Scritto da Paolo Missiroli
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Questo articolo, dedicato all’opera di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino, prosegue l’approfondimento iniziato nell’articolo Giovanni Arrighi e la crisi dell’egemonia USA.
Uno dei più bei capitoli di Operai e capitale, l’opera più nota di Mario Tronti, si intitola Marx a Detroit. In quei passaggi, tra i più fortunati di quelli di Tronti, l’operaista italiano sostiene che, a differenza che in Europa, dove la lettura delle lotte di classe era viziata dal marxismo, che diveniva così una griglia astratta di lettura del reale, negli Stati Uniti del primo dopoguerra, essa era del tutto de-ideologizzata: era Marx che veniva letto mediante le lotte di classe. Marx era “nelle cose”, anche se non nei libri, come in Europa. Marx era a Detroit come uno spettro, e continuava ad imparare e a vedere le sue teorie verificate anche dopo morto. Marx era, quindi, quasi fisicamente a Detroit. La classe operaia americana aveva fatto a meno di lui proprio perché lui aveva avuto ragione. Curioso destino: avere il massimo del successo (cioè di efficacia della propria lettura della realtà) proprio dove si ha il minimo assoluto di fama. E non solo: avere il massimo del successo proprio dove si viene traditi, dove non si è in sé stessi il punto di riferimento della realtà storica, ma dove è la realtà storica a essere il fulcro della lettura stessa che si dà del testo.
In questo senso Giovanni Arrighi parla di Adam Smith a Pechino. Smith non è conosciuto in Cina, ma è nelle cose, nell’evoluzione e nei successi dell’economia cinese. Certo, non lo Smith dei liberali europei, ma lo Smith per quello che scrive nella Ricchezza delle nazioni, quello che scrive davvero, non quello che si è costruito a partire da qualche frase. Smith, infatti, identifica due possibili tipi di sviluppo: “naturale” ed “innaturale”. Lo sviluppo naturale dell’economia è quello che ripartisce le risorse dando importanza maggiore all’agricoltura ed alla manifattura, e solo in uno stadio successivo al commercio estero. La Cina è il principale esempio di questo sviluppo. Quello innaturale, cioè secondo Smith quello europeo, pone tutte le risorse nel commercio estero, nella finanza e nella conquista. Secondo Smith, nel lungo periodo è decisamente più stabile lo sviluppo naturale (ed infatti in Smith non ci sono dubbi che sia la Cina la vera nazione ricca) sebbene l’assenza totale di commercio nel mondo cinese venga visto come un problema di non poco conto.
Smith non è, poi, un autore che glorifichi il capitalismo, come spesso viene affermato. Arrighi tende molto a sottolineare la sua sostanziale contrarietà ai principali elementi teorici che gli vengono attribuiti, e cioè: 1. Il capitalismo non ha bisogno, ed anzi deve allontanare da sé lo Stato (Smith come primo teorico del liberismo). 2.Il capitalismo produce ricchezza all’infinito senza alcun limite 3. Smith non solo descrive il sistema di divisione del lavoro a “fabbrica di spilli” ma ne è anche un entusiasta sostenitore.
Sul primo punto Arrighi ricorda come nella Ricchezza delle nazioni Smith parla appunto della ricchezza delle nazioni, e cioè della ricchezza che le nazioni si procurano al fine di accrescersi e rafforzarsi. L’interesse di Smith è prettamente politico, e cioè come produrre una maggiore ricchezza spendibile per la nazione. Smith è inoltre l’ultimo dei pensatori economici che si sono illusi sulla forza del capitalismo. Al contrario: per Smith la concorrenza generata dall’intensificarsi dell’attività economica genera inevitabilmente un calo drastico dei profitti generali, ed il monopolio non è mai la soluzione nella misura in cui impedisce appunto l’aumento dell’attività economica (con cui la concorrenza sta in un circolo virtuoso).
Inoltre, è opinione di Smith che la mancanza di concorrenza rafforzi eccessivamente il potere dei singoli capitalisti in termini economici ed anche politici: dal momento che su questo nessuna mano invisibile può esistere, è necessario che lo Stato intervenga mantenendo un adeguato livello di libera concorrenza ma non, come si dice oggi, per liberare il mercato, quanto per incatenarlo ad una legge che indebolisce i capitalisti, nella misura in cui, secondo Smith, concorrenza significa sempre bassi profitti per i capitalisti singoli. Vi è insomma una decisiva nota tragica nell’analisi di Smith del capitalismo; da questo punto di vista Marx e Schumpeter sono due ottimisti, nella misura in cui la loro idea di crisi come riconfigurazione del sistema non trova riscontro in Smith, per il quale la conquista di nuovi settori di mercato è un semplice palliativo ad un meccanismo comunque perdente.
Il ruolo dello Stato all’interno del sistema capitalistico viene sottolineato nuovamente da Arrighi. In questi termini, egli rivaluta una delle affermazioni considerate meno efficaci di Marx ed Engels, e cioè quella secondo cui nel capitalismo, lo Stato sarebbe “il comitato d’affari della borghesia”. Si tratta di un’intuizione che egli ritiene invece fondamentale, nella misura in cui non ha potuto esserci capitalismo in Occidente senza l’attiva collaborazione dello Stato, come abbiamo visto. Questo marca la differenza fondamentale con la Cina, nella quale lo Stato non è mai stato, secondo Arrighi, così accondiscendente. Ma facciamo un passo indietro, in modo da poter capire perché a Pechino, c’è Adam Smith.
Stato, mercato e capitalismo in oriente e in occidente: questo il titolo del capitolo del libro di cui parliamo. Si tratta di un tema molto antico e molto studiato. La differenza tra Cina ed Europa è un tema classico, infatti, del dibattito storiografico relativo al capitalismo (basti pensare al fondamentale La grande divergenza di Kenneth Pomeranz). La domanda che di solito ci si pone è la seguente: a fronte della straordinaria potenza della Cina nel 1600, cosa ha fatto si che si desse una distanza tale nel 1900, rispetto all’Occidente? Domanda perfettamente legittima naturalmente, ma che Arrighi in qualche modo riformula nel seguente modo: che tipo di sviluppo e di logica ha caratterizzato la storia economico-politica cinese negli ultimi 500 anni? Si tratta di questioni abbastanza diverse, sebbene collegate, nella misura in cui porre la questione in questi termini consente di mettere in campo un approccio teorico che consenta di individuare specificità cinesi che non vengono schiacciate immediatamente sulle dinamiche proprie del capitalismo occidentale.
La distinzione centrale che pone Arrighi, riprendendola da Smith, è tra interno ed esterno. La Cina ha sempre avuto una forte tendenza a sviluppare uno stabile mercato interno ed in generale ad avere una proiezione del potere politico tutta rivolta verso l’interno. Questo è sicuramente dovuto alla dimensione del paese nonché a tutta una serie di fattori culturali a cui lo stesso Arrighi accenna appena (ma che sarebbe importante indagare) che hanno fatto sì, ad esempio, che una scarsa difficoltà di tipo finanziario e la grande solidità del sistema-Cina oltre che delle relazioni geo-politiche dell’area asiatica, comportasse una quasi totale assenza di guerre nel corso dei 500 anni prima del 1900. Si tratta naturalmente di un elemento che distingue completamente la Cina dall’Occidente, dove la struttura geo-politica medesima si era sempre costituita sulla possibilità ed eventualità della guerra.
Da questo punto di vista la Cina non ha mai avuto una proiezione imperiale della sua struttura politica, almeno non nel senso di una volontà di conquista dello spazio. Già solo questo genera tutta una serie di difficoltà in quel meccanismo capitale-stato che abbiamo descritto come proprio dei cicli di accumulazione capitalistici. Il sistema dell’Asia orientale, che aveva nella Cina il suo perno «nella crescente introversione della lotta per il potere generava una combinazione di forze economico-politiche non motivate a perseguire un’espansione territoriale senza limiti».
Questo ha portato alla totale mancanza, nel sistema dell’Asia orientale, di ogni tipo di “keynesismo militare” come sostiene Arrighi, riferendosi a tutti quei meccanismi di rilancio che la necessità di implementare la struttura militare di una nazione comporta nei confronti dell’economia capitalistica. Si tratta di una processo circolare: in Europa la frammentazione politica ha portato ad uno stato di guerra perenne, che ha comportato la necessità di un importante utilizzo di risorse nel campo militare e la conseguente espansione coloniale-territoriale (poi alla base, come mostra Pomeranz, di buona parte della superiorità europea). In Cina invece, l’interesse per il mercato interno ha portato addirittura al rifiuto di espansioni territoriali e di annessioni, nonché una minore dipendenza dell’economia dal mondo della guerra. Questo porta anche ad un altro elemento da sottolineare, e cioè quello della divisione tra classe operaia e mezzi di produzione, marxianamente condizione fondamentale per ogni forma di accumulazione capitalistica. In Cina questa divisione è sostanzialmente assente, o meglio, è creata ad arte dallo Stato, consapevolmente, è cioè una conseguenza del capitalismo “alla cinese”, piuttosto che una sua condizione. Su questo Arrighi critica Marx ed Engels, sostenendo che la loro visione del capitalismo sia essenzialmente riduzionista, cioè veda come condizioni del capitalismo ciò che in realtà è stato solo in Occidente condizione del capitalismo: in Cina c’è un certo capitalismo (cioè una forma di accumulazione della ricchezza da parte di privati) ma non c’era nessuna divisione tra forza lavoro e mezzi di produzione. In realtà, le ricerche più recenti sull’ultimo Marx mettono chiaramente in evidenza come per il filosofo di Tubinga lo sviluppo del capitalismo potesse avere percorsi molto divergenti da quelli europei.
Come è chiaro dal libro, e non abbiamo lo spazio per riportarlo, quello cinese è da sempre un sistema di mercato, cioè di scambio di merci, anche molto più sviluppato di quello europeo. Ma per Arrighi, come per Braudel, sistema di mercato non significa capitalismo. Perché ci sia capitalismo sono necessarie condizioni e meccanismi che in parte abbiamo già visto: accumulazione della ricchezza da parte di un contenuto gruppo di capitalisti ed attiva collaborazione dello Stato nella spoliazione con la sua logica imperiale al servizio (e servita) dalla logica accumulativa. È il caso dell’Occidente capitalistico.
In Cina simili condizioni non ci sono, perché in Cina c’è Adam Smith: e cioè, esattamente come il cosiddetto fondatore dell’economia politica sosteneva, in Cina non si dà mai troppo spazio al capitalista singolo, se ne impedisce accuratamente l’eccessiva accumulazione di ricchezza.
L’inequivocabile ostilità dello Stato nei confronti del singolo diventato anormalmente ricco stava ad indicare che lì non poteva esserci capitalismo, fatta eccezione per alcuni gruppi ben definiti che erano sostenuti dallo stato, controllati dallo Stato, ed in, definitiva, alla mercé dello Stato.
Lo Stato in Cina non si identifica con il capitalismo, anche grazie al suo modello di sviluppo naturale, non accentrato sul commercio estero e quindi sull’impresa privata. C’è il mercato, e possono anche esserci singoli capitalisti, ma il loro bene non è il bene dello Stato: il bene dello Stato è l’interesse della nazione. Ed è interesse della nazione, politicamente ed economicamente (per i motivi esposti da Smith: perché troppo potere di un singolo -monopolio- economicamente blocca lo sviluppo economico e concede troppo potere politico a quel capitalista, il cui interesse privato minerà indissolubilmente l’interesse della nazione), che il singolo capitalista non sia troppo potente.
Lo dimostra Arrighi, esponendo la storia della famiglia Zheng, che assunse un grande potere ai tempi della dinastia Ming ma che venne sempre tenuta a bada nella sua volontà di dominio politico, differentemente dai banchieri europei della stessa epoca. Paradossale lettura di Smith, probabilmente più vicina alla lettera del testo di quella “liberista” che ha caratterizzato l’Occidente: Smith è il campione di un tipo di governo che non si fa attraverso il mercato, ma sul mercato, e che rende di fatto possibile in un modo unico e particolare il capitalismo. Insomma, «riassumendo, nell’Asia orientale è assente quella sinergia fra militarismo, industrialismo e capitalismo che è tipica del cammino di sviluppo europeo e che è stata il motore di un’espansione territoriale oltremare senza limiti da cui traeva a sua volta alimento».
La tesi fondamentale di Arrighi è quella secondo cui il “capitalismo in stile cinese” o il “socialismo in stile cinese” (non importa molto al nostro autore quale classificazione si scelga, purché si parli nel merito della condizione cinese), ha mantenuto nella sostanza le caratteristiche di cui sopra, e cioè: forza del mercato interno, interesse nazionale al primo posto, sistema di mercato prima che capitalistico, utilizzo della concorrenza in funzione anti-capitalistica, istruzione di massa, gradualismo delle riforme, spinta statale alla divisione sociale del lavoro.
Vediamolo con qualche punto specifico: Arrighi smentisce innanzitutto l’opinione che la Cina attragga capitale straniero perché il suo costo del lavoro sarebbe basso. In effetti, dimostra Arrighi, i principali investitori in Cina sono proprio i cinesi, ed il principale motivo per cui i capitali sono attratti a tale forza sta piuttosto nella buona condizione ed istruzione della forza lavoro cinese, elementi possibili grazie ai forti investimenti nei campi di istruzione e sanità da parte del governo cinese. La forza lavoro cinese è in fondo una delle più formate, auto-organizzate sul posto di lavoro (il numero di dirigenti in proporzione al numero della forza lavoro in Cina è bassissimo) che ci siano. Naturalmente il basso costo della forza lavoro, peraltro sempre meno basso, fa la sua parte, ma non è il quid della Cina, ciò che la differenzia davvero. Questo elemento di differenziazione è piuttosto l’elevato grado di qualità, di capacità di autoregolazione e di disponibilità della forza lavoro.
Arrighi si oppone completamente all’interpretazione della crescita cinese come dovuta al suo “abbraccio mortale” con il neoliberismo. Secondo il nostro storico, Pechino non si è mai piegata al Washington Consesus, avendo riconosciuto che il mantenimento della stabilità sociale passa per il mantenimento e la creazione di nuovi posti di lavoro ed avendo, sopratutto, garantito il riutilizzo operoso delle risorse che l’intensificarsi della concorrenza espelleva dal processo lavorativo.
Arrighi si chiede se però non si possa dire che in qualche modo Pechino ha cominciato a sostenere il capitalismo, cioè ad aprire alla concorrenza, negli ultimi anni. Come si può negare questo? Come negare che ci sia stata una forte liberalizzazione del mercato?
Il nostro storico non lo nega affatto, al contrario. Arrighi, però, viene da una scuola di pensiero portata ad esaminare criticamente la narrazioni apologetiche del capitalismo. Per lui, come per Smith e per Braudel, mercato non significa capitalismo. Che ci sia concorrenza non significa che ci sia capitalismo. Il punto è proprio questo: a che pro la liberalizzazione e l’instaurazione di un regime di concorrenza del mercato in Cina? A fare quello che sosteneva Smith andasse fatto: limitare la forza ed il profitto individuale del capitalista. La concorrenza in Cina non è tra lavoro e capitale, è tra capitalista e capitalista, e serve esattamente a tenere bassi i profitti per gli imprenditori e a garantire ampi margini di governo al Partito Comunista. Vi è in Cina, secondo Arrighi, un uso pragmatico del mercato per un fine politico, cioè il maggior potere della nazione cinese.
Lo Stato deve riuscire a mettere in competizione fra loro i capitalisti, piuttosto che i lavoratori, così che i profitti si riducano al valore minimo tollerabile, deve incoraggiare la divisione del lavoro fra le unità produttive e le comunità piuttosto che all’interno delle stesse, e investire nell’istruzione per contrastare gli effetti negativi della divisione del lavoro sul livello intellettuale della popolazione. […] (Si tratta) di uno sviluppo di mercato nel senso smithiano piuttosto che di sviluppo capitalistico in senso marxiano.
Da questo punto di vista la libertà dal Washington Consensus ha la sua base fondamentale, oltre e più che nel forte controllo esercitato dal governo sull’economia, nello scopo del governo: l’interesse della nazione, e non la “libertà” dei cittadini e dell’impresa. Può esserci libera impresa, e può essere libera, solo in funzione dell’aumento di potenza della nazione.
Si capisce dunque in che senso Adam Smith a Pechino. La Cina, secondo Arrighi, ha seguito un modello di sviluppo in gran parte simile a quello “prescritto” da Smith come naturale, favorendo in primo luogo lo sviluppo del mercato interno e della forza lavoro piuttosto che investendo tutto sul commercio con l’estero ed ha rispettato il primato dell’interesse nazionale utilizzando la concorrenza come strumento di governo per il maggior bene della nazione, e non come fine in sé;
Paradossalmente, non vi è nessun capitolo che tratti con esattezza la questione della sostituzione dell’egemonia statunitense con una cinese. In realtà si tratta più di indizi, di suggestioni, di brevi passaggi. Arrighi è il primo a sostenere l’inequivocabile primato militare degli USA, pur sottolineandone l’inefficacia storica in questa fase (Iraq).
Ci sono però, appunto diversi indizi: 1. La Cina sta ricoprendo, nei primi anni 2000, il ruolo del “terzo che gode” nell’ambito del colpo di stato mondiale fallito operato dagli USA. La Cina, come è noto, era ed è il principale finanziatore del debito pubblico statunitense. 2. La Cina attraverso tutta una serie di rapporti già all’opera in quegli anni, stava ponendo le basi per un Beijing Consensus da opporre all’ormai consunto e logoro Washington Consesus. Il fulcro di tale nuovo sistema sembra essere da un lato la necessità di tarare lo sviluppo su necessità e condizioni locali (un approccio pragmatico allo sviluppo economico) e dall’altro a favorire la cooperazione tra Stati (soprattutto rafforzando il cosiddetto “Sud del mondo”. 3. Punto decisivo: il sistema-mondo creato dagli USA ha portato alla crisi ecologica, che gli Stati Uniti non sono evidentemente in grado di risolvere.
Può la Cina proporre un nuovo modello di sviluppo, non più fondato sull’american way of life? Arrighi prende sul serio la famosa frase “non siamo disposti a negoziare il nostro stile di vita” pronunciata dal presidente USA in occasione di un importante incontro sul clima. È come se Arrighi rispondesse: “bene, se voi non siete disposti a farlo, sarà necessario che diventi egemone qualcuno in grado di farlo, cioè di essere all’altezza delle sfide del sistema-mondo”. 4. Ultimo e forse più decisivo indizio della forza della Cina nei confronti degli Usa: il tema economico. La prima azienda degli USA ai tempi di Arrighi era Walmart, una catena di supermercati che di fatto non produceva nulla ed importava tutto dalla Cina. Per Arrighi questo è un esempio sintomatico del fatto che la produzione materiale e quindi la stabilità, “il coltello dalla parte del manico”, per così dire, sta in Cina, mentre la finanziarizzazione degli Stati Uniti, è il simbolo della loro crisi definitiva.
Questo libro suscita una serie di problemi importantissimi da un punto di vista teorico, che non possono essere nemmeno accennati in questa sede. Su alcuni conviene però, in chiusura di questo commento, soffermarsi.