Il 3 maggio 2024 è scomparso a Torino lo storico dell’industria Giuseppe Berta, autore di fondamentali contributi per la comprensione della storia dell’industria italiana e per lo studio delle élite economiche, delle relazioni industriali e delle dinamiche dell’imprenditorialità. Professore di Storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano, Giuseppe Berta ha ricoperto ruoli importanti all’interno di numerose istituzioni: fondatore e presidente dell’ASSI (Associazione di Storia e Studi sull’Impresa), direttore dell’Archivio Storico Fiat, socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino, membro del Comitato Scientifico della Fondazione Feltrinelli e del Comitato Scientifico del Centro Studi di Confindustria e consigliere di amministrazione della Fondazione Luigi Einaudi di Torino.
Questo articolo di Alessandro Aresu ripercorre la figura e il lavoro intellettuale di Giuseppe Berta, approfondendo alcuni percorsi suggeriti dai suoi studi.
Giuseppe Berta, negli ultimi anni del suo ampio e incisivo lavoro di storico, ha dato anche un contributo significativo a Pandora Rivista, nella discussione dei suoi ultimi libri sul capitalismo e sul futuro dell’automotive dopo la pandemia. Paolo Bricco ha spiegato bene sul Sole 24 Ore i vuoti che ha lasciato la sua morte, sul piano dei contenuti, del metodo e dei rapporti umani. E numerosi sono i contributi che hanno sottolineato alcune specifiche qualità di Berta, dalla competenza sulle relazioni industriali al suo stile, ad una prosa che ha compreso e fatto comprendere il capitalismo e l’industria anche attraverso la letteratura, come ha giustamente osservato Claudio Giunta.
I libri di Berta, e in particolare la sua vasta produzione nel decennio di grande trasformazione dal 2008 al 2019, prima che la sua voce si affievolisse per ragioni di salute, costituiscono ancora oggi un punto di riferimento importante per future ricerche. Le sue tracce possono dare spunti ai percorsi dei più giovani, anche tra i lettori e gli autori di Pandora Rivista, arricchendoli di stimoli. Berta sapeva senz’altro farlo nelle sue lezioni, come ho potuto osservare nel suo rapporto con gli studenti della Scuola di Politiche, ma anche nei suoi interventi pubblici, dagli articoli sui giornali alle interviste. In questo senso, ha svolto propriamente la vocazione del lavoro intellettuale.
Quel lavoro intellettuale, nei testi di Berta, è strettamente legato a una prassi specifica, alla storia industriale. All’industrialismo, come scrive lui stesso nella premessa de L’Italia delle fabbriche (2013), dove cita il nonno che lo portava in fabbrica da bambino e discuteva con lui dei problemi dell’industria secondo la prospettiva dell’operaio. Anche se leggete solo il ricordo che Berta ha dedicato ad Aris Accornero, potete comprendere la sensibilità con cui sapeva cogliere il percorso della ricerca attraverso una “scuola” operaia, che racconta un mondo che oggi ci sembra lontano ed estraneo, di certo non più al centro della scena.
I libri di Berta sono legati a luoghi del lavoro non astratti, ma incarnati in spazi economici e politici: le fabbriche ma anche i concreti rapporti tra capitale e lavoro, le comunità del lavoro e le loro trasformazioni. E il contesto geografico: in particolare il Nord Italia, con i suoi confini, le sue rappresentanze, le sue derive, le sue energie. Non a caso Berta, sulle tracce della ricerca pionieristica di Luciano Cafagna degli anni Sessanta da lui spesso ricordata e “scatenato” da un suggerimento di Gian Arturo Ferrari, scrive e riscrive il suo libro sul Nord, comparso inizialmente nel 2008 e poi pubblicato in una nuova versione nel 2015. È un libro in cui l’analisi meticolosa della storia industriale non può essere separata dallo sguardo della letteratura e dalle questioni politiche. Tra i vari percorsi suggeriti dall’opera di Berta in questo decennio problematico per l’economia italiana, potremmo considerarne in particolare tre.
Industria delle industrie e fabbrica delle fabbriche
Un primo percorso non può che riguardare il rapporto tra l’industria e la fabbrica in un senso specifico, e cioè quello tra “industrie delle industrie” e “fabbrica delle fabbriche”. Con la prima espressione si intende l’industria automobilistica, secondo la celebre definizione di Peter Drucker ripresa spessa da Berta, che si riferisce al rilievo economico, sociale, politico, tecnologico dell’automobile nel Novecento e, seppur in misura minore, ancora in questo secolo. La seconda espressione fa riferimento a qualcosa che è esistito in Italia e ha avuto un impatto significativo nella storia italiana, così come ha avuto e ha un indubbio impatto il suo progressivo svuotamento: Fabbrica Italiana Automobili Torino, FIAT.
Su questo orizzonte Berta torna incessantemente. Bisogna leggere insieme il libro del 2011 dal titolo sempre attuale, Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale, nel solco di Mirafiori e La Fiat dopo la Fiat, e il libro-reportage con cui nel 2018 lo storico torna dopo trent’anni a Detroit, in un paesaggio di ruggine, dove un portiere d’albergo incuriosito, in un certo senso, sorpreso dalla sua scelta di viaggio gli chiede “Perché Detroit?”. Come per dire: “Che ci fai qui?”. In quel libro, una grande presenza è la figura di Sergio Marchionne.
Non si tratta solo dei libri perché Berta dal 2018 al 2020 interviene costantemente, in modo frequente, sul futuro dell’auto e sul futuro dell’Italia industriale, dalla morte di Marchionne all’accordo che porta a Stellantis. Articoli sul Sole 24 Ore, sul Foglio, sul Fatto Quotidiano, su Limes e su varie altre testate. A ciò si aggiungono molte interviste, tutte meditate e preoccupate.
Invito a rileggere, tanto per fare un esempio, un suo intervento sul Foglio del 6 febbraio 2019, dove scrive: «Anche se si farà la 500 “full electric”, che FCA ha comunicato di aver messo in programma per il 2020, è chiaro che i suoi volumi non potranno essere tali da riscattare la caduta produttiva ormai in atto. Per sopravvivere, molte delle imprese della componentistica dovranno condurre a termine una riconversione radicale. Un mutamento capace di scuotere le radici del sistema industriale di Torino e, in parte, anche del Paese». E, nel discutere un’importante intervista di Alberto Bombassei a Paolo Bricco di pochi giorni prima, Berta descrive esattamente gli aspetti geopolitici, tecnologici, organizzativi su cui si svolge oggi la discussione sull’auto in Europa. Nel 2020, quando si va perfezionando l’operazione Stellantis, Berta interviene più volte sul tema della componentistica e della fornitura nel rapporto che si fa sbilanciato tra Italia e Francia.
Negli ultimi anni di Berta c’è questo orizzonte della drammatica trasformazione dei rapporti di forza dell’industria automobilistica, dove vale l’analisi di Marchionne sul disperato bisogno di capitali, dove dopo Marchionne la proprietà accentua ancora di più la marginalizzazione dell’Italia in FCA-Stellantis (e tutto ciò avviene certo con una notevole creazione di valore per gli azionisti e, nella galassia Exor, con l’enorme successo di Ferrari). Ed è anche il contesto globale in cui «il primato della Cina, principale mercato dell’auto al mondo, è destinato a riflettersi in una serie di nuovi standard che contribuiranno potentemente a fissare i canoni della mobilità di domani» (così Berta il 20 giugno 2019). Nel pensiero di Berta di cinque anni fa c’è tutto questo.
Una volta disegnato quest’orizzonte, che da altri viene sottovalutato in modo miope, la domanda è: cosa resta? La domanda riguarda il capitalismo ed è posta già nel volume del 2016, intitolato appunto Che fine ha fatto il capitalismo italiano?. Per capire diagnosi e terapia, bisogna considerare che Berta nei suoi interventi pubblici, a fianco al lavoro di Dario Di Vico e di altri giornalisti e studiosi, ha contribuito a rendere più visibile il successo delle medie imprese internazionalizzate, il fattore di successo dell’Italia nella globalizzazione di questo secolo, a fianco ad altri fattori di declino. Interi settori industriali, davanti alle fasi di crisi, sono stati in grado di sorprendere in positivo, per capacità di reagire e di attaccare i mercati internazionali. Non hanno costituito alcun “salotto buono” del capitalismo. Invece di stare dentro il vecchio sistema di Mediobanca, stanno dentro i rapporti di Mediobanca sulle imprese italiane: da Brembo a Lavazza, da IMA a Stevanato, giù giù fino a realtà molto meno note, gli esempi di questo paradigma sono numerosi. Non riguardano imprese piccole, ma imprese medie o cosiddette “intermedie”, oppure che raggiungono un’effettiva grande dimensione senza poter essere dei giganti globali.
Nel lavoro di Berta quindi c’è questo paradigma. Da un lato, l’industrialista per eccellenza riconosce che, in un’economia più incentrata sui servizi, certe storie non potranno più accadere, e alcune vicende stanno avendo un’evoluzione drammatica, come quella della sua Torino, su cui costantemente pone l’attenzione. Dall’altro lato, se le imprese intermedie internazionalizzate hanno tenuto in piedi l’Italia, il tema che si porta appresso il tramonto della grande impresa non è esaurito. La grande impresa internazionalizzata oggi riguarda i meccanismi di fornitura, le teste delle supply chain, le opportunità delle nicchie, le questioni organizzative (problema storico dello Stato e del capitalismo italiano). Qui, cosa resta? Come si inserisce l’Italia in questi nodi, all’interno di processi che hanno a livello internazionale una forte dimensione politica, determinata anche dall’ascesa del vincolo della sicurezza nazionale? E inoltre, la galassia delle imprese intermedie, con la sua energia e la sua dimensione comunque ridotta, va considerata totalmente separata da processi istituzionali, o esiste qualcosa che resta, qualcosa che si possa effettivamente fare nelle politiche, a livello italiano ed europeo, affinché questa energia si consolidi e si rafforzi? Sono tutte domande che il lavoro di Berta può consegnare a chi vuole raccoglierle e affrontarle.
Politica e nostalgia tra Europa e Stati Uniti
Dobbiamo compiere un passaggio ulteriore. I libri di Berta dal 2008 al 2019 non si possono capire se non ci collochiamo nella cesura dell’inizio di quel percorso, e cioè la crisi finanziaria, la cosiddetta Grande Recessione, con i suoi effetti economici, certo, ma anche politici, sociali, culturali. Non a caso Berta, nel 2018, ritorna in diversi interventi giornalistici sulla «grandiosa ricostruzione della crisi globale» effettuata da Adam Tooze nel libro pubblicato in quello stesso anno.
E proprio in quest’ambito di analisi si collocano due libretti pubblicati per il Mulino nel 2010 e nel 2014: Eclisse della socialdemocrazia e Oligarchie. Il primo si inserisce molto presto nel dibattito internazionale con cui, dopo un po’ di articoli e di copertine sul ritorno e/o la vendetta di Marx e Keynes che forse chi ha vissuto la Grande Recessione ricorderà, ci si interroga invece sull’incapacità delle forze di sinistra di cogliere questa fase, che non viene in alcun modo “ereditata” per diritto divino, e di rappresentarla politicamente, al contrario di altre formazioni politiche. Il secondo testo ragiona sulle varietà dell’oligarchia come organizzazione del potere, con vari riferimenti ai sistemi asiatici; ed è anche un libro sul problema della disuguaglianza, che è stato scritto prima della circolazione internazionale del libro di Thomas Piketty.
Il mondo di “industria delle industrie” e “fabbrica delle fabbriche”, in fondo, è un mondo di capitalismo democratico che si può connotare politicamente anche come “capitalismo socialdemocratico”. In questo senso, anche i libri di Berta toccano quel tema dello stesso libro di Piketty che riguarda il “trentennio glorioso” come eccezione all’interno della storia del capitalismo: eccezione del mondo chiuso e rimpicciolito del secondo dopoguerra e che non ha modi né mezzi di sopravvivere a un contesto demografico e geopolitico completamente diverso.
Nei suoi scritti sulle riviste, e in particolare quelli per il Mulino, tutt’altro che occasionali, Berta approfondisce questo elemento politico, nei suoi aspetti nazionali e internazionali, strettamente legati. Fondamentale è un saggio pubblicato per la rivista del Mulino con un titolo davvero notevole, Perché la politica non mi interessa più del 2015. In esso, Berta affronta tre aspetti principali: la crescente percezione di un’incapacità della politica di cambiare il mondo, di influire sulle reali questioni, che avviene mentre è divenuta un’attività sempre più faticosa da seguire, per la difficoltà di distinguere l’essenziale dai tanti rumori di fondo; la perdita di credibilità della dimensione locale della politica, che da promessa di partecipazione civica diviene «uno degli elementi più inquinati che pregiudicano la convivenza civile di questo Paese»; la distanza tra i progetti e i documenti politici, da una parte, e il concetto di «lavoro ben fatto», che sembra qualcosa di totalmente altro, privo di relazione con l’agire politico. È uno scritto molto bello anche perché molto ben scritto. E perché consegna una certa amarezza. Lui ne parlava come frutto della sensazione di un sessantenne, mentre per i ventenni, ci teneva ad aggiungere, altri sono i percorsi della partecipazione e dell’impegno politico. Eppure, è ancora oggi una lettura utile per le persone più giovani, perché quei punti restano eloquenti.
Allo stesso modo, sempre con una forte impronta politica, è significativo un altro scritto apparso per la rivista il Mulino, dove Berta ragiona su una «economia politica della nostalgia». È una riflessione che sarà ripresa anche nel libro su Detroit, nel tentativo di capire il passaggio da un’economia aperta (e dalle illusioni sulla sua totale apertura) ai frequenti richiami di nazionalismo e protezionismo che accompagnano la vittoria di Donald Trump del 2016 e le sue prime mosse da presidente. Berta vede una fase in cui vari leader (e non solo Trump, perché si riferisce anche al Regno Unito e alla Russia) si richiamano, nella costruzione del consenso, al grande passato nazionale o imperiale da restaurare, per acquisire un nuovo ruolo e per promettere una nuova distribuzione del benessere, fino a quel momento impedita dal «rimpicciolimento nazionale» o da «coalizioni avverse» interne o esterne. A interessare Berta è, come prevedibile, la promessa teatrale della rinascita di Detroit e del cuore industriale statunitense da parte di Trump, frutto anche della sua geografia elettorale. E l’annuncio della rinascita industriale venduto all’elettorato e al pubblico, per quanto riguarda l’automotive, cozza con i dati di realtà della divisione internazionale del lavoro e con gli stessi paradigmi con cui l’industria è organizzata, come la cosiddetta produzione just-in-time.
Tuttavia, Berta non si ferma certo qui. L’esposizione di questi dati non cancella l’entità del problema, se ci caliamo nei luoghi. Berta ci porta a Flint, capoluogo della contea di Genesee, nel Michigan, dove la General Motors fu fondata nel 1908, che negli anni Sessanta aveva duecentomila abitanti e ottantamila lavoratori addetti agli impianti della GM. Ora gli abitanti sono meno di centomila, i lavoratori della General Motors un decimo rispetto ai tempi d’oro e c’è una questione sociale che spazia dalla criminalità all’inquinamento idrico. La politica industriale di Obama, ci ricorda Berta, ha salvato l’industria dell’auto americana, ma non ha posato veramente lo sguardo su Flint. Non si è posta il problema dei luoghi. «Quando l’industria si ritira e il suo spazio si contrae, lascia un ambiente, una società, delle organizzazioni che non scompaiono insieme con le strutture produttive. […] È evidente che Flint, al pari di Detroit, non tornerà ai fasti di mezzo secolo fa; ma nemmeno può essere abbandonata a se stessa, senza alcuna speranza». Berta vede una possibile opportunità nella diffusione della manifattura additiva (secondo un paradigma che per esempio sarà presente anche nel libro di Kevin Scott, direttore delle tecnologie di Microsoft, sulla “riprogrammazione” del sogno americano) ma ci ricorda che in ogni caso, a livello occupazionale, non potremo più rivedere Detroit, quella Detroit.
Se riprendiamo quello scritto di Berta oggi, nel contesto della campagna presidenziale degli Stati Uniti tra Biden e Trump, cosa possiamo notare? Lo sforzo per la rinascita manifatturiera è in corso, all’interno di una competizione sempre più serrata con la Cina sulle filiere delle industrie verdi e digitali. I provvedimenti del 2022 dell’amministrazione Biden, il Chips & Science Act e l’Inflation Reduction Act, hanno contribuito a una spesa per costruzioni nella manifattura annualizzata che è quasi il triplo di quella del 2016/2017, quando Berta formulava quelle riflessioni. Allo stesso tempo, c’è un acceso dibattito negli Stati Uniti sulle implicazioni occupazionali di questo processo (per esempio con le osservazioni critiche di Dani Rodrik), oltre che sull’enorme sfida del reskilling. Sono invece incerti, per ora, gli effetti politici di investimenti che hanno avuto senz’altro un occhio di riguardo per alcuni luoghi del disagio delle comunità ma anche della contesa presidenziale. E Biden è a suo modo un’altra espressione di una «economia politica della nostalgia» (sostenibile? necessaria?) dove ci sono i punti di riferimento di un mondo che non esiste più, tra cui il riferimento alle “iconic Big Three” (General Motors, Ford e Chrysler) nei provvedimenti annunciati dalla Casa Bianca per bloccare le auto cinesi.
Da Schumpeter a Elon Musk
Un terzo percorso di Berta che merita ancora approfondimento è la sua ricerca sull’imprenditorialità. Anche in quel caso, nella sua produzione intellettuale, c’è la ripresa e l’ampliamento di un libro. Con il testo pubblicato dal Mulino nel 2018 col titolo L’enigma dell’imprenditore, Berta amplia il volume di Marsilio del 2004, L’imprenditore. Un enigma fra economia e storia. Sul piano teorico, il primo libro è soprattutto in dialogo col grande economista e pensatore dell’imprenditorialità e dell’innovazione, Joseph Schumpeter. Ma è anche un testo “contro” Schumpeter, quando ricorda che la concezione dell’imprenditorialità di Schumpeter guardava soprattutto al passato, visto che a suo avviso il trionfo di un capitalismo manageriale e non imprenditoriale, quella tecno-struttura poi descritta da John Kenneth Galbraith e altri autori, avrebbe frenato la ripresa di una stagione “eroica” di imprenditorialità individuale.
Possiamo osservare come Berta abbia riscritto a quattordici anni di distanza quel libro in modo profondo, aggiungendo tra l’altro un capitolo sulle vite di Walther Rathenau e Henry Ford e, soprattutto, inserendo nel finale una lunga e documentata analisi del capitalismo digitale e di tre suoi protagonisti: Steve Jobs, Mark Zuckerberg, Elon Musk.
Ciò mostra una volta di più come, nel metodo di Berta, stiano insieme la solida formazione sulla storia industriale e la curiosità continua per le nuove dinamiche dell’imprenditorialità, per le trasformazioni della figura dell’imprenditore. Non c’è l’una senza l’altra. Questo è un messaggio anche per la ricerca del presente e del futuro. Da un lato, bisogna arginare la febbre per cui si crede che i protagonisti e le figure di nuovi passaggi e salti tecnologici rappresentino sempre e comunque qualcosa di inaudito, di mai visto, perché nel passato e nella storia ci sono sempre tracce e spunti da riprendere. Dall’altro lato, non si possono affrontare le rivoluzioni tecnologiche del presente se non si conoscono i suoi protagonisti, i loro metodi, i fattori essenziali della loro azione. Non possiamo scrollare le spalle e far finta di aver già visto tutto e il contrario di tutto. Ed ecco che, per questa ragione, un grande studioso dell’automobile e della storia industriale si mette veramente a studiare Elon Musk, prendendo sul serio i suoi temi e problemi. Anche così, come in altri suoi percorsi, Giuseppe Berta ha trasmesso una lezione di metodo e di stile.