Il 2 agosto 1980, alle ore 10 e 25, una bomba ad alto potenziale composta da 23 kg di esplosivo – 5 kg di Compound B, una miscela di TNT e RDX, potenziata da 18 kg di gelatinato, nitroglicerina a uso civile – esplode nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione di Bologna Centrale causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio. La bomba, un ordigno a tempo, si trovava in una valigia abbandonata appoggiata su un tavolino. Crollano trenta metri di pensilina e con essa le strutture portanti del ristorante e una parte del sottopassaggio, l’onda d’urto investe due vagoni del treno straordinario 13534 Ancona-Basilea che in quel momento stazionava nel primo binario. Le ambulanze non saranno sufficienti a gestire l’emergenza e dovranno attivarsi anche taxi e bus, l’autobus della linea 37 divenne, assieme all’orologio della stazione rimasto fermo sull’orario dell’esplosione, uno dei simboli della strage. È una carneficina, si conteranno 85 morti e più di 200 feriti; il più sanguinoso attentato della storia dell’Italia repubblicana o, nelle parole del Presidente Sandro Pertini, giunto a Bologna in elicottero nel pomeriggio stesso: «siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia».
Francesco Cossiga, all’epoca Presidente del Consiglio, in un discorso in Senato due giorni dopo l’esplosione, il 4 agosto, definisce la strage alla stazione di “matrice fascista”, il giorno dopo in una riunione dei comitati di sicurezza a Palazzo Chigi a cui parteciperanno membri del governo la “pista nera” viene confermata[1]. Alcuni studiosi hanno evidenziato che da quel momento le indagini vennero svolte seguendo i classici schemi della strategia della tensione, esecutori neofascisti attivati da agenti deviati per conto di interessi nazionali, la struttura di Piazza Fontana. Come vedremo, l’Italia del 1980 era profondamente cambiata, così come la strategia della tensione operava secondo modalità differenti. Il 28 agosto la Procura della Repubblica di Bologna emette 28 ordini di cattura rivolti a estremisti di destra provenienti dai ranghi di tre associazioni terroristiche: Nuclei Armati Rivoluzionari [NAR] Terza Posizione [TP] Movimento Rivoluzionario Popolare [MPR].
Sette anni dopo inizieranno i processi a carico di: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini (NAR), Massimiliano Fachini (Ordine Nuovo [ON], vicino a Franco Freda e al servizio segreto militare, il SISMI) Paolo Signorelli (ON, confluito poi in Costruiamo l’Azione, cellula eversiva responsabile di piccoli attentati esplosivi) Stefano Delle Chiaie (leader di Avanguardia Nazionale [AN], latitante per anni e ritenuto coinvolto in numerosi attentati) Roberto Rinani (esponente del Movimento Sociale Italiano [MSI]) Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte, Pietro Musumeci (agenti segreti del SISMI, quest’ultimo iscritto alla loggia P2) Adriano Tilgher (AN, fondatore del Fronte Nazionale nel 1997) Licio Gelli (maestro venerabile della P2) Sergio Picciafuoco (criminale comune vicino all’estrema destra, presente nel luogo della strage da latitante dopo essere evaso dal carcere di Ancona nel 1970).
Nel 1995 la Corte di Cassazione individuerà in Fioravanti e Mambro gli esecutori materiali della strage, Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte verranno condannati per “calunnia aggravata al fine di assicurare l’impunità agli autori della strage”. Nel 2007 Luigi Ciavardini (NAR), minorenne all’epoca dei fatti, verrà condannato a trent’anni per esecuzione materiale della strage; sorte analoga per Paolo Bellini (AN, vicino a Cosa Nostra) condannato l’11 febbraio 2020 come esecutore, un mese prima, il 9 gennaio 2020, anche Cavallini è stato condannato in qualità di esecutore. I mandanti, identificati per la prima volta dopo quarant’anni, sarebbero, oltre a Licio Gelli: Umberto Ortolani (imprenditore) Federico Umberto D’Amato (ex-direttore dell’Ufficio Affari Riservati) e Mario Tedeschi (giornalista e senatore dell’MSI), tutti e tre iscritti alla P2. Sia loro sia Gelli sono deceduti da anni.
Nel 1994 in una sede romana dell’associazione ARCI nacque il comitato E se fossero innocenti? che intendeva mettere in dubbio la tesi dell’accusa su Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Presero parte al movimento numerosi esponenti del giornalismo e della politica, fra i nomi si annoverano: Andrea Camilleri, Liliana Cavani, Marco Pannella, Paolo Mieli, Adriano Sofri, Giovanni De Luna, Giovanni Minoli, Sergio Zavoli, Oliviero Toscani, Giampiero Mughini, Furio Colombo, Gianfranco Fini, Francesco De Gregori, Gianni Alemanno, Luca Telese e Rossana Rossanda. Andrea Colombo, giornalista de il Manifesto ed ex-militante di Potere Operaio, ha scritto un libro per suffragare questa tesi (Storia Nera, CairoEditore, 2007), e non è l’unico: anche il giudice Rosario Priore (I segreti di Bologna, Chiarelettere, 2016, con Valerio Cutonilli) e l’ex-ministro democristiano e padre della Protezione Civile Giuseppe Zamberletti (La minaccia e la vendetta, FrancoAngeli, 1995) hanno avanzato nei loro testi teorie alternative a quella sostenuta dalla Procura.
Secondo Colombo gli elementi a carico dei NAR sarebbero inconsistenti e alcuni di questi frutto di depistaggi atti a direzionare le indagini sui terroristi romani, come l’operazione Terrore sui treni, per di più le testimonianze chiave di Massimo Sparti (criminale romano di fede neonazista) e Angelo Izzo (estremista di destra reo del Massacro del Circeo nel 1975 assieme a Gianni Guido e Andrea Ghira) non sarebbero affidabili. Molti studiosi hanno evidenziato la mancanza di un movente dal momento che la strategia adoperata per Piazza Fontana non poteva servire a rendere conto anche di questa strage. Da ultima, la questione dei mandanti: viene messa in dubbio l’ipotesi di una questione tutta interna all’Italia in favore di una teoria che coinvolge mandanti internazionali. Per comprendere meglio la vicenda è utile capire chi fossero i NAR e inquadrare lo stato dell’arte della destra eversiva italiana in quegli anni.
A inizio anni Ottanta la prima fase della strategia della tensione, iniziata nel 1969, poteva dirsi chiusa da tempo, precisamente dall’estate 1974. Le sei bombe[2] che insanguinarono l’Italia erano motivate da ragioni differenti, quasi tutte riconducibili a un disegno politico ben preciso. La bomba di Piazza Fontana del 1969 doveva servire a dichiarare lo stato d’emergenza e la sospensione delle libertà costituzionali, primo atto di un colpo di Stato in chiave reazionaria sul modello di quello greco del 1967. La strage di Gioia Tauro del 1970 potrebbe inserirsi in questa scia, alimentare il caos in una città già assediata da rivolte per dare mano libera alla repressione e riportare ordine e disciplina. Il fallimento di questa strategia controrivoluzionaria portò a vendette contro Mariano Rumor (bomba alla Questura di Milano, 1973), colpevole di non aver dichiarato lo stato di emergenza nel 1969, e contro i carabinieri (strage di Peteano, 1972) dopo che saltarono le coperture dei neofascisti di ON e AN, utilizzati come esecutori delle stragi dai servizi segreti italiani e americani e poi abbandonati al loro destino. Le bombe di Brescia e dell’Italicus segnalano, forse, l’ultimo tentativo per la destra radicale di mantenere uno stato di ansia generalizzata con funzioni antisindacali e anticomuniste; a Brescia fu colpita una manifestazione sindacale antifascista che protestava proprio contro le bombe nere.
Il 25 aprile 1974 con la Rivoluzione dei Garofani crolla l’Estado Novo portoghese, guidato fino al 1970 da António de Oliveira Salazar. A Lisbona era stata fondata nel 1962 l’Aginter Presse, centro di coordinamento, protezione e finanziamento dei gruppi eversivi della destra internazionale; mascherata da agenzia di stampa, fu guidata da Yves Guérin-Serac, fondatore della Organisation Armée Secréte, movimento terroristico che si opponeva alla decolonizzazione dell’Algeria francese. Con la caduta del fascismo portoghese e la chiusura dell’agenzia cadono gran parte degli appoggi dell’internazionale nera. Il 25 luglio 1974 è la volta della Grecia, termina la dittatura dei colonnelli al potere del 1967, importante luogo di addestramento della destra eversiva italiana. L’anno dopo toccherà al regime di Francisco Franco, attivissimo nella protezione degli eversori di destra. I processi per Piazza Fontana sono già iniziati, e vedono coinvolti gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, l’opinione pubblica italiana già dal 1973 comincia a convincersi che le bombe e le stragi in Italia siano “nere”. Colpo di grazia, le dimissioni del presidente americano Richard Nixon il 9 agosto 1974: sotto la sua amministrazione la lotta anticomunista fu condotta con metodi non ortodossi e i servizi americani ebbero ampio spazio di manovra per arginare la presunta avanzata comunista in Occidente, soprattutto in Italia. L’estrema destra nel 1980 non gode più degli appoggi e delle protezioni istituzionali che aveva negli anni Sessanta, per questo ed altri motivi si rivolgerà alla criminalità organizzata.
Non solo, l’estrema destra cambia pelle: i Campi Hobbit del Fronte della Gioventù [FdG] che si tennero dal 1977 al 1981 sono una delle tante manifestazioni della nuova destra giovanile, ormai lontana dall’austerità e dal rigore militaresco del neofascismo nostalgico e interessata alla musica, ai fumetti e alla satira. Nei circoli giovanili si comincia persino a parlare di temi storicamente di sinistra, come l’ambiente, il ruolo della donna, la vita nei quartieri popolari e la questione del caro affitti. Ordine, disciplina, autorità, gerarchia sono termini ormai superati per la nuova generazione di militanti di destra che cominciano, al contrario, a coltivare un’estetica della ribellione centrata sulla figura del rivoluzionario che sfida l’ordine costituito, ordine rappresentato dallo stesso MSI con cui i rapporti si deteriorano sempre di più. Mentre a Milano il mondo sanbabilino resterà sempre piuttosto elitario a Roma la destra comincia a mettere radici nelle periferie e cambia dunque la metodologia di lotta: volantinaggio nei mercati rionali, concerti e scontri con la polizia sono all’ordine del giorno.
Il punto di rottura definitivo avviene il 7 gennaio 1978: un commando di terroristi rossi spara sui giovani che escono dalla sede del MSI di Via Acca Larentia a Roma, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta muoiono sul colpo. Ne seguiranno disordini sedati dalla polizia; era già successo che i “neri” si scontrassero con le forze dell’ordine, a Milano il 12 aprile 1973 una bomba a mano lanciata dai neofascisti Maurizio Murelli e Vittorio Loi aveva ucciso l’agente Antonio Marino. Ad Acca Larentia le cose andranno diversamente: il Capitano dei carabinieri Edoardo Sivori spara sui giovani di destra e colpisce il militante Stefano Recchioni che muore di lì a poco. I giovani dell’FdG reclamano giustizia ma i dirigenti del loro partito si rifiutano di collaborare, l’MSI è un partito d’ordine e poliziotti e carabinieri rappresentano una parte consistente del suo elettorato. Per molti giovani di destra quell’atto rappresentò l’inizio della fine, tagliarono i ponti con l’MSI e si armarono, di lì a poco il nuovo terrorismo nero comincerà a colpire.
A Roma nel 1977 si costituiscono i NAR, saranno operativi fino al 1982. Gruppo eversivo difficilmente inquadrabile perchè sfugge alle logiche di catalogazione del terrorismo nero, il gruppo non ha una vera e propria gerarchia (anche se Valerio Fioravanti e Alessandro Alibrandi saranno a lungo leader indiscussi) e permette a chiunque di utilizzare il nome per firmare le proprie azioni. Il gruppo utilizza pistole per compiere le rapine e colpisce a volto scoperto i nemici politici (sono rivendicati dai NAR gli omicidi dei militanti di sinistra Valerio Verbano, Fausto Tinelli, Lorenzo “Iaio” Iannucci, Walter Rossi e Roberto Scialabba) e i nemici istituzionali come poliziotti – fece scalpore l’omicidio dell’agente Francesco Evangelista, detto “Serpico”, il 28 maggio 1980 – e magistrati, come Mario Amato, procuratore romano che indagava sulla nuova eversione di destra, ucciso il 23 giugno 1980.
La formula è quella dello “spontaneismo armato” e non c’è un obiettivo preciso; i NAR conducono un conflitto a bassa intensità contro lo Stato sfruttando la formula dei gruppi di sinistra come le Brigate Rosse e Prima Linea: omicidio mirato e rivendicazione. Nel tempo alcuni optano per la latitanza ed entrano in contatto con la criminalità organizzata – sono noti i contatti con la Banda della Magliana – per ottenere armi e documenti falsi, si finanziano con le rapine e cercano talvolta protezioni in alcuni settori deviati dello Stato, per quanto i dirigenti si siano sempre dichiarati avversi a qualsiasi collaborazione con lo Stato che intendevano abbattere. Il profilo dei vari Valerio e Cristiano Fioravanti, Gilberto Cavallini, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Alessandro Alibrandi, Giorgio Vale, Franco Anselmi, Walter Sordi, Pasquale Belsito, Stefano Soderini è piuttosto diverso da quello di Franco Freda o Giovanni Ventura, ma anche da quello di Peppe Dimitri, Gabriele Adinolfi, Massimo Morsello e Roberto Fiore, dirigenti di TP, gruppo eversivo più gerarchico e più ideologizzato che ebbe negli anni rapporti di amore e odio con i NAR. Ci saranno anche screzi con TP, uno di questi condurrà all’uccisione da parte dei NAR di Francesco Mangiameli a Roma il 9 settembre 1980: Fioravanti ha sempre sostenuto fosse una vendetta per averli truffati e raggirati, per gli inquirenti fu un omicidio mirato ad eleminare qualcuno in possesso di preziose informazioni sulla strage di Bologna.
Fioravanti, Mambro e Ciavardini si sono sempre dichiarati estranei alla strage chiedendo agli inquirenti di tenere conto sia della loro metodologia di lotta, che li terrebbe lontani dallo stragismo, sia del periodo storico-politico in cui operarono. Per quanto i NAR agissero secondo coordinate diverse rispetto allo stragismo nero c’è da segnalare che recenti inchieste della Procura di Bologna tracciano un flusso di soldi che parte dagli Stati Uniti, passa per le mani di Licio Gelli, per poi arrivare ai NAR; inoltre i tre, dopo aver cambiato più volte versione, hanno dichiarato di trovarsi a Padova il giorno della strage, nel pieno del loro periodo di latitanza in Veneto, lì incontrarono un tale zio Otto, risultato poi essere Carlo Digilio, ordinovista della prima ora e collaboratore dei servizi. Dagli atti emerge che un loro sodale, Cavallini, era molto vicino a Massimiliano Fachini, uomo di ON legato ai servizi segreti e dunque a tutto quella galassia eversiva eterodiretta da apparati deviati dello Stato. Sappiamo anche che Alibrandi, come molti estremisti di destra europei, fu addestrato in Libano nei campi delle Falangi Libanesi, gruppo paramilitare della destra cristiano-maronita alleato di Israele e in contatto con il Mossad. Da ultimo, Ciavardini durante la latitanza in Veneto aveva organizzato un incontro con la fidanzata a Venezia per il fine settimana del 2-3 agosto, lei sarebbe dovuta salire da Roma ma fu bloccata da Ciavardini l’1 sera, in una telefonata le disse di non mettersi in viaggio il giorno dopo. Sarebbe dovuta necessariamente passare per la stazione di Bologna. La linea difensiva dei NAR presenta dunque molte lacune.
Paolo Cucchiarelli, nel suo libro uscito a giugno (Ustica & Bologna, La Nave di Teseo, 2020) sostiene che i NAR siano gli esecutori materiali. Nel libro l’attenzione si sposta dall’annosa vicenda dell’effettiva esecuzione dell’attentato alle questioni diplomatiche internazionali che avrebbero costruito la strada che porta a Bologna. Per Cucchiarelli i NAR sono l’elemento più visibile di una strage che non può definirsi la brutta copia di Piazza Fontana, ma di una strage che ha risvolti globali mai adeguatamente considerati dagli inquirenti, una strage strettamente connessa a un altro misterioso episodio della nostra storia: Ustica.
Il 1980 può ritenersi a pieno titolo l’annus horribilis della Prima Repubblica: il 23 novembre il terremoto dell’Irpinia produrrà un disastro i cui effetti sono ancora oggi visibili, il 2 agosto esplose una bomba a Bologna e poco prima, il 27 giugno alle ore 21, il DC-9 dell’Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo perde i contatti con la torre di controllo, l’aereo precipita in mare fra le isole di Ponza e Ustica, il bilancio è di 81 morti. Per anni questa strage fu ammantata di mistero, la teoria sostenuta dall’Aeronautica subito dopo la strage parlava di un cedimento strutturale dell’aereo, così come a Bologna inizialmente si parlò dell’esplosione di una caldaia, la stessa tesi iniziale di Piazza Fontana. Indagini successive dimostreranno che l’aereo fu abbattuto, forse da un missile lanciato da un caccia, o forse da una bomba che esplose in volo e lo fece precipitare.
Secondo Cucchiarelli le due stragi, Ustica e Bologna, sono legate, parte dello stesso disegno e commissionate dallo stesso mandante. Ad infittire il mistero è il ritrovamento di un caccia monoposto libico, il MiG-23, nei monti della Sila il 18 luglio successivo; dalle indagini giornalistiche successive emerse che secondo il medico legale lo stato di decomposizione del cadavere del pilota retrodatava la morte a qualche settimana prima, forse proprio al 27 giugno. Mu’ammar Gheddafi, dittatore della Libia dal 1969 al 2011, stava facendo la traiettoria del DC-9 per volare da Tripoli a Varsavia e il caccia libico abbattuto potrebbe essere stata la sua scorta. Gheddafi era ai ferri corti con alcune nazioni occidentali e a inizio anni Ottanta dovette affrontare delle ribellioni interne, fra cui un tentato golpe portato avanti da tre imprenditori italiani operativi in Libia: l’Italia nel 1980 fu teatro di regolamenti di conti del governo libico con alcuni ribelli che risiedevano nel nostro Paese. Ricordiamo l’importanza strategica della Libia per l’Italia, fornitore di petrolio e nazione nel cuore del mediterraneo con cui l’Italia aveva un rapporto decennale per il suo passato coloniale.
Proprio il 2 agosto mattina Giuseppe Zamberletti si trovava a Malta per discutere con il primo ministro maltese Dom Mintoff gli ultimi dettagli di un protocollo d’intesa, l’accordo avrebbe tutelato l’isola nella vicenda dei banchi di Medina, giacimenti petroliferi quasi equidistanti fra Malta e la Libia ma leggermente più vicini a La Valletta. Se Malta, che all’epoca si trovava nella sfera d’influenza libica, avesse potuto sfruttare quel petrolio sarebbe diventata energeticamente e politicamente indipendente dalla Libia, l’Italia si sarebbe progressivamente svincolata dal petrolio libico mandando l’ENI a esplorare l’area in questione. Ma la questione non si limita all’Italia, Gheddafi era inviso alla Francia perché si contendeva militarmente con il Ciad filofrancese la Striscia di Aozou, ricca di uranio, oltre a essere in cattivissimi rapporti con Israele e Stati Uniti in quanto uno dei governi di riferimento della guerriglia palestinese. L’ipotesi di Rosario Priore e Zamberletti è che, scampato all’esecuzione di Ustica, Gheddafi la fece pagare all’Occidente con la bomba alla stazione di Bologna.
Cucchiarelli invece sostiene che al centro della strage di Ustica c’è l’uranio che l’Italia stava per consegnare a Gheddafi, barre trasportate dal DC-9 destinate al Pakistan per la costruzione della prima bomba atomica di un Paese islamico, un progetto che coinvolgeva governi di alcune nazioni islamiche. Per Cucchiarelli il caccia libico non era solo, anzi, ci fu una battaglia aerea fra un caccia libico e uno americano, uno dei due si schiantò effettivamente in Calabria il 18 luglio, l’altro il 27 giugno, ma all’Ospedale di Crotone il 22 luglio fu chiesto di fare un’autopsia sul cadavere del 27 giugno dichiarando che si trattasse invece di quello rinvenuto tre settimane dopo. Le politiche filopalestinesi dei governi e dei servizi italiani irritavano Francia, Stati Uniti e Israele, in particolare il Lodo Moro era ritenuto pericolosissimo per la sopravvivenza di Israele. Il DC-9 fu dunque abbattuto da un caccia di una nazione “amica” perché trasportava uranio destinato alla Libia, successivamente la bomba alla stazione fu messa dai NAR, con Gelli che agiva da intermediario, per punire l’Italia, così che la finisse una volta per tutte con la sua politica filoaraba.
Al centro della speculazione di Cucchiarelli c’è Marco Affatigato, neofascista lucchese vicino ai servizi francesi: in una telefonata rivendicata dai NAR dopo i fatti di Ustica, ma in realtà fatta dal SISMI, si precisa che Affatigato era un passeggero del DC-9 e lo avrebbero riconosciuto da un orologio particolare. La notizia era falsa. Il 2 agosto una nuova telefonata dei NAR rivendicherà la bomba di Bologna, anche in questo caso un depistaggio dei servizi, non sarà l’unico; anche per Bologna il neofascista verrà accusato a seguito di una soffiata rivelatasi poi una falsa pista. Il depistaggio più clamoroso di tutti fu quello dell’operazione Terrore sui treni menzionata poco sopra: il 13 gennaio 1981 sul treno 514 Taranto-Milano vengono ritrovati otto barattoli pieni di esplosivo, lo stesso di Bologna, un mitra MAB, un fucile automatico, due biglietti aerei Milano-Monaco e Milano-Parigi e gli oggetti personali di due estremisti di destra, un francese e un tedesco. Il generale del SISMI Giuseppe Santovito comunicò il 7 febbraio che i biglietti erano stati acquistati dal membro dei NAR Giorgio Vale. Un’altra pista falsa, un altro depistaggio.
Un’altra pista, forse la più debole, è quella portata avanti dalla destra istituzionale: la pista palestinese, o pista mediorientale. La tesi, sostenuta anche da Gelli e Cossiga, è stata esposta organicamente da Enzo Raisi, parlamentare in quota Alleanza Nazionale e militante dell’FdG bolognese in quegli anni, nel suo libro Bomba o non bomba (Minerva, 2012). L’idea è che la bomba esplose per errore, non era destinata a colpire la stazione ma obiettivi sensibili israeliani o della NATO in territorio italiano, l’ordigno era diretto probabilmente a Roma e fu semplicemente appoggiato in un tavolino della sala d’aspetto in attesa che venisse recuperato da qualcuno. L’esplosione sarebbe dunque da ricondurre a un fatto accidentale. La bomba sarebbe stata utilizzata per una vendetta contro l’Italia che non stava rispettando i patti presi nel 1974 con il Lodo Moro, accordo segreto sulla cui esistenza vi sono ancora dei dubbi, che garantiva ai guerriglieri palestinesi la libertà di trasportare armi in Italia a patto che non venissero usate contro italiani. L’Italia aveva un rapporto privilegiato con le potenze arabe e voleva mantenere buone le relazioni diplomatiche. Il nostro Paese sarebbe venuto meno ai patti con la vicenda dei missili di Ortona, quando fra il 7 e l’8 novembre 1979 a Ortona, nel teatino, furono arrestati, e successivamente processati, diversi membri di Autonomia Operaia che trasportavano dei missili Strela-2 di fabbricazione sovietica destinati a gruppi militari palestinesi.
Il passaggio di mano della bomba coinvolgerebbe militanti dell’estrema sinistra internazionale: Ilich Ramírez Sánchez, noto come Carlos, terrorista venezuelano con cittadinanza palestinese, collaboratore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [FPLP], ad oggi ha sempre sostenuto l’innocenza di Fioravanti e Mambro ritenendo che la strage di Bologna sia opera della CIA e del Mossad; Thomas Kram, membro tedesco dell’organizzazione terroristica Separat, presente a Bologna il 2 agosto e registrato in un hotel del centro; Christa Margot Frohlich, estremista di sinistra presente a Bologna il 2 agosto, alloggiò all’Hotel Jolly; Salvatore Muggironi, insegnante non vedente di Aritzo in Sardegna vicino al giornale di sinistra Barbagia Contro, il suo documento di identità viene ritrovato fra le macerie della stazione. Inoltre, fra i cadaveri in stazione vi era quello di Mauro Di Vittorio, militante di Lotta Continua che secondo Raisi stava partecipando allo scambio andato male e rimase vittima dell’esplosione. La tesi fu scartata dal momento che non è possibile provare contatti di alcun tipo fra Di Vittorio e l’FPLP e c’erano prove che avesse passato l’estate girando l’Europa in autostop. Alcuni studiosi hanno evidenziato che l’FPLP fosse in cerca di riconoscimento internazionale, macchiarsi di un crimine orrendo come una strage impolitica e non rivendicata, per di più contro una nazione storicamente amica, non avrebbe assolutamente giovato alla causa. La tesi sarebbe dunque poco credibile.
Quest’anno, con le condanne di gennaio e febbraio, la vicenda sembra essersi chiusa definitivamente, ma molte domande restano inevase, i mandanti sono stati condannati da morti e sugli esecutori aleggiano forti dubbi, anche laddove ci siano abbastanza elementi probatori per stabilire la colpevolezza dei condannati il quadro completo, dunque il movente, resta dubbio e gli studiosi sul tema sono divisi. Dobbiamo forse arrenderci al fatto che come per Piazza Fontana non arriveremo mai a mettere un punto su questa terribile vicenda? Non possiamo saperlo, ma sono quarant’anni che aspettiamo.
[1] Cossiga cambierà idea arrivando a sostenere anni dopo, intervistato da Riccardo Bocca (Tutta un’altra strage, Milano, 2007), che a Bologna si seguì la pista nera per assecondare l’opinione pubblica nazionale e locale, convinta dopo anni di terrore che le bombe nei luoghi pubblici non potessero che essere “nere”.
[2] Piazza Fontana (12/12/1969, 17 morti) Gioia Tauro (22/7/1970, 6 morti) Peteano (31/5/1972, 3 morti) Questura di Milano (17/5/1973, 4 morti) Piazza della Loggia (28/5/1974, 8 morti) Italicus (4/8/1974, 12 morti)