Scritto da Michele Lucernoni
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La guerra in Afghanistan voleva essere il primo passo nella “Guerra globale al terrore” progettata dagli Stati Uniti in seguito agli attacchi terroristici dell’11 Settembre. Un’azione militare decisiva contro l’organizzazione che aveva perpetrato gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono, nonché al regime che forniva loro un rifugio sicuro. Dopo aver abbattuto il regime talebano, la missione USA, coadiuvata da un intervento NATO, si pose l’obiettivo di costruire un “Afghanistan democratico”. Vent’anni, 2,3 trilioni di dollari e 240.000 morti dopo, gli Stati Uniti abbandonano definitivamente il Paese e il regime da loro costruito crolla repentinamente su sé stesso certificando il fallimento di una delle più lunghe e costose operazioni di State-building al mondo. Questo articolo vuole provare a identificare alcune delle cause di questo fallimento partendo necessariamente da una introduzione etnica e storica del Paese, in quanto è fondamentale possedere delle coordinate generali per comprendere una realtà così diversa da quella occidentale.
Etnografia
Innanzitutto, si può affermare che l’Afghanistan non esista. Così come è dubbia l’esistenza dell’Iraq, della Libia e di molti altri Stati costruiti tracciando linee teoriche su carte geografiche senza tenere in considerazione o provando ad amalgamare le realtà culturali, storiche, religiose e tribali sottostanti.
L’inno nazionale del Afghanistan riconosce 14 gruppi etnici tra i 38 milioni di abitanti del Paese: pashtun, tagiki, hazara, uzbeki, beluci, turkmeni, nooristani, pamiri, arabi, gujars, brahuis, qizilbash, aimaq e pashai. Pochi di questi gruppi sono originari e concentrati unicamente in Afghanistan; la maggior parte, invece, appartiene a comunità sovranazionali presenti anche nei paesi vicini.
I pashtun sono il più grande gruppo etnico del Paese, di etnia iraniana parlano il Pashto e seguono l’Islam sunnita, sono divisi in numerose tribù e clan distinti tra loro per storia e cultura. Tra le principali troviamo Durrani, la tribù dell’Ex Presidente Karzai, Daulatzai, Donani, Ghorya, Kakar, Khostwal, Mangal, Shinwari e infine i Ghilzai, i quali formano la maggioranza della fazione talebana. Nonostante i pashtun costituiscano tra il 38% e il 42% della popolazione dell’Afghanistan la maggior parte di essi si trova oltre il confine con il Pakistan. Gli accordi della Linea Durand, infatti, divisero nel 1893 le comunità pashtun fissando il confine attuale tra Pakistan e Afghanistan, l’accordo e il confine stesso non sono mai stati riconosciuti dal governo afghano e rappresentano un elemento di instabilità cronica per il Paese. La cultura e l’organizzazione sociale pashtun sono tradizionalmente influenzati dal pashtunwali, un connubio di tradizioni tribali e legge islamica che formano un codice morale e legale vincolante all’interno della società. Il pashtunwali, nella sua forma più rigorosa, è per lo più seguito solo nelle tribù rurali. Tuttavia, la sua influenza può ancora essere vista in gran parte del comportamento pashtun.
I tajiki sono il secondo gruppo etnico del Paese, sunniti di etnia iraniana parlano il dari, un dialetto persiano lingua franca del Paese, e appartengono a un’ampia comunità sovranazionale presente in maniera maggioritaria nel confinante Tajikistan. A differenza della maggior parte degli altri gruppi etnici del Paese tendono a presentare un livello più alto di urbanizzazione e non sono organizzati su base tribale ma intorno a gruppi familiari e villaggi.
Allo stesso modo uzbeki e turkmeni, sunniti di etnia turca, appartengono a gruppi etnici presenti rispettivamente in maniera maggioritaria in Uzbekistan e Turkmenistan e la loro organizzazione sociale non è tribale ma incentrata su clan e famiglie allargate.
Gli hazara sono il terzo gruppo etnico del Paese e hanno caratteristiche storiche e linguistiche distinte. La loro origine è dibattuta, la tesi più accreditata li identifica come discendenti dei mongoli di Gengis Khan. Notevolmente diversi nell’aspetto fisico rispetto alla maggioranza pashtun si distinguono anche per la religione, la stragrande maggioranza degli hazara è infatti di fede musulmana sciita, in contrasto con i pashtun musulmani sunniti. A causa di queste differenze, gli hazara sono stati spesso oggetto di discriminazioni e persecuzioni nel corso della storia dell’Afghanistan moderno e sono stati sempre attivamente supportati dal governo di Teheran.
Infine, i nuristani, a loro volta in possesso di caratteristiche etniche e linguistiche uniche in Afghanistan, sunniti di origine indo-iraniana si differenziano per un aspetto fisico dai tratti spiccatamente caucasici, con capelli e occhi di colore chiaro e per un Islam ancora dai forti tratti animistici e politeistici.
L’Afghanistan è un mosaico di etnie intrecciate tra loro e i confini geografici con gli stati confinanti che separano gruppi etnolinguistici legati tra loro, sono spesso prettamente teorici. Nonostante questo, secondo l’antropologo americano Thomas Barfield, “l’etnia in Afghanistan è essenzialmente prenazionalista”, con gruppi etnici che hanno interessi economici e politici simili ma nessuna ideologia comune o aspirazioni separatiste in chiave nazionalista”. I matrimoni tra etnie e tribù diverse sono comuni, il farsi e il pashtun sono entrambe considerate lingue ufficiale del Paese. La cultura e le tradizioni si mischiano tra le varie etnie e la religione islamica sunnita rappresenta un forte tratto in comune. Tuttavia, l’estrema frammentazione etnica e tribale ha generato una società civile molto diversa rispetto alle società civili occidentali, nella quale l’appartenenza alla medesima etnia, gruppo religioso, clan o tribù sostituisce e anticipa l’appartenenza ad una medesima comunità nazionale.
Cenni storici
Le relazioni e le contrapposizioni tra i vari clan, tribù e gruppi etnolinguistici del Paese si sono in gran parte sviluppate durante l’emergere dell’Afghanistan moderno a partire dal regno di Amir Abdul Rahman (1880-1901). Durante il suo regno, in seguito agli accordi del 1893 (Linea Durand) in base ai quali l’Emiro cedette la maggioranza dei territori abitati dall’etnia pashtun all’India britannica, i pashtun persero la loro stragrande maggioranza all’interno del Paese. Nonostante questo, il consolidamento di uno Stato centralizzato, la pacificazione degli Hazarajat e il reinsediamento dei pashtun nelle regioni settentrionali, etnicamente miste, stabilirono il loro dominio de facto sull’Afghanistan anche se la gestione dello Stato e della burocrazia rimase largamente nelle mani di Tagiki e Quizilbashi, popolazioni di madrelingua farsi. Durante il successivo mezzo secolo l’Emirato dell’Afghanistan, in parte sotto controllo britannico fin dall’inizio del XIX secolo e stretto tra le dinamiche del “Grande Gioco”, godette di un governo relativamente stabile, centralizzato, per lo più dominato dai pashtun, all’interno del quale i conflitti non erano su base etnica ma piuttosto per le posizioni chiave di potere.
Nel 1926 venne istituito il Regno indipendente dell’Afghanistan, libero dal controllo britannico e Stato successore dell’Emirato. Mohammed Zahir Shah, di etnia pashtun, governò il Paese dal 1933 fino al 1973. Durante il suo regno tentò di modernizzare il Paese in chiave progressiva e liberale orbitando nella sfera di influenza sovietica; tuttavia, il Regno dell’Afghanistan restava un’entità politica altamente centralizzata che non permeava gran parte della società civile al di fuori di Kabul o altri importanti centri abitati. La maggior parte del Paese sfuggiva al controllo dell’autorità centrale e continuava ad essere organizzata in chiave etnica e tribale. La “modernità” si concentrava conseguentemente soprattutto nell’area della capitale. In quegli anni l’appartenenza etnica iniziò a svolgere un ruolo più importante negli schieramenti politici. Emersero organizzazioni come “Setam-e Milli” (Oppressione nazionale), il cui obiettivo era il rovesciamento dell’influenza pashtun in Afghanistan, e come “Afghan Millat”, un partito politico nazionalista pashtun con il dichiarato obiettivo di aumentare l’influenza pashtun in Afghanistan a scapito delle altre etnie e addirittura di unire i pashtun di tutti i paesi.
Dopo diversi anni di disordini politici il colpo di stato militare comunista del 27 aprile 1978, chiamato Rivoluzione Saur dai suoi istigatori, segnò la fine della dinastia Durrani e portò al potere la fazione Parcham, segnando l’inizio del coinvolgimento sovietico nel Paese al quale si contrapponevano svariate forze islamiste radicate nelle aree tribali del Paese. L’intervento militare sovietico seguì il colpo di stato di pochi mesi e durò fino al 1989 costando all’URSS quasi 15.000 soldati in un tentativo prolungato, sanguinoso e in definitiva fallimentare di sconfiggere i mujahedin e mantenere l’autorità di un governo centrale socialista nel Paese.
In questi anni, durante il dominio del leader comunista Parcham Babrak Karmal, vennero attuati tentativi volti a diminuire la rappresentanza e l’influenza pashtun all’interno dell’esercito e delle istituzioni, andando anche a promuovere la lingua dari a spese del pashto. Vennero inoltre attuate politiche radicali di collettivizzazione e un’ampia e sanguinosa repressione che in definitiva alienò completamente la maggioranza della popolazione rurale e tribale del Paese ai tentativi del governo di istituire un’autorità centrale comunista. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita fornirono assistenza alle forze islamiste che combattevano contro il governo per procura sovietico, molti pashtun islamisti trovarono rifugio e supporto nelle comunità pashtun del Pakistan e l’Iran supportò attivamente i gruppi sciti hazara.
In questa atmosfera di frammentazione interna e interferenza esterna, gli sforzi del presidente Najibullah per la riconciliazione intra-afghana e la fine degli scontri fallirono. La caduta di Najibullah nel 1992 segnò l’inizio della fase più caotica della guerra civile e il completo smantellamento delle istituzioni statali afghane. Il collasso dello Stato si rivelò disastroso per tutti i civili afghani, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e politica. Dopo un periodo di guerra civile tra diverse fazioni islamiste rivali, i talebani presero di fatto il controllo della maggior parte dell’Afghanistan nel 1996, con la notevole eccezione dei territori controllati dal “Fronte Unito Islamico per la salvezza dell’Afghanistan”, anche conosciuto come Alleanza del Nord e formato da leader mujahedin sciiti e sunniti, comprendente tagiki, uzbeki, hazara, e con a capo Ahmad Shah Massoud e Burhannudin Rabbani.
Benché la maggior parte dei talebani provenisse dalle confederazioni tribali pashtun meridionali dei Ghilzai e dei Durrani, la loro organizzazione non è mai stata definita su base tribale. Sebbene fossero visti come aderenti al pashtunwali da osservatori esterni, i talebani si opposero ad importanti aspetti dei narkh, o leggi consuetudinarie in varie regioni pashtun. Il loro obiettivo centrale, al quale aderirono fermamente, era attuare la legge islamica della Shari’ah e portare la propria visione di “pace” in Afghanistan.
State building
Questa breve introduzione etnica e storica dell’Afghanistan restituisce il quadro di una società estremamente frammentata e divisa lungo linee etniche, tribali, religiose, che non ha mai avuto esperienza di un governo statale unitario capace di esercitare il proprio controllo sull’intero Paese e flagellata da una guerra civile ininterrotta dal 1978.
In seguito all’intervento statunitense nel 2001, il 05 dicembre il “Bonn Agreement” stabilì un governo provvisorio e una tabella di marcia per la ricostruzione politica del Paese. Hamid Karzai, un leader pashtun Durrani di Kandahar, venne scelto per guidare il primo governo di transizione. L’amministrazione da lui guidata comprendeva 30 membri, 11 pashtun, 8 tagiki, 5 hazara, 3 uzbeki e 3 membri di altre minoranze etniche. Obbiettivo dichiarato della coalizione internazionale era costruire uno Stato dotato di nuova costituzione, con una magistratura indipendente, con elezioni libere ed eque e che fosse in grado di garantire la protezione dei diritti delle donne e delle minoranze.
Sviluppare democraticamente il Paese costruendo istituzioni politiche ed economiche inclusive si rivelò più complicato della semplice rimozione dell’oppressivo regime talebano in quanto, come osserva Barnett Rubin, le strutture tradizionali di potere politico in Afghanistan tendono ad essere molto localizzate all’interno delle specifiche regioni geografiche e organizzate intorno a tribù o clan. Non c’è mai stato nella storia del Paese un governo centralizzato che, esercitando il proprio controllo su tutto il territorio, abbia potuto avere un impatto sulla vita della maggior parte degli afghani. Proprio per questo la costruzione di una democrazia centralizzata risulta un concetto alieno ed estraneo alla maggior parte degli afghani e del tutto senza precedenti ai quali aggrapparsi nella storia del Paese. Al di fuori dei principali centri abitati gran parte del Paese è sempre stato governato da leggi e usanze tribali che sono rimaste in gran parte immutate da centinaia di anni. Inoltre, Rubin sottolinea come un governo centralizzato sia sempre stato tradizionalmente considerato dalla maggior parte degli afghani come il “bottino di guerra” per qualunque fazione politica fosse riuscita a stabilire un monopolio sufficiente della forza. “Nessuno vedeva la costruzione degli Stati come un mezzo per esprimere l’identità o per proteggere i diritti di quelli che li abitavano. Gli Stati erano organizzazioni attraverso le quali i conquistatori esercitavano il controllo sulle popolazioni e i territori”.
Secondo l’antropologo Thomas Barfield tentare di costruire uno Stato centralizzato, così come voluto dagli Accordi di Bonn, fu un errore e il periodo di relativa pace intercorso tra il 1929 e il 1978 dimostra come i maggiori successi istituzionali vengono ottenuti quando si procede cooptando leader locali non tentando di imporre l’autorità di Kabul. In aggiunta, l’iniziativa di State building messa appunto dall’amministrazione Bush era ampiamente ispirata alle dottrine “neoconservatrici” delle relazioni internazionali, le quali spesso partono dall’assunto che ogni essere umano abbia un desiderio intrinseco di vivere secondo uno stile occidentale in una democrazia liberale.
Come sostenuto da Jeffrey S. Witter la democrazia liberale occidentale non è un’aspirazione umana universale mentre è diffuso il desiderio di voler influenzare le questioni politiche che hanno un impatto diretto sulla vita di tutti i giorni. Negli Stati Uniti e nella maggior parte degli altri paesi occidentali questo desiderio trova realizzazione in un sistema di governo democratico. In Afghanistan, al contrario, spesso implica il coinvolgimento in forme di partecipazione tribali o di clan. Infatti, i processi decisionali tribali sono radicati nelle consuetudini e nella legge islamica e non ruotano necessariamente intorno alla democrazia partecipativa. Tutto ciò non conduce alla conclusione che l’Afghanistan sia incompatibile con i valori liberali e democratici occidentali ma che il Paese dovrà sviluppare il proprio sistema istituzionale e politico gradualmente in rispetto delle proprie caratteristiche storiche e sociali, non vedersi imposto dall’alto un modello esterno.
Barfield sostiene che le riforme arriveranno lentamente in Afghanistan, iniziando dalle città e poi estendendosi alle campagne: “Abdur Rahman (1840 – 1901) impose l’autorità di Kabul uccidendo più di centomila dei suoi sudditi ma perfino lui non concepì mai lo Stato come uno strumento di cambiamento sociale ed economico… trasformare l’economia, i valori e gli atteggiamenti dell’Afghanistan era un compito che era meglio lasciare a Dio”.
Come sostenuto da Daron Acemoğlu e James A. Robinson costruire uno Stato prospero, in grado di migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini garantendo libertà e rispetto dei diritti fondamentali, richiede un delicato bilanciamento di poteri tra società civile e istituzioni statali. Secondo il modello interpretativo costruito dai due studiosi l’Afghanistan è un caso di “Leviatano Assente”: una società senza Stato, all’interno della quale un insieme di norme e consuetudini tribali e religiose regolano il rapporto tra i membri della stessa. L’efficace costruzione di istituzioni statali precedentemente inesistenti richiede quindi il coinvolgimento dei vari attori sociali e un progressivo percorso di rafforzamento delle stesse attraverso la legittimità riconosciutagli dal coinvolgimento della società.
I tentativi di State building occidentali si concentrano invece nella costruzione di uno Stato centralizzato, ignorando completamente quella parte di società dalla quale provenivano i gruppi talebani, (nemmeno invitati agli Accordi di Bonn del 2001) e riversando ingenti risorse nel regime corrotto e non rappresentativo del primo presidente post-talebano dell’Afghanistan, Karzai. L’intervento internazionale rafforzò il ruolo della politica clientelare in Afghanistan andando a finanziare stakeholder locali che utilizzarono i fondi loro concessi per stabilizzare le loro reti di potere clientelare su base etnica e di clan, senza tentare di cooptare e coinvolgere maggiormente in chiave inclusiva i vari esponenti della società afghana. Di fatto, salvo gli esponenti più urbanizzati che abitavano nelle grandi città, la società afghana rimase sostanzialmente aliena al processo di State building occidentale, percepito spesso come un tentativo di ingerenza in tradizioni millenarie consolidate.
L’eccezionale livello di corruzione che permeava l’apparato statale e i servizi di difesa e sicurezza del governo afghano contribuì a rendere ostile la maggioranza della popolazione e incrementò il deficit di legittimità delle stesse istituzioni. Nel tentare di spiegare l’origine di queste diffuse pratiche clientelari Fukuyama sottolinea come la corruzione sia essa stessa una forma di governo tipica dei “governi pre-moderni” dove il potere è basato su legami familiari o tribali piuttosto che su istituzioni impersonali. In regimi personalistici del genere la divisione di risorse economiche è il modo principale per “rafforzare le istituzioni”.
È infine bene ricordare che nessuno degli Stati confinanti dell’Afghanistan, ovvero Pakistan e “Turko-Persia” secondo la definizione di Barfield, Stati con i quali l’Afghanistan condivide in parte caratteristiche sociali, culturali e storiche, ha per ora intrapreso la strada della democrazia liberale di stampo occidentale. L’esperienza del Tajikistan in questo senso è significativa. Il Paese venne conquistato dai russi nella seconda metà del XIX secolo e in seguito governato dai sovietici fino al 1991. L’URSS riuscì a costruire delle istituzioni statali con un controllo precario sulla società ma le strutture sociali di fondo del Paese, i clan, rimasero relativamente immutate. La società tajicka è infatti organizzata intorno agli “avlod”. Nelle parole del sociologo tagico Olimova, “un avlod è una comunità patriarcale di consanguinei che ha un antenato in comune e interessi comuni, e in molti casi condivide bene e mezzi di produzione, e mette insieme o coordina le spese e le entrate della famiglia”. Più avlod aggregati su base regionali formano dei clan. In una ricerca condotta a livello nazionale nel 1996 il 68% dei tagichi diceva di far parte di un avlod. Dopo il crollo dell’URSS, che sosteneva le istituzioni formali del Paese, queste collassarono e il Paese precipitò in una guerra civile tra clan, i quali non erano mai stati integrati e coinvolti nel processo di costruzione dello Stato. Il bilancio delle vittime è incerto, con stime che variano da 10.000 a 100.000 morti.
Conclusioni
Influenzati dalle teorie neoconservatrici che affermano l’universalità del desiderio di una società liberale basata sulla democrazia e sullo Stato di diritto, è possibile spendere vent’anni a tentare di “esportare la democrazia”, ossia costruire istituzioni politiche, sociali ed economiche di stampo occidentale. Tuttavia, non è possibile crearle dal nulla e imporle su realtà tribali cambiando la cultura millenaria di popolazioni con sistemi sociali e di valori diversi da quelli occidentali.
Non si può creare la Svizzera o l’Inghilterra senza la società civile occidentale, i partiti politici, i sindacati, gli stakeholder, nonché in mancanza di un’evoluzione secolare delle forme statali. Quello che si otterrà sarà il rigetto della maggioranza della popolazione, il dilagare della corruzione con i flussi di denaro internazionale che spariscono lungo le linee delle alleanze etniche e tribali. La via allo sviluppo deve necessariamente essere una via in parte locale, autonoma e autogenerata.
La caduta fragorosa e repentina di uno Stato e di un esercito costruito in vent’anni spendendo 2,26 trilioni di dollari da parte della principale potenza mondiale, dimostra la definitiva fragilità di certe iniziative di State building top-down e l’eccessiva ambizione nel considerare le forme sociali e di governo occidentali come universali.
Bibliografia
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