che non aveva mai nascosto essere una sua priorità: sconfiggere i talebani e con essi Al-Qaeda, ritenuta la principale minaccia alla sicurezza nazionale statunitense. Ciò che distinse l’impegno di Obama sul versante militare non fu perciò la semplificatoria dicotomia tra guerra e pace, bensì un atteggiamento più “minimalista” nell’impiego della forza – col supporto di avanzate tecnologie belliche, i droni, che permettevano all’amministrazione democratica di rimanere sui territori riducendo al minimo le vittime statunitensi. Non è un caso, a questo proposito, che lo stesso Obama indugi a più riprese nella sua narrazione sulla sua presenza ai funerali dei soldati e sulle visite agli ospedali militari, anche se dovremo forse aspettare il secondo volume per avere sue opinioni più circostanziate (che pure furono espresse anche pubblicamente durante il suo secondo mandato) circa le implicazioni etiche e geopolitiche legate all’utilizzo dei droni.
Nel rapporto con le altre grandi potenze, pur insistendo sulla necessità di una collaborazione multilaterale (che ottenne importanti risultati, come la firma di accordi commerciali con la Cina, la prosecuzione delle trattative START con la Russia e l’applicazione delle sanzioni all’Iran), viene mantenuta saldamente la convinzione della necessità di un ruolo da protagonista più che da comprimario degli USA sulla scena politica internazionale: il giudizio sui Paesi emergenti (i cosiddetti BRICS) è a questo proposito esemplificativo: «anche chi si lamentava per il ruolo dell’America nel mondo contava sempre su di noi perché il sistema rimanesse a galla. […] La Cina, la Russia e persino autentiche democrazie come il Brasile, l’India e il Sudafrica si muovevano ancora a partire da principi differenti. Per i BRICS infatti una politica estera responsabile significava occuparsi dei propri affari» (pp. 395-396). Anche su un aspetto nuovo e pressante come la lotta al cambiamento climatico, nel raccontare le difficili trattative sull’accordo di Copenhagen (una scena definita «da gangster» p. 593), Obama si mostra convinto di una responsabilità principale degli Stati Uniti nel portare avanti un’agenda internazionale condivisa, anche considerando la presenza di alleati non sempre affidabili: interessante per i lettori europei è a questo proposito il modo con cui vengono tratteggiati i profili dei principali capi di Stato al G20 (compreso un indicativo silenzio sull’Italia), e le critiche rivolte alle scelte di austerità economica prima (a proposito della crisi greca) e al frettoloso intervento in Libia contro il regime di Gheddafi poi.
Più in generale, il resoconto puntuale e accurato delle principali questioni che la Presidenza si trovò ad affrontare in quel periodo viene ricostruito riconoscendo spesso il peso e l’importanza del lavoro dello staff e di singole figure (basti citare il lavoro di Ted Kennedy per la riforma sanitaria o il ruolo da Obama attribuito a Samantha Power rispetto alla situazione mediorientale, per non parlare delle sporadiche affermazioni sulle posizioni assunte da Joe Biden). Complessivamente, il conflitto interno all’amministrazione democratica è presentato con sufficiente chiarezza, anche se spesso nella narrazione la sua risoluzione sembra derivare soprattutto dalla capacità di leadership del presidente stesso (importanti a questo proposito gli esempi portati da Obama sulla creazione di un ambiente di lavoro inclusivo per le donne e le minoranze etniche dello staff, pp. 615-16).
Il lungo racconto di questo «riformatore […] conservatore nel temperamento, se non nella visione» (p. 358), come detto, si interrompe con il successo dell’operazione di cattura ed uccisione di Osama Bin Laden, lasciando alcune domande aperte e molte questioni che speriamo di vedere affrontate più nel dettaglio nel resoconto del secondo, difficile mandato presidenziale (2012-2016). Tra i principali argomenti, oltre alla ricordata questione della polarizzazione (che rimanderà più in generale alla questione del giudizio sul suo successore, che recano con sé pressanti interrogativi sul successo o sul fallimento del più complessivo progetto obamiano) ci saranno inevitabilmente l’intervento in Medio Oriente in risposta alla nascita dell’Isis, dopo che in questo volume si racconta dell’inaspettata vittoria del Nobel per la pace e dell’inizio delle «primavere arabe», e il modo in cui sarà trattata la nascita, ancora sotto la sua presidenza, del movimento Black Lives Matter e più in generale della questione razziale. Questo argomento volutamente non viene messo in primo piano da Obama in questo primo libro per via delle sue convinzioni su un’America post-razziale, pur senza mai nascondere la sua idea sul fatto «che il nostro ordinamento sociale non era mai stato fondato soltanto sul consenso, ma che si basava anche su secoli di violenza legalizzata dei bianchi contro i neri e i membri di altre minoranze e che, nei più reconditi recessi delle nostre menti tribali, chi controllava l’uso legale della violenza – contro chi questa potesse essere impiegata e come – contava ancora più di quanto non volessimo ammettere» (p. 462).
Ci sono infine alcune questioni profonde che restano come riflessioni senza risposta di un uomo sempre sospeso tra il pragmatismo e l’idealismo: «fino a che punto è utile descrivere il mondo per come dovrebbe essere, quando tutti gli sforzi per arrivare a quel tipo di mondo sono destinati a fallire? […] generando aspettative ero automaticamente condannato a deluderle? Era possibile che i principi astratti e i nobili ideali fossero e rimanessero per sempre niente più che una finzione, un palliativo, un modo per respingere lo sconforto, ma senza poter competere con gli impulsi primordiali che ci animano realmente, così che a dispetto di qualunque cosa dicessimo o facessimo la storia avrebbe continuato a correre lungo i binari prestabiliti, in un ciclo senza fine di paura, fame e conflitto, dominio e debolezza?» (pp. 425-26); o ancora: «quello sforzo collettivo, quel senso di uno scopo comune, era possibile solo quando l’obbiettivo era quello di uccidere un terrorista? (p. 793).
Da ultimo, risaltano per il confronto con gli avvenimenti successivi e le sfide del futuro le considerazioni sulle possibilità della democrazia, che come nel caso del discorso alla Convention democratica del 2020 suonano particolarmente forti in bocca a un presidente che della «audacia della speranza» aveva fatto non soltanto il titolo di un libro ma anche la principale convinzione e strategia comunicativa di tutta la sua esperienza presidenziale. Se, pragmaticamente, da una democrazia non ci si poteva aspettare «progressi rivoluzionari o grandiosi rivolgimenti culturali; non un rimedio a ogni male della società o risposte durature» ma «semplicemente l’osservanza alle regole che ci permettono di appianare, o almeno di tollerare, le nostre differenze, e politiche governative che aumentino gli standard di vita e migliorino l’istruzione quel tanto che basta a mitigare gli impulsi più bassi dell’umanità», quegli stessi impulsi («violenza, avidità, corruzione, nazionalismo, razzismo e intolleranza religiosa» e desiderio di sopraffazione) erano forse «troppo forti per essere contenuti da una democrazia […]. Perché sembravano nascosti ovunque, pronti a riemergere ogni volta che le percentuali di crescita subivano un arresto o lo stato e le dinamiche della popolazione mutavano o un leader carismatico sceglieva di cavalcare l’onda della paura e del risentimento» (p. 690).
Sono forse queste considerazioni il contributo più prezioso – e per certi versi più direttamente “politico” – di un’operazione che, come ogni autobiografia di questo tipo, ha evidentemente intenzioni politiche precise. Non bisogna aspettarsi rivelazioni significative o elementi indispensabili per la realizzazione in sede storica di un bilancio della Presidenza, e questo in parte viene anche riconosciuto dallo stesso Obama: l’utilità principale del volume si può quindi forse ritrovare nella presentazione (artefatta o meno, sicuramente con un chiaro intento di ispirazione) delle convinzioni, dei progetti, dei dubbi, delle vittorie e delle sconfitte di un protagonista esemplare della politica americana, e di conseguenza mondiale, del primo ventennio del XXI secolo.