Ahmet Davutoğlu e la dottrina della “profondità strategica”
- 05 Novembre 2019

Ahmet Davutoğlu e la dottrina della “profondità strategica”

Scritto da Alberto Mariotti

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Agli inizi del nuovo millennio Ahmet Davutoğlu, allora semi-sconosciuto Professore di Relazioni Internazionali all’Università di Beykent (Istanbul), pubblicava un poderoso volume (circa 584 pagine) dal titolo Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia (Stratejik Derinlik. Türkiye’ nin Uluslararasi Konumu). Benché tutt’oggi sconosciuta ai più – l’opera non è stata mai tradotta in inglese – una seppur breve (e parziale) disamina dell’opera può esser chiarificatrice per comprendere al meglio l’andamento della politica estera turca nel XXI secolo. Non tanto perché l’opera in questione segna l’inizio di una brillante carriera politico-diplomatica[1], quanto perché l’ascesa politica di Davutoğlu sembra coincidere, almeno parzialmente, con l’ascesa stessa dell’AKP in un periodo di grandi sviluppi e successi che avrebbero portato la Turchia al centro delle relazioni internazionali. Quasi a dare una parvenza di credibilità alle parole di Özal – allora giudicate spropositate e senza fondamento – secondo cui «il XXI secolo sarà il secolo dei Turchi».

Nell’opera dell’autore possiamo riscontrare una sistematizzazione in chiave unitaria e più articolata della visione ozaliana, ma anche una critica alla mancanza di visione e coscienza delle potenzialità del Paese anatolico e di un’organicità delle azioni di politica estera del decennio passato. Turgut Ozal, al potere tra il 1983-93, portò avanti «un’acuta politica di equilibrismo strategico tra alleanza con l’occidente e maggior autonomia regionale»[2]. L’obiettivo di Özal era quello di far inquadrare la “giusta posizione della Turchia nel mondo”; dunque il leader turco gradualmente avrebbe cercato nel decennio al potere di dar forma a una politica estera più attiva e di ampio raggio, riorientandola verso le vicine aree geografiche, tra cui Medio Oriente, Caucaso, Balcani ed Asia Centrale. Soprattutto, rispetto alla visione dell’élite militare dominante all’epoca, Özal ha preferito fare leva sul soft-power, valorizzando i legami culturali ed economici, usando la carta della religione islamica moderata propria della Turchia e i legami culturali con le popolazioni dell’ex impero ottomano.

I primi anni Novanta furono anni rilevanti per la politica estera turca: il crollo del muro di Berlino e la seguente dissoluzione dell’Urss, la crisi in Jugoslavia e l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein contribuirono in modo determinante a un “risveglio geopolitico” da parte delle élite turche. Il decennio in questione segnò via via una rottura dei paradigmi che ne avevano guidato la politica estera sino agli anni Novanta. La prima causa di tutto ciò fu sicuramente il venir meno delle costrizioni geopolitiche tipiche dalla Guerra Fredda. Dissolta infatti l’Unione Sovietica, da una parte si aprirono possibilità economiche e ambizioni politiche non irrilevanti, che risvegliarono nelle élite i sogni panturanici[3] da sempre coltivati; dall’altra, il venir meno del principale antagonista dello scontro bipolare rischiava di ridimensionare la valenza strategica della Turchia all’interno della Nato. In questa prospettiva la scelta di Özal di partecipare alla Guerra del Golfo può esser vista come un’occasione per rafforzare l’immagine del Paese come avamposto in Medio-Oriente.

L’idea che guidò la politica estera turca di questo decennio era dunque quella di sfruttare il mutato contesto geopolitico per perseguire con maggiore autonomia i propri interessi: mantenere ottime relazioni con l’Occidente, ma contestualmente aumentare i legami politici ed economici verso sud e verso nord-est. Sembravano quindi realizzarsi le condizioni ottimali per quel passaggio da una politica estera passiva e dipendente dagli alleati storici, ad una proattiva e multidimensionale, che si estendesse su tutta l’area d’influenza dell’ex Impero ottomano[4]. E tuttavia, come sostiene Makowsky, Ankara, a partire dalla partecipazione alla Guerra del Golfo, «era lontana dall’avere una politica estera assertiva; continuava piuttosto a utilizzare il più possibile diplomazia e multilateralismo per promuovere stabilità e prosperità nelle varie regioni a lei legate»[5].

Ponendosi dunque per certi versi nel solco delle direttrici che le élite turche avevano impresso alla politica estera negli anni Novanta, Davutoğlu con la sua opera cercò una sistematizzazione teorica di quella che avrebbe dovuto esser la postura di Ankara nel nuovo millennio.

 

La “Dottrina Davutoğlu”

L’assunto di fondo del manuale risiede nelle potenzialità della Turchia date dal suo posizionamento geografico e dal suo retaggio storico-religioso e culturale; una “profondità strategica” che fa del Paese «non una media potenza regionale, ma un attore di prima grandezza nel panorama internazionale».

Da ligio Professore di Relazioni Internazionali Davutoğlu costruisce la propria “equazione della potenza”:

G= (SV+PV) ´ (SZ´SP´SI) dove:
G = Potenza
SV = Fattori Costanti à storia (t); geografia (c); demografia (n); cultura (k)
PV = Variabili à capacità economica (ek) + capacità tecnologica (tk); capacità militare (ak)
SZ = Mentalità Strategica
SP = Pianificazione Strategica
SI = Volontà Politica

Analizzando le componenti da lui individuate nell’equazione, possiamo constatare come la Turchia goda, per ciò che concerne i fattori costanti (SV), di un grande potenziale. La sua posizione geografica, al crocevia tra Balcani, Mar Nero e Caucaso, Mediterraneo orientale e Golfo Persico sino all’Asia Centrale, rende Ankara un potenziale interlocutore privilegiato di molti stati, ponendo il territorio turco al centro di un’intersezione di interessi di vario genere. Dunque, essa gode di una posizione centrale nell’ambito delle vie di comunicazione est-ovest e nord-sud.

Una posizione sì privilegiata, ma al contempo complicata. E proprio per questo è interesse di Ankara assurgere a ruolo di mediatore degli interessi e dei conflitti della zona, affrancandosi dalla dipendenza politica occidentale che ha relegato il Paese a gendarme di confine.

A determinare la vocazione turca ad un ruolo di mediazione, oltre alla posizione geografica, sono, come abbiamo avuto modo di accennare, il suo retaggio storico ed i legami etnico-religiosi e culturali ereditati dai contatti intessuti dell’Impero Ottomano. Un Impero che è stato liquidato, dal punto di vista formale e del diritto internazionale, ma che ha lasciato lacune geopolitiche e culturali nelle aree che occupava.

A tal proposito Davutoğlu interpreta gli sconvolgimenti che hanno avuto luogo per tutti gli anni Novanta lungo il proprio “bacino di prossimità”, come chiare manifestazioni del continuum dei legami imperiali. Egli spiega, ad esempio, i movimenti demografici e gli appelli da parte delle popolazioni colpite da crisi e scenari di guerra (Cipro e Iran-Iraq in precedenza; Guerra del Golfo, Balcani, Nagorno-Karabakh negli anni Novanta) verso la Turchia come segni del lascito ottomano. Questo avrebbe fatto sì che tali popolazioni individuassero ancora nella Turchia il punto di riferimento politico e la potenza capace di proteggerli o a cui rivolgersi. Davutoğlu, tuttavia, constata altresì come Ankara si sia fatta trovare del tutto impreparata a tali sviluppi. La Turchia kemalista ha sentenziato la fine dell’Impero Ottomano, ma non ha potuto cancellare definitivamente i legami storico-culturali con le aree di ex influenza. Questo ha comportato che si sia trovata nella situazione di dover affrontare la responsabilità del lascito imperiale senza aver sviluppato una tradizione culturale e istituzionale adeguata a reggere a tali urgenti obblighi.

Nel nuovo panorama internazionale, privo dei paradigmi dell’era bipolare, la Turchia si trova dunque a dover reinterpretare il proprio ruolo geopolitico. Il primo passo, a detta di Davutoğlu, deve esser quello di rifondare la propria identità, mentalità e cultura politica. Compreso ciò, l’approccio alla politica estera partirà necessariamente dalla definizione del proprio hinterland, dunque della propria sfera d’influenza. Cosa impossibile per chi, come è stato per lunghi decenni, si è concepito come oggetto di influenze esterne.

Compito, opportunità e dovere della Turchia sono dunque, nella visione del Professore, quelli di rivitalizzare la propria eredità storica, ricca, variegata e multiforme. In questo modo la Turchia potrà non solo contare sul piano regionale, ma esercitare la propria influenza nelle aree di crisi globali. Ecco perché, specifica Davutoğlu, posizionamento geografico e fattori storici non bastano di per sé. «L’importanza della collocazione geopolitica è sempre stata legata alla tradizione diplomatica e al ‘genio’ di chi la utilizzava»[6]. Ovvero, riprendendo l’equazione della potenza: mentalità strategica (SZ), pianificazione strategica (SP) e volontà politica (SI).

 

Una politica estera per il nuovo millennio

Secondo l’autore per tutto il periodo della Guerra Fredda, affrancandosi proprio da quel retaggio imperiale, la Turchia ha cercato di sfruttare la propria posizione unicamente per cercar di vedersi integrata in quel blocco unitario occidentale che, da parte sua, guardava ad essa solo come fattore locale in un panorama dove era necessaria stabilità. Ma con l’emergere del nuovo ordine multipolare, dinamico e sempre più interdipendente, la Turchia non può più permettersi di optare per una politica estera volta al mantenimento dello status quo. Pena esser travolta dal nuovo corso delle relazioni internazionali.

Ecco che, secondo Davutoğlu, la strategia turca per il nuovo secolo non dovrebbe limitarsi a proteggere i confini della nazione, ma a trasformare in globale l’influenza locale, accrescendo gradualmente l’apertura internazionale del Paese[7]. E Ankara può farlo «riorganizzando in forma alternativa i rapporti con i centri di potenza e creando un hinterland fondato su rapporti culturali, economici e politici storicamente consolidati». Ma, precisa, un’apertura in tal senso, verso una politica di ampio raggio in primis regionale, non può prescindere da una effettiva riorganizzazione delle relazioni con i propri vicini. Davutoğlu è cosciente di come gli anni della Guerra Fredda e la decisione presa dalle élite turche di schierarsi con l’Occidente abbiano prodotto numerose frizioni con molti degli Stati confinanti. I Paesi arabi non hanno mai visto di buon occhio la subordinazione di Ankara agli Stati Uniti (e ad Israele); il perenne scontro con la Grecia, per quanto condizionato dalla comune appartenenza filo-occidentale, unito alla crisi aperta con la Bulgaria, ha fatto e fa sì che la Turchia non riuscisse e tuttora non riesca in un’incisiva politica per i Balcani. I rapporti tesi con i vicini Armenia, Georgia e Iran rendono difficile una strategia coerente e una politica efficace verso il Caucaso. Risulta chiaro agli occhi del Professore come «non esiste nessuna politica di alleanze alternative in grado di controbilanciare i rischi connessi da una politica di continuo scontro con tanti Stati della regione»[8]. L’autore non manca di far notare come gli accordi con Israele degli anni Novanta[9] siano un fulgido esempio del riflesso tipico della ricerca di accordi nazionali e internazionali per un equilibrio regionale, benché questi abbiano provocato una crisi permanente tra la Turchia e gli Stati confinanti a sud e a est.

La nuova strategia turca deve esser dunque quella di superare le tensioni con i vicini. Per farlo è necessario che le relazioni con essi siano emancipate dalle rivalità istituzionali e di regime, estendendole in modo che a prevalere siano fattori economici e culturali. Non è un caso che Davutoğlu citi spesso come esempio le relazioni tra Francia e Germania, acerrime nemiche e rivali per lunghi decenni, ma che tramite accordi prevalentemente economici sono riuscite a integrarsi pacificamente all’interno della comunità europea.

Le realtà strategico-geopolitiche, in sintesi, devono entrare in sintonia con quelle politico-economiche. Solo in questo modo la Turchia riuscirà non solo ad avere «zero problemi con i vicini», declinazione alla Davutoğlu del «pace in casa, pace nel mondo» di Atatürk, ma a far di sé stessa anche uno snodo commerciale tale da rendere effettiva l’ascesa internazionale del Paese. Una Pax-Ottomana che permetterebbe alla Turchia di diventare la voce di tutta l’area e assurgere a naturale interlocutore delle due potenze con aspirazioni globali del nuovo millennio: Cina e Stati Uniti[10].

In riferimento al neo-ottomanismo, troppo spesso inteso unicamente nell’accezione di un allontanamento di Ankara dagli storici partner atlantici, di cui la Repubblica di Turchia è più volte – a ben ragione, oggi – accusata, bisogna ribadire come Davutoğlu non abbia in realtà mai teorizzato una frattura tra Turchia e Occidente, così come mai ha auspicato un possibile allontanamento di Ankara dalla Nato. Semplicemente l’autore ha constatato i mutamenti in atto e la nuova realtà internazionale, disegnando conseguentemente una nuova geopolitica turca.

Una nuova strategia che non è vista assolutamente, nel volume, come antitetica o conflittuale con l’Occidente e l’Europa; ma, anzi, che sia in grado di stare al passo con i nuovi tempi, riequilibrando lo ‘sbilanciamento a occidente’, in modo da farsi promotrice di pace nella regione e collante degli interessi tra le parti. Lo stesso Davutoğlu neo-Ministro (degli Esteri), rispondendo più volte alle critiche circa una nuova politica estera neo-ottomana da parte di Ankara, ha sottolineato come quello che dagli altri viene definito “neo-ottomanismo” altro non è che il desiderio di Ankara di farsi promotrice di una pace stabile tra le popolazioni multietniche e multiculturali della regione. Se per neo-ottomano si intende questo, allora è possibile parlare di una ricerca da parte turca di una pax-ottomana[11]. Ricordando ancora una volta come «la Turchia non sia un paese periferico né all’Europa, né al Medio Oriente e nemmeno all’Asia Centrale».

Se questo articolo ha avuto l’obiettivo di delineare il pensiero del “Kissinger turco”, il prossimo, che costituisce un continuum con il presente, porrà l’accento sul come tale “dottrina” sarebbe divenuta – con tutti i limiti imposti dall’ambiziosità degli obiettivi prefissati – la piattaforma programmatica del nuovo corso della politica estera della Turchia nei primi mandati del partito islamico-liberale al governo. Durante i quali, non a caso, Davutoğlu servì come Consigliere speciale, Ministro degli Esteri e Primo Ministro. Vedremo altresì come il progressivo allontanamento di vedute tra Ahmet Davutoğlu e Recep Tayyip Erdoğan ha portato alla fuoriuscita del primo dal Partito e ad una progressiva involuzione della posizione del secondo in politica estera, rompendo completamente con la traiettoria delineata dal teorico della “profondità strategica” come i più recenti avvenimenti testimoniano.


[1]  Da molti soprannominato anche “il Kissinger turco”.

[2] Pepe J., “I dilemmi della nuova geopolitica turca”, in P. Gargiulo (a cura di) La Turchia come attore globale e internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, Quaderni, N. 14, 2013 p. 21.

[3] Per un breve approfondimento: Smerilli A., “Il Panturchismo 2.0”, Etnie, 6 novembre 2014

[4] Pepe J., “I dilemmi della nuova geopolitica turca”, op cit., p. 21.

[5] Makovsky A. (1999), “The new Activism in Turkish Foreign Policy”, SAIS Review, 1999.

[6] A. Davutoğlu, Stratejik Derinlik. Türkiye’ nin Uluslararasi Konumu, 2001, p. 115; tradotto e riportato in M. Ansaldo, “Profondità Strategica. Il Mondo secondo Ankara”, in Limes, rivista italiana di geopolitica, Gr. Ed. L’Espresso, 2010, n.4, pp. 29-39.

[7] Ivi, p. 117.

[8] Ivi, p. 144.

[9] Ciola M., “Gli ultimi venticinque anni di relazioni tra Turchia e Israele: ascesa, crollo e prospettive future”, Eunomia. Rivista sememstrale di Storia e Politica Internazionali, Eunomia V n.s. 2016, n.2, pp. 521-542.

[10] Guidi M., Atatürk addio. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia, il Mulino, 2018 p. 91.

[11] Intervista di A. Davutoğlu al giornale turco Sabah. Giriş Tarihi, “Yeni Osmanlılar sözü iyi niyetli değil”, Sabah, 4/12/2009.

Scritto da
Alberto Mariotti

Laureato in scienze politiche all’Università di Pisa con una tesi sulla politica estera turca negli anni Novanta. Attualmente è iscritto alla Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell'Università di Bologna, Campus di Forlì. Appassionato di Politica Internazionale.

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