Scritto da Lorenzo Castellani
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In Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere il politologo Lorenzo Castellani propone un viaggio nella storia dei mille volti e delle mille sfumature che assume il potere e racconta le figure che lo incarnano: consiglieri, burocrati, banchieri, diplomatici, scienziati, santoni e spin doctor. Quelle “eminenze grigie” a cui spesso si devono decisioni, consigli e calcoli strategici che sono stati più importanti per la storia di quelli dei grandi protagonisti ben più conosciuti. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Liberilibri, il capitolo del volume dedicato al profilo di Alberto Beneduce.
Roma, quartiere Pinciano, autunno 1934. In un grande appartamento all’ultimo piano di un nuovo palazzo in stile razionalista affacciato su villa Borghese, la signora Conti, moglie del magnate Ettore Conti, è al telefono con il senatore Giovanni Silvestri, un amico del marito: «Chi comanda in Italia oggi è Beneduce» sentenzia rassegnata la signora alla cornetta, «è il padrone di tutto», «già, e quando hai bisogno di qualcosa, devi chiedere a Beneduce» risponde il senatore. L’Ovra è in ascolto, l’intercettazione è trascritta.
Ma chi è Alberto Beneduce, quest’uomo ritenuto tanto potente dai vertici dell’establishment dell’Italia fascista? Per scoprire la sua importanza occorre riavvolgere il filo della storia e tornare al 1933. È il 14 gennaio e Alberto Beneduce – cinquantasei anni, carnagione scura, baffi ben curati, occhi vivaci, pingue e di bassa statura – si trova a Ginevra, in Svizzera, dove svolge il suo lavoro di vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali. È seduto alla scrivania in mogano nella camera di un lussuoso albergo illuminata da una abatjour in ottone e vetro di Murano, apre una lettera del Ministro delle finanze fascista Guido Jung che ha appena ricevuto dal concierge: la situazione economica e finanziaria del Paese è grave, le tre principali banche italiane sono sull’orlo del fallimento e rischiano di trascinarsi dietro la Banca d’Italia, prestatore di ultima istanza. Anche Benito Mussolini è molto preoccupato, il regime non può permettersi un fallimento bancario su larga scala, ne va del buon nome dell’Italia nel mondo e della reputazione del fascismo stesso. La crisi del 1929, la bolla finanziaria esplosa a Wall Street il giovedì 24 ottobre di quell’anno, era arrivata anche in Italia. Non che non ce ne fossero state le avvisaglie, Beneduce da tempo aspettava il redde rationem tra finanza e realtà. Le banche italiane erano troppo compromesse con la grande industria: incroci azionari, quote di controllo, conflitti d’interesse, una “gemellanza siamese”, avrebbe detto qualche anno dopo Raffaele Mattioli, che non poteva continuare. Quando l’economia aveva preso a rallentare seriamente nel 1931, i corsi azionari delle grandi industrie erano crollati e con essi, poiché erano pieni di partecipazioni in queste aziende, i bilanci delle principali banche come Credit, Comit e Banco di Roma. La Banca d’Italia cercava di tamponare con i prestiti ai maggiori istituti di credito, ma le casse erano oramai quasi vuote anche per la Banca centrale. Il sistema non andava salvato, ma riformato. La situazione era difficilissima poiché quelle sull’orlo del fallimento non erano soltanto banche d’affari ma miste, cioè che raccoglievano denaro dai correntisti e non solo dagli investitori. Ciò significava, in altre parole, che milioni di piccoli e medi risparmiatori rischiavano di perdere tutto o quasi nel caso del fallimento degli istituti di credito.
Il governo fascista chiede dunque il consiglio di Alberto Beneduce, di professione banchiere e braccio destro del Duce per gli affari economici, su come risolvere la crisi finanziaria. In quel gennaio 1933, Beneduce propone di costituire un nuovo ente pubblico – si chiamerà Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) – che assumerà le partecipazioni che le banche hanno nelle grandi industrie italiane mentre i debiti saranno coperti dallo Stato italiano. In futuro, gli utili e le cessioni dell’IRI ripagheranno prestiti e perdite da fronteggiare oggi. Il banchiere propone, in sostanza, di far scendere lo Stato italiano nel campo dell’economia: se le banche private sono in crisi, lo Stato fascista si farà banchiere. Quando viene varato il nuovo ente, l’IRI, dispone di quasi il 50 percento delle azioni che vengono scambiate nella borsa italiana. È un colosso che controlla industrie nelle telecomunicazioni, nella nautica, nella finanza, nel settore elettrico, in quello dell’acciaio e delle grandi infrastrutture. Beneduce ne assume la presidenza, diventando l’uomo più potente dell’economia italiana e il consigliere più fidato di Mussolini. Anni dopo Enrico Cuccia, che di Beneduce sposerà una figlia, dirà: «Mio suocero era l’unico che poteva sedere da solo per due ore con Mussolini nella sala del mappamondo senza prendere ordini dal Duce». Negli anni Trenta Beneduce siede in decine di Consigli di amministrazione tra cui quelli dell’IMI, della Bastogi, del Crediop, dell’ICIPU, dell’ICN, dell’INA e dell’Università Bocconi. Di molti di questi enti economici è anche presidente. Ma come Alberto Beneduce era diventato il “dittatore economico” d’Italia?
Era nato nel 1877 a Caserta da una famiglia della piccola borghesia e aveva dimostrato precocemente le sue abilità matematiche aiutando uno zio al mercato. Difatti – come vuole ogni leggenda che si rispetti sui primi passi di un giovane prodigio – le testimonianze narrano che al mercato di Caserta già da ragazzino fosse formidabile nel calcolare prezzi e resti. In matematica Beneduce si era poi laureato a Napoli nel 1902. In seguito si era trasferito a Roma, dove aveva vinto un concorso come funzionario pubblico presso il Ministero dell’agricoltura, del commercio e dell’industria. Qui si era occupato di statistica e di emigrazione, con studi e pubblicazioni che erano stati apprezzati dal gotha accademico dell’economia. In questi anni si era affiliato alla massoneria del Grande Oriente, associazione di cui era diventato in poco tempo esponente di primo piano. I documenti massonici lo posizionano al trentatreesimo grado del rito e con incarichi di massimo rilievo nell’istituzione già nel 1912.
La massoneria è importante per il giovane tecnocrate perché lo introduce nella buona società laica romana e gli apre le porte di solide amicizie. In questi anni conosce il leader del partito radicale Francesco Saverio Nitti, che sarà il suo mentore politico e professionale. Quando Nitti diventa Ministro dell’agricoltura nel 1911 nomina Beneduce suo segretario personale. Ma è nel 1912, quando Nitti convince Giovanni Giolitti, all’epoca Presidente del consiglio, a nazionalizzare il settore delle assicurazioni sulla vita, che la carriera di Beneduce fa un balzo in avanti. Nasce l’INA, il cui statuto viene scritto da Nitti e Beneduce, e il giovane discepolo ne diviene consigliere di amministrazione e poi consigliere delegato. Beneduce è oramai un membro dell’establishment, entrato dalla porta principale del capitalismo pubblico attraverso questo innovativo ente gestito da manager e non da funzionari pubblici. L’INA è una istituzione avanzata e che servirà da modello per i futuri enti di Beneduce: pubblica ma autonoma sul piano della governance, con facoltà di scegliere i propri dipendenti dal più basso al più alto livello e di offrire contratti a termine a tecnici ed esperti. In questo contesto maturano le idee economiche di Beneduce, grazie anche all’ispirazione fornita da Nitti: l’Italia è un Paese povero di capitali e l’unico modo per far arrivare investimenti alle industrie italiane in via di sviluppo è creare degli enti pubblici economici autonomi che possano reperire capitali sul mercato nazionale e internazionale con la garanzia dello Stato e prestarli alle aziende o investirli nelle loro attività. L’arrivo della Grande guerra non ferma l’ascesa del giovane tecnocrate, che si divide tra genio militare, insegnamento universitario e incarichi manageriali. Nel 1917 dell’INA diventa consigliere delegato, cioè manager di riferimento dell’istituto. Nel 1918 Beneduce crea, con il supporto di Nitti e del direttore generale della Banca d’Italia Bonaldo Stringher, e presiede la banca pubblica Crediop, che si occupa di finanziare le opere pubbliche attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. Ma lo statistico casertano è attivo anche sul fronte del welfare e nello stesso anno fonda l’Opera nazionale combattenti, ente che eroga sussidi e mutui per i reduci di guerra. Nel frattempo, nel 1919, Beneduce viene eletto in Parlamento con la lista socialista e riformista. Nel 1921 sarà Ministro del lavoro ma si dimetterà all’inizio del 1922 a causa del venire meno delle condizioni politiche per realizzare il proprio programma di riforma. È in questi anni che conosce Benito Mussolini. Il futuro Duce lo stima, pur se Beneduce si trova sul fronte opposto al fascismo fino al 1923. Nel 1924, fuori dal Parlamento e dalla politica, Beneduce crea l’ICIPU, un ente pubblico volto a finanziarie a lungo termine le strategiche industrie elettriche attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato e con fiscalità agevolata.
Beneduce non si iscrive al partito fascista e allo stesso tempo non partecipa all’Aventino. Ma continua ad occuparsi di economia aiutato dal governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher che del manager campano ha grandissima stima. Nel 1926 Beneduce è nominato presidente della Bastogi, la più grande compagnia privata del settore elettrico italiano, come figura di garanzia per gli azionisti, ed è in questo periodo che oltre a collaborare con la Banca d’Italia inizia a fornire i suoi consigli al dittatore Benito Mussolini. Beneduce studia statuti societari, politiche economiche, andamenti demografici, intesse una fitta rete di relazioni con industriali come Pirelli, Conti, Agnelli, Perrone e con banchieri come Toeplitz, Mattioli e Alberti, e indirizza il capo del governo e quello della Banca d’Italia. In altri termini, è l’uomo che collega il grande capitale economico privato alla dittatura fascista. È da Beneduce che si deve passare per muoversi tra pubblico e privato ai massimi livelli, è al centro dell’incrocio tra finanza e politica.
Ma Beneduce si caratterizza anche per lo stile. Negli enti economici da lui creati e gestiti trionfa la sobrietà, gli uffici dell’IRI, del Crediop, dell’ICIPU, tutti dalle parti di via Veneto a Roma, sono essenziali. Niente fasti, niente lussi, niente quadri, soltanto mobili d’ufficio e personale ridotto al minimo per ottenere la massima efficienza. Beneduce gestisce il pubblico come fosse la propria azienda privata. Non si piega, inoltre, a logiche clientelari o partitiche, egli vuole i manager e gli specialisti migliori in ogni settore industriale e finanziario dove le sue creature istituzionali operano. La corrispondenza di Beneduce è piena di no sbattuti in faccia ai gerarchi, non importava che si chiamassero Achille Starace o Galeazzo Ciano: i clientes del partito e i raccomandati non potevano passare per gli enti economici da lui diretti, avrebbero dovuto esser sistemati altrove. Tutto questo veniva fatto con naturalezza e risolutezza da un uomo che non aveva la tessera del partito, non era fascista, era stato massone e socialista. Ma Beneduce aveva la moneta più importante nell’economia del regime, la piena fiducia di Benito Mussolini. Questo permise anche al banchiere di Stato di ideare i suoi istituti senza passare dalla politica, tutto veniva deciso nelle stanze ovattate del governo e della Banca d’Italia, concertato con Mussolini, i ministri economici e la Banca centrale. Come solo le eminenze grigie sanno fare, Beneduce riuscì a schivare la segreteria del partito, il Gran consiglio del fascismo, le corporazioni e ciò che restava del Parlamento. Tutto si risolveva per decreto, così il cuore e la struttura dell’economia italiana cambiavano senza che quasi nessuno se ne accorgesse.
Nel frattempo, il tecnocrate aveva sviluppato una solida rete di contatti internazionali, negli anni Venti come esperto economico aveva partecipato alle conferenze di Bruxelles e di Parigi, aveva stretto una forte amicizia con la finanza americana nel corso delle negoziazioni dei prestiti all’Italia nel 1925. I rappresentanti di Casa Morgan in Italia, la più prestigiosa banca al mondo, facevano riferimento a Beneduce per tutte le grandi operazioni pubbliche e private. L’attività internazionale proseguirà anche sotto il fascismo e culminerà nel 1929 con la nomina a vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali, la banca delle banche che riunisce i più importanti Paesi occidentali.
Nel 1930, il suo amico e protettore Bonaldo Stringher si ritira e poco dopo muore lasciando un vuoto di potere. Direttore generale della Banca d’Italia viene nominato Vincenzo Azzolini, già vice di Stringher. Il nuovo governatore è fedele, forse troppo, al partito fascista ed è privo della risolutezza e autorevolezza del predecessore. Beneduce si trova così a diventare una sorta di tutore del nuovo governatore della Banca d’Italia: lo accompagna all’estero, lo consiglia, lo influenza. La debolezza di Azzolini – ligio funzionario più che governatore carismatico – fa sì che sia Beneduce a diventare il punto nodale e di riferimento dell’intera finanza e industria italiana e degli incroci tra queste e il sistema finanziario internazionale.
Nel frattempo, però, nel 1929 era arrivata la crisi di Wall Street, e le cose iniziavano a complicarsi per le banche italiane, fragili perché come si è visto esse erano troppo implicate nella proprietà e nella governance delle maggiori industrie. La crisi dell’economia reale rischiava di affossare il sistema bancario. Sarà Beneduce, di fatto plenipotenziario economico e finanziario di Mussolini e Jung, a risolvere la crisi finanziaria con la creazione dell’IMI nel 1931, progettato insieme al senatore Teodoro Mayer – per il finanziamento di industrie con prestiti di medio-lungo periodo, e dell’IRI – il colosso finanziario-industriale di cui diventerà egli stesso presidente nel 1933.
Nel 1936, quando è all’apice del potere, Beneduce scrive insieme ai suoi fidati collaboratori, tra cui il futuro governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, la nuova legge bancaria – fondata sulla separazione tra banche di raccolta e banche d’investimento – che resterà in vigore fino agli anni Novanta del Ventesimo secolo. L’obiettivo di Beneduce era chiaro: le banche miste, che univano risparmio e investimenti industriali, dovevano sparire dal sistema italiano; esse andavano nazionalizzate e portate sotto il controllo della tecnocrazia di Stato; il sistema di credito andava specializzato, con enti pubblici dediti ai prestiti di lungo termine per le industrie; questo nuovo ordine doveva essere gestito da manager e tecnici competenti, non politicizzati, dediti al servizio della nazione. Ciò non significava che Beneduce fosse ostile al privato o al mercato, anzi egli cercò di far ritornare ai privati tutta una serie di attività industriali ma la debolezza del capitalismo italiano e l’avvento della guerra cristallizzarono il sistema da lui creato che era pensato per una situazione emergenziale temporanea. Il progetto di Beneduce è certamente economico e finanziario, ma anche capace di guardare alla formazione della classe dirigente del futuro. Ecco cosa disse ai nuovi dirigenti dell’IRI del 1938: «Non importa se le attività che svolgerete vi porteranno verso aziende non controllate dall’IRI. L’obiettivo dell’IRI è quello di formare una classe dirigente di eccellenza che faccia affidamento in gran parte su conoscenze tecniche e scientifiche».
Nel 1939 il presidente dell’IRI viene colpito da un ictus ed è costretto a ritirarsi dalle scene. Morirà nel 1944 nella sua villa sull’Appia Antica. La sua eredità è tra le più importanti del fascismo, soprattutto se si guarda la continuità con la Repubblica. Beneduce lascia una decina di enti economici e finanziari da lui ideati e realizzati che gli sopravviveranno a lungo: Crediop, ICIPU, IMI e IRI arriveranno sino quasi alla soglia del Ventunesimo secolo quando saranno privatizzati a seguito della fine della Guerra fredda e della crisi dei partiti. Ma non solo: una classe dirigente di giovani manager e tecnici da lui reclutati che avrà un ruolo centrale nel miracolo economico del Dopoguerra, si pensi a figure come Donato Menichella, Enrico Cuccia, Guido Carli, Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia che provenivano tutti dal “sistema Beneduce”; una legge bancaria che durerà mezzo secolo e che darà un ordine stabile al sistema finanziario italiano.
Nel realizzare tutto questo, Beneduce non si era particolarmente arricchito; non aveva patrimonializzato lo Stato, sfruttando le istituzioni pubbliche per ricavarne vantaggi per sé, per la propria famiglia, per la propria rete di sodali; non aveva giocato in modo clientelare col sistema delle nomine pubbliche creando una sua corte di fedelissimi; non si era insomma profittato della sua posizione. Egli non si era nemmeno iscritto al partito fascista, non si era concesso alla stampa e nemmeno alla politica. Certo aveva siglato un compromesso con un dittatore, la sua intelligenza era stata al servizio di un sistema autoritario, aveva rotto i rapporti con i suoi amici antifascisti, ma forse proprio per le sue capacità egli aveva evitato al Paese catastrofi peggiori che sarebbero avvenute se si fosse ritirato. Aveva scelto la carriera e il realismo, ma aveva anche fatto da garante tra il vecchio establishment del capitalismo e il fascismo, contribuendo ad evitare l’attuazione delle politiche più estremiste e collettiviste, e lasciato un’eredità che sarebbe servita molto all’Italia dopo la fine della dittatura.
Egli fu una vera eminenza grigia, pur limitata al campo economico, dimostrando che anche in un regime autoritario l’intelligenza, la discrezione, la competenza se ben impiegate possono di più della cieca e sorda fedeltà al dittatore.