“Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica” di Mario Caciagli
- 25 Luglio 2017

“Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica” di Mario Caciagli

Recensione a: Mario Caciagli, Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, Roma, Carocci, 2017, pp. 384, 35 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Ambrosino

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Secondo gli specialisti della politologia è possibile riconoscere in gran parte dell’Europa particolari territori che si caratterizzano per una loro peculiare “cultura politica”. Molte sono in Europa le regioni che si distinguono per la loro bandiera, il comportamento di voto, i quadri di valori, le strutture organizzative e le tradizioni politiche dei gruppi sociali che le abitano. Per tratteggiare le principali caratteristiche di questi territori, tuttavia, un criterio istituzionale che li paragoni a semplici enti dotati di una propria personalità giuridica non basta ed è necessario accostarsi ad essi con un approccio socio-culturale. Quest’ultimo, infatti, permette di cogliere le trasformazioni di lungo periodo che avvengono nel rapporto fra la politica e la società, locale o nazionale poco importa, sia nella sua dimensione spaziale che temporale.

Certamente, regione politica non è sinonimo di regione amministrativa poiché spesso le divisioni culturali dei territori non corrispondono ai limiti imposti dai legislatori. Ma proprio l’assenza di confini certi, complicando le comparazioni e le analisi, rende più avvincente il percorso di indagine e la definizione delle culture politiche in cui l’Europa si è divisa e continua a dividersi, assumendo forme di partecipazione e appartenenza sociale sempre nuove [1].

Tema principale del saggio di Caciagli è proprio la descrizione approfondita di una delle culture politiche più importanti e radicate dello spazio europeo, ovvero la cultura “comunista”, declinata nella sua variante italiana. Delle due grandi culture politiche territoriali del sistema italiano la “bianca” è scomparsa con la DC, mentre la “rossa” ha avuto una lunga agonia [2]. Il lavoro del politologo fiorentino si può quindi intendere come una vera e propria narrazione delle trasformazioni a cui è andata incontro quest’ultima nel corso del Novecento, dalle sue origini nella società agricola a cavallo fra XIX e XX secolo in turbolenta trasformazione, fino alla sua crisi negli anni Novanta del secolo scorso e alla sua definitiva dissoluzione in quest’ultimo decennio.

Ciò che però rende il saggio particolarmente innovativo è la scelta dell’autore di limitare lo spazio della ricerca al microcosmo del Medio Valdarno Inferiore, una delle zone più “rosse” della Toscana “rossa” e noto centro di produzione conciaria. Attraverso quattro cicli di interviste effettuate nel corso di più di vent’anni a “elettori costanti” del PCI e delle formazioni sue eredi (PDS, DS, Rifondazione Comunista e, recentemente, il PD) il fenomeno della cultura “comunista” all’interno dei sei comuni del Comprensorio del cuoio (San Miniato, Fucecchio, Castelfranco di Sotto, Montopoli Valdarno, Santa Maria a Monte e Santa Croce sull’Arno), non solo viene inquadrato nel contesto della trasformazione socio economica dell’area, che evolve da zona agricola mezzadrile e solo parzialmente industriale a comprensorio a prevalenza industriale e di servizi, ma viene rivissuto come una vera e propria “storia familiare” dei suoi abitanti.

Il Medio Valdarno Inferiore, trovando un’espressione di valore scientifico, diviene quindi specchio delle lente ma costanti trasformazioni della cultura politica afferente alla sinistra e privilegiato punto d’osservazione sui comportamenti sociali degli individui che si sono sentiti appartenenti a quella determinata comunità politica. Con una prosa quasi narrativa vengono fatti scorrere di fronte al lettore i pensieri politici e le emozioni di operai metalmeccanici, studenti, casalinghe, contadini, mezzadri e piccoli imprenditori, ma anche di amministratori, sindacalisti, tesserati al Partito e piccoli dirigenti capaci di riflessioni semplici ma allo stesso tempo profonde, di cui l’autore, insieme ad un’ingente quantità di fonti d’archivio secondarie quali documenti delle parrocchie, certificati anagrafici e comunicazioni dalle sezioni di partito più piccole e provinciali, si serve per costruire l’impianto scientifico del libro e dare conto dei cambiamenti della cultura politica “di sinistra”, dal periodo delle lotte mezzadrili degli anni Quaranta-Cinquanta fino alla sua definitiva scomparsa nella società contemporanea [3].

Caciagli identifica la spiegazione di questa decadenza dai ritmi lunghi nella diversa natura della cultura politica “rossa” italiana rispetto a quelle di altri territori europei. In Francia, ad esempio, il PCF poneva quasi solamente il proletariato di fabbrica al centro delle sue attenzioni, così la cultura operaia della banlieu parigina venne completamente travolta dal crollo dell’URSS e dalla deindustrializzazione degli anni Ottanta. In Italia, invece, le classi di riferimento del PCI erano anche i ceti medi e soprattutto i mezzadri, che videro nel Partito un solido punto di riferimento per riscattarsi ed emanciparsi dalla vita nei campi. Fu dunque nelle campagne, ma con il compatto supporto degli operai, che la cultura politica rossa trovò il sostegno più sicuro per la sua sopravvivenza. Alla sua guida si pose il PCI che la rifondò dopo l’esperienza della Guerra e delle lotte degli anni Quaranta-Cinquanta subentrando al PSI, il quale ne aveva gettato le basi durante le lotte sociali di fine Ottocento.

Il Partito, nelle zone di suo insediamento, piantò i semi di una lunga tradizione fatta di valori quali l’etica del lavoro, la solidarietà, la partecipazione e soprattutto il radicamento sul territorio, elementi che, grazie all’istituzione del «socialismo municipale» [4], guidarono la grande trasformazione di regioni agricole in regioni industriali. In un ambiente politico poco polarizzato, i governi locali contribuirono alla crescita di fittissime reti di piccole e medie imprese gestite spesso da ex mezzadri che attribuirono sì a sé stessi ma soprattutto all’appoggio dato dal Partito alle loro battaglie il merito del loro riscatto sociale. Quando le condizioni materiali dei mezzadri cambiarono, la fedeltà politica si mantenne e si trasmise alla generazione successiva.

Certamente, va ricordato che tutto questo avvenne anche grazie a quella che Caciagli definisce «la  corona» [5], ovvero tutta una serie di enti e associazioni satelliti che, rifondando miti e riti vecchi e nuovi (dalle Feste dell’Unità, alla Casa del Popolo fino al mito dell’URSS come laboratorio di una via alternativa di sviluppo e uguaglianza), giocarono un ruolo fondamentale nel mantenimento di una forte egemonia territoriale, trasformando la percezione dei comunisti di essere «diversi e superiori» rispetto al centro romano, antagonista politicamente [6]. Come spiega l’autore: «Conservando molti dei valori tradizionali, la centralità dei municipi e le politiche assistenziali, la subcultura rossa italiana […] divenne sempre più interclassista secondo un’ideologia popolar-progressista in piena consonanza con la strategia del “blocco sociale” del PCI» [7].

La crisi di questo mondo, sia nel microcosmo del Comprensorio, sia in tutto il resto delle “regioni rosse” arrivò con l’avvento della società postindustriale, la fine del Partito e l’indebolimento della vita associativa, in un contesto nuovo dove «gli interessi hanno preso il sopravvento sull’ideologia» [8]. Essendo radicalmente cambiati i modelli di riferimento e le abitudini, la trasmissione della cultura rossa, soprattutto alle nuove generazioni scolarizzate, divenne dapprima difficile ed in seguito impossibile. Fu quindi la somma di trasformazioni locali, nazionali ed internazionali che sfarinò gli elementi centrali della subcultura comunista della quale restarono, e restano, solo alcuni valori, su tutti la solidarietà e la giustizia sociale, ma svincolati dalla politica e limitati ad un livello individuale.

Per questi motivi, a conclusione del lavoro, Caciagli definisce la subcultura rossa «un’epopea del Novecento» [9], riconoscendola cioè come una narrazione epica che si realizzò nell’area del Cuoio, in Toscana ed in molte aree del Paese per un trentennio, fondendo tutti gli elementi sopracitati in un insieme culturale e riuscendo a farlo funzionare come identità a sostegno della propria politica, ma ormai relegata ad «archeologia della politica europea» [10].

 

La definizione di cultura politica

Quasi tutti gli scienziati sociali concordano sul fatto che l’agire politico non è guidato unicamente dalla ragione poiché a quest’ultima si accompagnano e si sovrappongono continuamente emozioni e sentimenti. Fu proprio a partire da questo assunto che, negli anni Sessanta, Gabriel Almond e Sydney Verba, in un saggio destinato a diventare un classico della scienza politica, formularono la definizione di cultura politica intendendo: «l’insieme degli orientamenti psicologici […] delle convinzioni, degli atteggiamenti e dei giudizi dei singoli verso il sistema politico» [11].

Il concetto serviva ai due studiosi soprattutto per avere una solida base interpretativa su cui costruire delle innovative ricerche di carattere comparativo sul grado di stabilità di cinque regimi democratici (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Italia e Germania), il grado del loro sviluppo e, nel quadro delle teorie funzionaliste molto in voga in quel contesto accademico, l’efficienza dei loro governi. Stabili erano la Gran Bretagna e gli USA, deboli le altre tre ed in particolare l’Italia, affetta da parrocchialismi. Vi sarebbero state, dunque, più culture politiche, ma quella “civica” anglosassone si configurava come “meta finale” dello sviluppo politico e pietra di paragone a cui fare riferimento. Tale impostazione verticistica, posizionando la cultura bianca americana ed inglese in cima alla scala delle culture politiche, permetteva di individuarne anche altre, come quella dei neri o quella delle donne, ma esse venivano considerate devianti dalla cultura dominante e destinate ad essere da questa assorbite. La critica che ne seguì puntualizzò come la “cultura civica” così intesa costituisse una vera e propria «ipoteca normativa» che inficiava i risultati e le classificazioni della ricerca. La conseguenza logica, come ha spiegato Caciagli, fu che si costruisse nel tempo «il pregiudizio che si debba prefigurare una cultura politica unitaria. Invece le culture politiche sono plurali e distinte […] e hanno pari possibilità di sopravvivenza» [12].

L’approccio almondiano, che preannunciava l’omogeneizzazione non solo delle subculture distinte per sesso, classe sociale o religione ma anche delle differenze territoriali, fu contestato da Daniel Elazar, il quale sostenne che gli Stati Uniti non hanno una cultura politica uniforme ma molte culture politiche regionali [13]. Se ciò valeva per gli USA, a maggior ragione non esistono culture politiche omogenee in Europa, dove per secoli i gruppi sociali si sono divisi per lingue, politiche, confessioni religione e strutture economiche [14]. Tali differenze hanno accompagnato i processi di costruzione di stati unitari, spesso rendendo il percorso accidentato, e hanno giocato un ruolo fondamentale nella costruzione di regionalismi e di culture politiche regionali [15]. Certamente i due termini non sono sinonimi, anzi: «una cultura regionale non comporta necessariamente la coscienza di un’identità regionale, meno che mai un movimento regionalista» [16], però spesso essa si rivela un utile schema interpretativo per definire i modelli di comportamento politico.

Il caso italiano in questo senso è esemplare: vi si ritrovano regionalismi, corrispondenti a periferie storico-identitarie riconosciute costituzionalmente in cinque regioni a statuto speciale [17] e due grandi “subculture politiche regionali”. Queste ultime furono analizzate per la prima volta da Carlo Trigilia il quale, partendo dall’osservazione della continuità del comportamento di voto sia nelle zone “rosse” del centro che nelle zone “bianche” a tradizione democristiana del Nordest, dimostrò che vi era una robusta rete di strutture politiche radicata sul territorio e una tradizione secolare di appartenenza allo spazio politico che aveva contribuito al solido sviluppo delle due subculture [18]. Per quanto, dunque, fossero diversi i valori fra comunisti e democristiani, il minimo comun denominatore era la presenza di un’identità politica data dal fattore spaziale e dalla consapevolezza della dimensione storica della cultura politica di riferimento.

In conclusione, spiega Caciagli, si può rielaborare il paradigma almondiano fatto da orientamenti psicologici e credenze, ma non si può trascurare che la cultura politica si sostanzia in un contesto definito: «un contesto storico di lunga durata […] e un contesto territoriale che non è uno spazio vuoto ma un prodotto […] che nel tempo storico le generazioni hanno trasformato. È uno spazio sociale che dà senso di appartenenza» [19].

 

Cosa resta oggi della cultura politica?

Nel 1984, anno della raccolta della prima serie di interviste e anno in cui il PCI ricevette il massimo consenso alle elezioni europee, un orgoglioso agricoltore di Marti disse: «Chi ha sempre dovuto faticare non può non essere comunista. Siamo nati con queste idee, ci siamo cresciuti, come si fa a cambiare? E poi si vede che il partito merita» [20]. A distanza di trent’anni il contesto sociale nel quale la politica si trova ad operare è radicalmente cambiato. Alcune fra le ultime interviste avevano rilevato mutamenti quasi antropologici e la completa scomparsa di tutti i simboli, i miti e i riti di cui la cultura politica comunista si nutriva. «Prevale l’egoismo. Siamo cambiati noi», diceva nel 2005 un assessore comunale di Fucecchio, mentre il segretario dei DS di Montopoli aggiungeva: «oggi c’è poca memoria storica e troppa televisione» [21].

Tali affermazioni, anche fin troppo emotive trattandosi di un saggio di scienza politica, forniscono però una prima ipotesi esplicativa del declino della subcultura rossa. Gli accenni al mutamento delle abitudini quotidiane si riferiscono alla rottura dei legami interpersonali sui quali si fondava il comune sentire politico. La televisione, per esempio, aveva radicalmente mutato le forme della comunicazione politica ed era andata a sostituire non solo il ruolo di aggregazione e propagazione politica della casa del popolo, ma anche i vecchi modelli di trasmissione familiare di valori e lealtà di ideologia. Contava anche la fine della conflittualità, sia sul piano locale che nel rapporto con il centro, ora che i governi di Roma erano cambiati e proponevano «scelte politiche fondate […] su issue concrete dell’offerta elettorale e non […] fedeltà inamovibili» [22].

Fondamentale, però, era anche la variabile della prosperità economica diffusa, che, raggiunta proprio grazie al modello di sviluppo proposto da quella stessa cultura politica, aveva poi finito per rivelarsi un’arma a doppio taglio. Nelle parole di Caciagli: «L’idea di progresso che la cultura coltivava […] aveva finito con il risolvere la tensione singolo/collettivo in una rottura a favore dell’individualistico. Il benessere […] aveva portato con sé altri obiettivi, di costume e di valori» [23].

Caciagli sembra dunque suggerire che con la perdita della trasmissione della memoria storica, sia per via di eventi storici che per i fenomeni di secolarizzazione, accrescimento dei livelli di reddito e post-industrializzazione, la subcultura rossa sia definitivamente tramontata. Eppure, al di là di un diffuso pessimismo per l’attuale situazione culturale e sociale, nelle interviste 2005-2006 si tentò anche di rintracciare quanto e se qualche valore di riferimento fosse sopravvissuto. Risultò che il sentimento di appartenenza alla comunità e il senso di solidarietà, sebbene non più veicolati dalla politica e percepiti in maniera assistenzialistica più che di modifica sociale, fossero visti come il più importante lascito di una tradizione «che viene da lontano e […] fortemente presente nel tessuto associativo» [24]. L’eredità della subcultura rossa, dunque, doveva essere ricercata nel ruolo aggregativo delle associazioni, le quali, viste come l’emanazione contemporanea di un antico passato di solidarismo antecedente alla rielaborazione culturale fatta dal PCI e radicato nel locale [25], avevano di fatto sostituito il Partito nell’impegno sociale concreto e nella trasmissione degli ideali.

Se la subcultura rossa è quindi da considerarsi esperienza conclusa, alcune delle sue componenti sono probabilmente disperse nell’ambiente e potenzialmente potrebbero essere riaggregate, sia pure impastate con miscele politiche diverse. Non è certo questa la sede per discutere approfonditamente di cosa avverrà nel Comprensorio e, più in generale, in tutto il Paese, dal punto di vista dei sentimenti di appartenenza politica dei gruppi sociali. Quel che è certo, però, è che in un quadro generale di parallela dispersione dei valori legati ad una visione ideologica della politica e autonoma sopravvivenza di impegno civico e interesse per i problemi della cosa pubblica [26], sarà necessario fornire spazi di discussione e riaggregazione sociale innovativi e funzionali in misura sempre maggiore.


[1] M. Caciagli, Regioni d’Europa, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 131.

[2] M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, Roma, Carocci, 2017, retro di copertina.

[3] Su questo punto Caciagli è preciso: sostenendo che «come in Europa, le regioni rosse in Italia appartengono al passato» egli si pone in diretta polemica con Ilvo Diamanti, il quale sostiene, al contrario, una sopravvivenza della cultura politica “rossa”, per quanto «forse rosa», le cui evidenze empiriche andrebbero ricercate nelle amministrazioni locali e nelle reti associative. Cfr. M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 337 e I. Diamanti, Mappa dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro… e tricolore, Bologna, Il Mulino, 2009.

[4] M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 105 e segg.

[5] Ibidem, op. cit., p. 133 e segg.

[6] Ibidem, op. cit., p. 345.

[7] M. Caciagli, Regioni d’Europa, cit., p. 145.

[8] Ibidem, op. cit., p. 146.

[9] M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 359.

[10] Ibidem, op. cit., p. 376.

[11] G. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton, Princeton University Press, 1963.

[12] M. Caciagli, Regioni d’Europa, op. cit., p. 132.

[13] D. Elazar, The American Mosaic: The Impact of Space, Time and Culture on American Politics, Boulder, Westview, 1994.

[14] M. Caciagli, Regioni d’Europa, op. cit., p. 132.

[15] Si vedano su questo punto i noti lavori di Stein Rokkan sui cleavage ed in particolare sul rapporto centro-periferia. S. Rokkan, State Formation, Nation Building and Mass Politics in Europe, Oxford, Oxford University Press, 1999.

[16] K. Rohe, Regionale (politische) Kultur: Ein sinvolles Konzept für die Wahl- und Parteiforschung?, in D. Oberndörfer e K. Schmitt (a cura di), Parteien und regionale politische Traditionen in der Bundesrepubilk, Berlino, Duncker & Humbolt, 1991.

[17] Una prima descrizione delle regioni a statuto speciale e delle loro diversità soprattutto linguistiche si trova in G. Nevola, Altreitalie. Identità nazionale e regioni a statuto speciale, Roma, Carocci, 2003.

[18] C. Trigilia, Sviluppo economico e trasformazioni sociopolitiche dei sistemi territoriali a economia diffusa. Le subculture politiche territoriali, Milano, Feltrinelli, 1981. Oltre a Caciagli, chi ha ripreso gli studi con questo schema di analisi è stato Marco Almagisti nei suoi lavori sul Veneto. Si veda M. Almagisti, Una democrazia possibile. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Roma, Carocci, 2016.

[19] M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 31.

[20] Intervista rilasciata il 18 settembre 1984 e citata in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 78.

[21] Interviste rilasciate il 28 maggio 2005 e il 19 settembre 2005. Citate in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., pp. 346-347.

[22] M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., pp. 348-349.

[23] Ibidem, op. cit., p. 349.

[24] Intervista rilasciata il 12 maggio 2005. Citata in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 350.

[25] Cfr. su questi argomenti Robert Putnam, convinto che le origini dei valori civici dell’Italia centrale siano da ricercarsi addirittura nei Comuni medioevali. R. D. Putnam, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton, Princeton University Press, 1993.

[26] Cfr. M. Almagisti, P. Messina (a cura di), Cultura politica, istituzioni e matrici storiche, Padova, Padova University Press, 2014.

Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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