Aldo Moro e la crisi della democrazia italiana. Dialogo di Marco Damilano e Silvio Pons
- 02 Ottobre 2019

Aldo Moro e la crisi della democrazia italiana. Dialogo di Marco Damilano e Silvio Pons

Scritto da Giacomo Bottos

19 minuti di lettura

Reading Time: 19 minutes

Questo contributo è basato sulla conversazione fra l’allora Direttore de «L’Espresso» Marco Damilano e il Presidente dell’Istituto Gramsci Professor Silvio Pons avvenuta venerdì 14 dicembre 2018 a Bologna durante l’edizione zero del Pandora Rivista Festival. A partire da una riflessione sulla figura di Aldo Moro, il dialogo indaga alcune questioni centrali della storia italiana contemporanea, relative alle logiche della guerra fredda, alla crisi della ‘repubblica dei partiti’ e alla difficoltà, che permane tutt’oggi, di ricostruire un sistema politico in grado di mettere a fuoco le priorità del Paese e di agire coerentemente in questa direzione.


Inizierei questa conversazione sulla figura di Aldo Moro e sulla crisi della repubblica dei partiti in Italia partendo dal titolo del libro che Marco Damilano ha dedicato al tema: Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia. Si tratta di un titolo e di un sottotitolo suggestivi, forti. Perché, in qualche modo, la fine di Aldo Moro costituisce una cesura della storia italiana? Quali sono il ‘prima’ e il ‘dopo’ rispetto ai quali rappresenta uno spartiacque?

Marco Damilano: Grazie per questa occasione di parlare ancora una volta di Aldo Moro in quest’anno [nel 2018, NdR] in cui ricorre il quarantesimo anniversario del suo rapimento e del suo omicidio. Più che il titolo, a costarmi fatica e una certa dose di forzatura anche storica, a cui invece sono abituato nell’attività giornalistica, è stato il sottotitolo. Il titolo, infatti, riprende una frase di Moro, tratta da una lettera a Riccardo Misasi, deputato calabrese e poi ministro, individuato da Moro stesso come ‘portavoce’ durante i 55 giorni della prigionia. La frase fa riferimento a una questione specifica, quella della verità in politica: la verità che si racconta durante le elezioni e le campagne elettorali e la verità dei fatti. Per cui Moro scriveva a Misasi «datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò comunque perdente». Mi sembrava, oltre che un titolo molto evocativo, anche una fotografia della politica non solo del 1978, ma anche del 2018. Il libro, per una combinazione di calendari e di date, è uscito alla vigilia del quarantesimo anniversario del rapimento, il 16 marzo, all’indomani del voto del 4 marzo. È stata una combinazione casuale ma, come spesso accade, questo aiuta a fare un ragionamento per suggestioni, collegamenti, incroci di date. Invece il sottotitolo, il riferimento alla ‘fine della politica’, effettivamente contiene una buona dose di forzatura, perché la politica non finisce mai: così come non è finita la storia nel 1989, certamente non è finita la politica in Italia nel 1978. È però entrato in crisi allora quel sistema politico, nato nell’immediato dopoguerra, che aveva iniziato a formarsi negli anni tra il ‘43 e il ‘45, prima ancora della Costituente, e che aveva preso la forma di quella che Pietro Scoppola – il mio maestro nella formazione storica – ha definito, con una definizione poi comunemente accettata dalla comunità storiografica, ‘la repubblica dei partiti’. La repubblica dei partiti non è stata solo un sistema politico, ma anche un sistema di valori, una chiave d’accesso – una password diremmo oggi – alla cittadinanza. È stata una via alla cittadinanza democratica a cui milioni di italiani – tra unificazione tardiva e non riconosciuta, due conflitti mondiali, vent’anni di fascismo, la possibilità di accedere al suffragio universale anche femminile solo nel 1946 e un distacco vistoso dalle classi dirigenti – non avevano avuto accesso fino alla comparsa sulla scena politica dei partiti stessi. Questi partiti negli anni Settanta cominciano ad entrare in crisi nella loro funzione storica. Di questa crisi sono avvertiti e consapevoli alcuni degli esponenti di quei partiti, tra cui Aldo Moro. Dopo il consumarsi di questa crisi inizia un’altra storia, sul piano interno ma anche su quello internazionale. Il 1978 è un anno spartiacque, nel quale comincia a vacillare quel sistema di Yalta che fino agli anni Settanta aveva dimostrato di reggere l’urto anche di grandi sconvolgimenti, come l’ingresso sulla scena mondiale dei paesi non allineati e della Cina. Nonostante questi eventi di grande impatto il sistema reggeva, mentre proprio alla fine del 1978 si hanno due avvenimenti che, anche simbolicamente, iniziano a far vacillare il sistema. Uno è di carattere tutto religioso, ma con grandi conseguenze politiche, cioè l’elezione del ‘Papa polacco’. Il secondo, al contrario, è politico ma con venature religiose, cioè la rivoluzione islamica, che si consuma in quelle settimane in Iran fino a portare alla fuga dello Scià. L’immagine della fine della politica è, quindi, naturalmente esagerata, però ci pone e ci ripropone un tema che invece è storicamente appassionante. Una volta che quella repubblica dei partiti ha cominciato il suo percorso di tramonto, che poi si è consumato all’inizio degli anni Novanta in un quadro in cui anche il sistema delle alleanze mondiali cambiava, che cosa l’ha sostituita? Che cosa è rimasto? Che cosa ha preso il posto di quella politica? E che cosa è successo alle istituzioni che in fondo su quella politica, su quella repubblica dei partiti erano modellate? E che cosa ha comportato questo sul ruolo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo e sullo scenario globale? Ecco, queste sono le domande di prospettiva che ci portano oltre il 1978, oltre la figura complessa di Aldo Moro e ci riportano all’oggi e alle sue molte questioni ancora irrisolte.

 

Queste ultime considerazioni di Damilano ci pongono quesiti molto importanti. Come è avvenuto che in un dato momento la funzione che la politica aveva assolto nella società italiana del Dopoguerra venisse meno e i partiti, che erano stati al centro di questa politica, entrassero in crisi? Per proseguire la riflessione su questo ripartirei dalla domanda iniziale, ponendola anche al Professor Pons: in che misura la morte di Moro è un evento periodizzante e di cesura? Quanto è determinante nel segnare un momento di cambiamento nella storia italiana?

Silvio Pons: È un’ottima domanda e credo che l’intervento di Damilano offra già alcune risposte, persino nel sottotitolo del libro, che io trovo in realtà molto sensato nella sua connotazione un po’ provocatoria. Non si tratta ovviamente della fine della politica tout court, ma della fine di un modo di pensare e di praticare la politica che è stato legato alla repubblica dei partiti e a una certa costruzione della democrazia italiana. Faceva parte di questa costruzione una potente spinta di democratizzazione, ma anche un vincolo esterno particolarmente accentuato, dato dalla guerra fredda. Ragionare in questi termini ci permette perciò di rispondere in modo complesso al problema della periodizzazione, che non è mai una questione banale. Si dà spesso – persino gli storici professionisti lo fanno – un po’ per scontato che il ‘78 sia una data periodizzante della storia d’Italia: molti libri adottano la cesura del ‘78, non sempre esplicitando la motivazione di questa scelta. Si tende a dare per scontato che l’evento periodizzante sia l’assassinio di Aldo Moro. C’è naturalmente una fortissima carica emotiva legata a quell’avvenimento, che chi ha vissuto quel periodo ricorda benissimo e non può non restare impressa nella memoria. C’è poi un legame simbolico con altri eventi paragonabili a questo, non soltanto nell’ambito della storia della Repubblica ma dell’intera storia italiana: l’assassinio di Matteotti, il fallito attentato a Togliatti nel ‘48. Ma il valore simbolico ed emotivo dell’evento non basta certo a renderlo periodizzante, c’è ovviamente molto di più. Innanzitutto, Moro rappresentava uno degli apici di quello specifico modo di concepire la politica che oggi stiamo rievocando, un approccio variamente declinabile ma che di certo include una forte sottolineatura del rapporto tra l’etica e la politica, con tutte le difficoltà che la natura del governo democristiano e la natura della democrazia italiana ponevano. Damilano parlava di Moro come di una delle personalità – forse la principale personalità – che ha cercato di dare una risposta alla crisi della repubblica dei partiti. Riguardo al tipo di risposta e alle ragioni per le quali questa risposta non abbia avuto gli effetti che avrebbe potuto avere, al di là della tragica fine di Moro, bisogna riflettere sulle alternative messe in campo all’epoca, sulle alleanze politiche e sociali che erano state costruite attorno a questa risposta alla crisi. Ma dobbiamo chiederci innanzitutto: a che cosa occorreva dare risposta? La crisi che emerge negli anni Settanta è innanzitutto quella della cosiddetta ‘democrazia bloccata’ – tema per altro caro anche a Scoppola e certo non soltanto a lui –: l’Italia è l’unico Paese occidentale negli anni Settanta ad avere un problema di alternanza democratica. Dopo che i socialdemocratici sono andati al governo in Germania Occidentale, vincendo le elezioni nel 1969 e determinando conseguenze importantissime nella politica continentale del decennio successivo, come il lancio dell’Ostpolitik, l’Italia è l’ultima grande democrazia europea che non sperimenta un’alternativa di governo. È, cioè, il Paese in cui la guerra fredda impedisce quella che oggi definiremmo, con una terminologia a cui gli storici sono un po’ refrattari, la fisiologia delle democrazie. In poche parole, c’è un problema di ricambio della classe dirigente. Il fatto che la Democrazia Cristiana, attraverso i suoi sistemi di alleanze, avesse governato il Paese anche dopo il centrismo degasperiano, in condizioni di virtuale e sostanziale monopolio del potere, costituiva un fattore di crescente delegittimazione dell’intera classe politica e del ceto dirigente del Paese. Al tempo stesso, per gli effetti che il Sessantotto aveva avuto sull’Italia e per la capacità della classe politica del Partito comunista di dare risposta a certe domande della società italiana, l’unica alternativa possibile era rappresentata dal PCI, ma questa opzione contraddiceva il vincolo esterno esercitato dalla guerra fredda. Allora la crisi che si crea in Italia non può prescindere da questa dialettica – se vogliamo da questo di circolo vizioso – tra la politica nazionale e quella internazionale. La figura di Moro si colloca al centro di questo nodo. Moro è perfettamente consapevole dell’esistenza del vincolo esterno e delle implicazioni che il rapporto transatlantico ha per l’Italia e per la Democrazia Cristiana come forza di governo. Il rapporto con gli Stati Uniti è una fonte di legittimazione nel sistema della guerra fredda. Non stiamo parlando soltanto di risorse materiali, di rapporti politico-diplomatici, ma anche di qualcosa di più profondo, di più simbolico, che ha contribuito in modo decisivo al consenso di massa della DC nei decenni precedenti. Quindi il grande problema di Aldo Moro – e anche il problema di Enrico Berlinguer – è come dare una risposta alla fonte principale della crisi della repubblica dei partiti – cioè la democrazia bloccata – senza infrangere i canoni fondamentali del vincolo esterno. Era un problema irrisolvibile? Non lo so. Certamente Aldo Moro puntava molto sull’idea della distensione internazionale, sulla nuova stagione di dialogo tra le superpotenze, ipotizzando che potesse creare i presupposti non solo per un ‘clima’ nuovo, ma anche per una ridefinizione reale nei rapporti internazionali dell’epoca. La distensione era letta in una chiave non statica ma dinamica, non soltanto come allentamento delle tensioni ai fini di conservare lo status quo – questa era in realtà l’interpretazione della distensione sia a Washington sia a Mosca – ma anche come una chiave per superare la bipolarizzazione, la divisione dell’Europa. In questo contesto la crisi italiana, che nasce come crisi economica, diventa, come sempre avviene nella storia d’Italia, immediatamente crisi etica e politica, crisi di legittimazione delle classi dirigenti, ma anche crisi dei rapporti sociali, sfociando infine nella violenza politica. La crisi italiana ha però dei tempi più stretti rispetto a quelli dettati dalle aperture al superamento della divisione bipolare dell’Europa, che erano nelle intenzioni anche di altre forze politiche europee. In questo contesto, la visione politica di Moro era fondamentalmente quella di delineare un allargamento delle basi dello Stato in analogia e in continuità con quanto era stato fatto negli anni Sessanta con l’operazione del centrosinistra, ma questa volta andando oltre il vincolo della guerra fredda. Questa visione politica sconta delle contraddizioni profonde e si scontra con degli steccati difficili da superare in chiave nazionale e internazionale. Mi sembra questo il nodo su cui ragionare e la ragione per la quale il ‘78 può costituire retrospettivamente, dal nostro punto di vista, una data periodizzante della storia d’Italia. Qualcosa finisce con la figura di Moro, ossia questo tentativo di dare una risposta alla democrazia bloccata. A questo tentativo si sostituisce invece una rivendicazione della democrazia bloccata da parte della classe politica dirigente italiana.

 

Sono suggestioni importanti, che richiamano in parte le riflessioni emerse in un’intervista sugli anni della distensione che il Professor Pons ci aveva rilasciato in passato per il nostro sito, dove queste tematiche venivano affrontate dal lato di Berlinguer. Una delle questioni centrali sembra riguardare la valutazione della figura di Moro. Nel libro di Damilano emerge come le vicende che accompagnano la tragica fine di Moro, spesso anche intrecciate ai destini personali, tendano a imporsi nella memoria collettiva, obliterando la complessità della figura umana e politica del personaggio. Facciamo un passo indietro. Date le condizioni e i vincoli internazionali che abbiamo descritto e i cambiamenti che, anche a livello nazionale, nella società, si stavano determinando, perché proprio Moro? Perché fu proprio lui a proporsi di interpretare questo ruolo così cruciale nella politica italiana? Quali sono gli elementi della sua concezione della politica che lo portano a questo tentativo, il cui fallimento determina, come abbiamo visto, un cambio di fase?

Marco Damilano: Moro è stato imprigionato non solo fisicamente, nei 55 giorni del suo rapimento, ma poi anche sul piano storiografico, giornalistico e nel dibattito politico. È stato imprigionato in questa figura astorica del ‘martire della democrazia’, che alla fine non gli rende onore. Credo invece che discuterlo, anche criticamente, significhi restituirgli la dignità di uomo e di politico. Credo che questo sia necessario, anche per cercare di togliere finalmente eco e risonanza alle ricostruzioni delle Brigate Rosse, che sono sempre più cronachistiche e ci aiutano sempre meno a comprendere cosa stava succedendo in quelle settimane, in quei mesi, in quegli anni. Trovo molto interessanti le cose dette da Silvio Pons sulla distensione della prima metà degli anni Settanta, che alcuni interpretano allora come la premessa di un dinamismo e che storicamente invece va interpretata come il tentativo delle due superpotenze, dei due capifila dei blocchi, di mantenere l’equilibrio. Questo è un punto importante. Per alcuni quello che avviene allora è la premessa di uno slancio di cammino europeo: Helsinki e tutta una serie di azioni, in Medio Oriente il dialogo tra Sadat e Begin; alcuni prendono questa situazione come l’opportunità per cercare di costruire nuovi equilibri. Storicamente invece è vero che negli anni Settanta si cerca di ‘blindare’ l’equilibrio di Yalta, che evidentemente sta già vacillando. Altrimenti non si spiegherebbe quello che succede negli anni Ottanta, in tempi piuttosto rapidi se ragioniamo in termini storici. L’Italia da questo punto di vista è un laboratorio: questo quadro internazionale ricade sul nostro Paese in modo diretto, lineare. Pensiamo agli articoli di Berlinguer su «Rinascita» all’indomani del golpe cileno nel 1973 sulla sinistra che non può governare da sola col 51%. Pensiamo anche all’intervista a Giampaolo Pansa del 1976, alla vigilia del voto del 21 giugno, in cui Berlinguer dichiara di sentirsi più protetto restando dentro il Patto Atlantico. Quell’intervista scatena un dibattito, anche dentro il Partito Comunista, piuttosto intenso, proprio alla vigilia del voto in cui il PCI raccoglierà il massimo storico col 34,4%. Sul versante democristiano è sicuramente Aldo Moro l’interprete più attento e tra i democristiani effettivamente è la figura che ha più conoscenza del quadro internazionale, come risulta anche in quello che emerge dal cosiddetto ‘memoriale’, il documento con cui risponde all’interrogatorio delle Brigate Rosse. Esiste un gruppo di lavoro che sta producendo una nuova edizione critica del memoriale, che mostrerà, anche sul piano filologico, come il memoriale sia in realtà uno ‘scritto di Moro’, in cui sviluppa l’elenco di domande poste dalle BR secondo un suo ragionamento proprio, non dettato dalle richieste dei suoi rapitori. Ci sono ad esempio delle considerazioni sull’Europa – oltretutto di grande attualità – come continente schiacciato tra le due superpotenze, che non riesce ad avere un proprio protagonismo politico. Quindi parliamo di un uomo che possedeva e padroneggiava i dati del problema internazionale, al pari dei grandi della Repubblica come De Gasperi e Togliatti nel ‘45. Questi personaggi sono stati spesso criticati, sottoposti ad attacchi di varia natura all’interno, da forze politiche o da personaggi della politica, della cultura, dell’intellettualità che non conoscevano i dati del problema, che non avevano la percezione di quale quadro internazionale si stesse preparando e nel quale i leader politici italiani dovevano muoversi. Proprio perché Aldo Moro faceva parte di quel ristretto gruppo di persone che avevano presenti tutti i dati della questione, sapeva che ogni movimento, anche impercettibile, andava valutato dentro questo quadro. Basta pensare al famoso colloquio con Henry Kissinger del settembre 1974. Nei retroscena dei resoconti del caso Moro ci si riferisce a questo colloquio come a quello delle cosiddette ‘minacce’ di Kissinger a Moro. L’occasione era quella di una visita di Stato del Presidente Leone e di Moro Ministro degli Esteri. La visita per Moro finisce anticipatamente perché accusa un malore. Tornato in Italia racconta ai suoi collaboratori di un colloquio tempestoso e dichiara di volersi addirittura ritirare dalla politica; si tratta di un momento che è diventato centrale nelle ricostruzioni del caso Moro. La verità è che sul piano politico c’era uno scontro e da parte di Moro vi era la conoscenza diretta di come gli Stati Uniti vedevano e vivevano quella fase della metà degli anni Settanta. In Italia, invece, si cerca di forzare questo vincolo internazionale, anche per ragioni interne. La seconda ragione per cui Aldo Moro è una figura centrale è la sua capacità di essere un lettore della società italiana, il che gli permette di maturare un’idea, lucida e anche drammatica, di come questa stia cambiando. Parliamo di una società che fino a questo momento si era sentita pienamente rappresentata dalla repubblica dei partiti, che si era fatta guidare da un partito come la DC. Era una forza che, più che guidare, rappresentava plasticamente la società, ma, almeno in alcune fasi, riusciva a portare il suo elettorato in direzioni nelle quali forse da solo non sarebbe andato. Penso al rifiuto di De Gasperi di formare il governo da solo, senza i partiti laici, e alla sua decisione di non aderire al tentativo autoritario-franchista che gli veniva suggerito dal Vaticano e dai Comitati Civici di Luigi Gedda. Penso anche all’apertura a sinistra dei primi anni Sessanta, che era avversata dalla quasi totalità delle gerarchie ecclesiastiche. Si trattava però, comunque, senz’altro di un partito che esercitava un’egemonia ‘dolce’. Ma negli anni Settanta questo ruolo stava svanendo e di questo vi era consapevolezza in quello che credo sia uno degli interventi più lucidi di Moro, pronunciato al Consiglio Nazionale della DC nel 1975. Si era all’indomani di due storiche sconfitte, quella del 1974 al referendum sul divorzio e quella del 1975, quando il PCI va in maggioranza e poi conquista con le coalizioni la guida o la partecipazione alle giunte delle principali città italiane. In questo contesto Aldo Moro, in un Consiglio Nazionale molto travagliato, dove cade un leader storico come Fanfani e viene eletto Zaccagnini, dice «il futuro non è più in parte nelle nostre mani». Questa frase è stata solitamente interpretata come riferita al suo partito, alla DC, che per trent’anni aveva avuto il monopolio del governo e del potere, ma se si legge per intero quel discorso si capisce che il significato è diverso: il futuro non è più nelle mani del sistema dei partiti. Quando ad un certo punto si fa riferimento ad un mondo che spazza via ogni cosa, compresa la diversità del Partito Comunista, è come se ci fosse l’intuizione che si sta levando un vento che non è più gestito e controllato dai partiti e che, in quella metà degli anni Settanta, soffia nella direzione della sinistra. I movimenti giovanili, i movimenti di liberazione della donna, la partecipazione, il voto ai diciottenni sono tutti fenomeni che soffiano in quella direzione. Ma c’è anche la consapevolezza che se non si riesce a interpretare quelle istanze, facilmente prima o poi questo vento andrà anche in direzioni opposte. Basta pensare che un mese dopo l’assassinio di Moro si svolge un referendum sul finanziamento pubblico ai partiti. Tutti i partiti sono contrari, tranne il solo Partito Radicale, che ha 4 deputati. Il referendum raccoglie il 48% dei voti favorevoli. Il sistema politico per poco non perde in blocco, in un momento in cui c’è un governo di solidarietà nazionale, una maggioranza di governo fondata sui due grandi partiti e anche emotivamente l’elettorato è stato scosso. In questo contesto si svolgeva il tentativo di Moro. Oggi anche leggendo i quotidiani del giorno del rapimento e le testimonianze che in seguito, nel corso dei decenni successivi, sono uscite su quanto si muoveva nei due partiti alla vigilia del voto di fiducia al Governo Andreotti, si avverte la sensazione di una svolta di una fragilità estrema, molto combattuta e molto discussa. Non era affatto scontato che alla fine il PCI avrebbe votato la fiducia a quel governo o, nel caso lo avesse fatto, che lo avrebbe sostenuto a lungo. Si trattava di un filo molto esile quindi, anche se poi proprio l’immagine del rapimento finisce per appiattire tutto sul fatto che Moro è stato rapito alla vigilia della svolta storica che con lui si sarebbe compiuta. Credo che sul piano storico questo sia molto difficile da immaginare. Lo stesso Moro a colloquio con Scalfari ne ha dato un’immagine molto più fragile. Questo era il terzo elemento della riflessione e dell’eredità di Moro. Restano però gli altri due elementi: Moro era un leader che aveva un quadro internazionale molto presente, che era molto lucido e che cercava all’interno di quel quadro di forzare il vincolo, perché doveva rispondere ad una società italiana che a sua volta non accettava più il vincolo e la democrazia bloccata. Questo è il dilemma, se vogliamo il dramma e qui – se posso aggiungere – sta anche la grandezza: l’idea che la politica non sia soltanto ‘necessitata’, ma abbia degli spazi di fantasia, di immaginazione, di creatività, anche nelle condizioni di blocco più totale. Credo che questo sia un altro punto che nei decenni successivi è venuto meno. Abbiamo avuto o una politica necessitata e bloccata oppure una politica fin troppo creativa, al punto da non produrre niente.

Luigi Berlinguer e Aldo Moro

 

Molto affascinante questo senso della difficoltà e della fragilità delle cose, che viene restituito da una frase di Moro che Damilano cita: «questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», un’espressione che forse ci dice molto anche del nostro presente. Proseguendo la nostra riflessione, nel momento in cui questo tentativo difficile, e forse condannato all’insuccesso, fallisce, va in crisi anche la repubblica dei partiti, di cui già negli anni Settanta si vedevano tutti i segnali di difficoltà, raccontati anche dall’arte e dalla letteratura. Si trattava però di un sistema che, guardato oggi con il senno di poi, appare comunque ancora capace di una capacità ordinatrice incomparabilmente maggiore rispetto a quella che la politica riesce a mettere in campo oggi. Infatti, con la crisi della repubblica dei partiti, sembra che l’Italia fatichi, anche dopo il venir meno del contesto della guerra fredda che la vincolava, ad esprimere una classe dirigente davvero consapevole delle priorità del Paese e capace di compiere scelte coerenti e ispirate a queste priorità, un tema che è presente anche sullo sfondo dell’ultimo numero della nostra rivista. Professor Pons, dopo la crisi della repubblica dei partiti ci sono effettivamente dei tentativi efficaci di ricostruzione del sistema politico? Quali sono le cause per le quali questi tentativi incontrano importanti difficoltà?

Silvio Pons: Arrivo a dare una risposta riprendendo prima alcune delle cose dette da Damilano. Mi trovo molto in sintonia rispetto all’idea che si debba guardare alle contraddizioni, alle fragilità, talvolta anche alle forzature. In una certa misura si tratta di questo anche per quanto riguarda Berlinguer. Bisogna uscire innanzitutto dalle narrazioni apologetiche che sono state cucite addosso ad entrambi questi personaggi. Si tratta di narrazioni in alcuni casi congiunte, basti pensare alla leggenda secondo la quale Moro e Berlinguer avrebbero avuto un’intesa strategica tale da scatenare nemici potenti sia all’interno che all’esterno della società italiana. Non ci sono dubbi sul fatto che ci fossero nemici potenti che, per motivi completamente diversi, si opponevano alla possibilità che il sistema politico italiano modificasse certi confini. Questo non significa, però, che Moro e Berlinguer avessero intessuto una tale intesa o che avessero creato addirittura una specie di fronte nazionale. In realtà, se noi guardiamo a queste due grandi personalità – la cui grandezza, ribadisco quanto detto da Damilano, emerge anche dalla considerazione dei limiti e dei contesti contraddittori e incompiuti in cui agirono – le loro narrazioni e gli scenari di cambiamento che prospettano sono molto diversi. Se pensiamo alle narrazioni della guerra fredda, Berlinguer era un dirigente comunista per il quale, all’epoca, era fondamentale l’idea che la guerra fredda fosse stata scatenata nel ‘47 dagli Stati Uniti per allontanare il movimento operaio dal governo del Paese ed era convinto che negli anni Settanta fosse venuto il momento di ripristinare il primato originario dell’antifascismo sull’anticomunismo. Questa era una visione inaccettabile non dico per Jimmy Carter e per il suo ambasciatore Richard Gardner, ma per lo stesso Moro. Ciononostante – e io qui vedo la statura di Moro e Berlinguer – queste due figure sono mosse da un’idea che altri non hanno. C’è un elemento di immaginazione, un pensiero comune, che poi si frantuma in mille modi e finisce in tragedia, e consiste nell’idea di mettere fine alla ‘guerra civile fredda’ italiana, proprio nel momento in cui la violenza politica degli anni Settanta fa riemergere qualcosa di irrisolto nella società nazionale, ossia l’eredità del modo in cui la democrazia difficile era stata costruita al momento della nascita della Repubblica. Moro e Berlinguer condividono l’idea che in Italia, proprio perché questo è stato ‘il paese della guerra fredda’, la ‘repubblica della guerra fredda’ – un termine che mi sentirei di usare, non alternativo a repubblica dei partiti –, la classe politica è consapevole della necessità e, fino a un certo momento – tema cruciale – è legittimata politicamente a compiere uno sforzo che non è necessariamente in sintonia con gli spiriti animali della società. Mi riferisco allo sforzo teso a civilizzare lo scontro politico, trasformando il nemico in un avversario e gestendo così la guerra fredda interna. Questa problematica è perfettamente presente sia a Moro sia a Berlinguer che – in modi differenti e con narrazioni diverse – si pongono entrambi questa grande questione. Dico questo per dare una risposta, molto personale e che può essere discussa, alla domanda: dall’altra parte cosa c’è? Chi sono gli avversari politici di Moro? Non certo le Brigate Rosse, la cui idea politica è del tutto inconsistente come reale alternativa nell’Italia dell’epoca: l’idea che la guerra civile italiana non sia mai finita. Non è vero, è una falsità, anzi una pericolosa costruzione immaginaria. Gli avversari di Moro e di Berlinguer sono avversari interni e internazionali. Basta leggere le memorie di Gardner, che era un ambasciatore americano democratico, amico personale di Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la sicurezza nazionale durante il mandato presidenziale di Jimmy Carter, ossia del Presidente americano forse più di ‘sinistra’ dalla seconda guerra mondiale alla fine del Novecento. Ciò nonostante, i vincoli americani alla possibilità di una partecipazione del PCI al governo restano intatti. Nelle sue memorie, Gardner ha verso Moro parole che definirei irrispettose. C’è chiaramente livore nei confronti di qualunque cosa si possa presentare come un cambiamento non concordato con Washington. Adesso noi conosciamo alcune carte dell’archivio Andreotti e sappiamo che Andreotti era precisamente l’uomo al quale Washington guardava come garante. Tutto questo Moro lo sapeva benissimo, lo aveva accettato e quello era il suo modo di negoziare con Washington. Ma qualcosa non funziona in questo meccanismo, forse perché in realtà gli americani si fidavano solo fino a un certo punto persino di Andreotti. C’era stato un conflitto fra Andreotti e Gardner, Andreotti stesso lo ricorda nelle sue memorie, un colloquio alla fine del ‘77 in cui Andreotti dice a Gardner «non ci dovete insegnare voi come trattare i comunisti, abbiamo una certa esperienza». Che cosa intendeva dire Andreotti? Era la ‘strategia del logoramento’. Moro condivideva o non condivideva questa strategia? Secondo me in una certa misura la condivideva e aveva come tutti i grandi politici un piano A, un piano B e un piano C. Si tratta di capire con quale gerarchia, con quale tipo di sfumature e immaginando quali possibili alternative. Quando Moro parla con Gardner all’inizio del febbraio del 1978, Gardner insiste per reiterare una dichiarazione americana dopo quella del 12 gennaio del Dipartimento di Stato, in cui gli USA ribadivano la propria ostilità alla partecipazione comunista al governo. Moro risponde che una simile dichiarazione andrebbe fatta solo nel caso si vada a nuove elezioni, chiede di lasciargli ancora uno spazio. Come giustifica Moro questa affermazione all’ambasciatore americano? Afferma che se non si va a nuove elezioni subito, il PCI alle elezioni successive sarà sconfitto. Questa era la strategia del logoramento, era ovvio che ci fosse. Però gli avversari di qualunque tipo di cambiamento e di superamento della democrazia bloccata alla fine risultano vincenti. Che cosa segue nella storia d’Italia dal ‘78 in avanti? Qual è l’ipotesi fondamentale di assetto del sistema politico italiano? Secondo me è molto semplice, è la guerra fredda. La guerra fredda è stato un sistema di governo dell’Italia: ‘guerra fredda’ è un altro nome della democrazia bloccata, ma più complesso perché riflette il nesso nazionale-internazionale. Se si guarda alla composizione delle forze che si insediano al governo nel ‘79 nel linguaggio politico c’è una novità, portata da Bettino Craxi, che parla un linguaggio anticomunista diverso da quello democristiano. È un linguaggio anticomunista molto più moderno e anche molto più duro di quello democristiano. Craxi trae ispirazione dall’esempio di Mitterrand e immagina di uniformare la politica italiana a quella europea ben più di quanto non facesse la DC. Ma resta un linguaggio di guerra fredda e il sistema politico che si crea in Italia è in continuità con la storia precedente. Da questo punto di vista il ‘78 non è una discontinuità. C’è una discontinuità rispetto a strade non prese, ma quello a cui si assiste è una restaurazione di un sistema politico basato sulla divisione permanente tra governo ed opposizione, con l’impossibilità per l’opposizione di diventare governo e una reinvenzione dei linguaggi politici, quello di Craxi ma anche quello di Berlinguer, che dagli anni Ottanta in avanti impiega un linguaggio da tarda guerra fredda: «noi non siamo come voi, siamo qualcosa di completamente diverso». Allora che cosa significa tutto questo? Significa che dalla crisi italiana si esce con una soluzione apparentemente forte, perché in continuità con la storia della Repubblica, ma in realtà profondamente debole, anacronistica addirittura, in un mondo in totale cambiamento e nel contesto di una crisi del sistema bipolare che diventa innanzitutto crisi del socialismo reale e del comunismo. Una soluzione ispirata ai principii della guerra fredda per governare un paese occidentale è una soluzione debole, tanto più debole in quanto – e questo è l’elemento dirompente sottostante a tutta la vicenda di cui abbiamo parlato, come ricordava Damilano – lo scollamento tra una parte della società italiana e il sistema dei partiti, inteso come delega a civilizzare lo scontro politico ma anche come delega riconosciuta ai governanti, comincia a delineare una potenziale sollevazione contro questa ‘repubblica della guerra fredda’ di cui non si riconosce più la legittimità. Questa è la storia degli anni Ottanta, questo è il motivo per cui l’Italia è l’unico Paese occidentale nel quale, finita la guerra fredda, crolla il sistema dei partiti.

 

Su questi temi chiederei, per concludere, a Damilano se ha qualcosa da aggiungere in relazione alle cose dette da Silvio Pons.

Marco Damilano: Io non ho nulla da replicare e molto poco da aggiungere: credo che molto sia stato già detto molto bene. Il governo della guerra fredda, la repubblica della guerra fredda è effettivamente la definizione che poi spiega almeno in parte quello che succede all’inizio degli anni Novanta, quando quel sistema, finita la guerra fredda, viene travolto, con forme diverse, ma con la stessa dirompenza con cui nel novembre 1989 è stato abbattuto un muro fisico. Sulla questione del logoramento si diceva, si scriveva quando Moro era ancora in vita che Moro fosse una specie di Giolitti cattolico, cioè un trasformista con un occhio alle riforme. Chi era Giolitti in fondo? Un personaggio che innovava un sistema politico fondato sul trasformismo con un’apertura alle novità dell’inizio Novecento. Io credo che una coerenza di Moro da questo punto di vista ci sia. Tra 1960 e 1978, per 18 anni, la sua azione è sempre legata all’apertura a sinistra, prima al Partito Socialista con il coinvolgimento del PSI nell’area del governo e poi negli anni Settanta con il coinvolgimento del PCI almeno nell’area della maggioranza. Credo che in questo ci fosse sicuramente il piano B. Il ‘frutto avvelenato’ poteva essere un logoramento di questi partiti e che in questo coinvolgimento erano chiamati anche a fare la loro parte, a fare i conti con le loro contraddizioni. Ognuno aveva le sue contraddizioni e non si poteva chiedere a Moro di risolvere le contraddizioni né del PSI, che entra al governo ancora con un’ala massimalista molto forte e con delle contraddizioni di identità e cultura politica non sciolte, così come del PCI degli anni Settanta. Che lui avesse in mente l’ipotesi del logoramento mi sembra un dato, così come che lui immaginasse che un eventuale incontro sarebbe stato molto fragile, molto esposto a qualsiasi tempesta – certo non immagina quella che poi gli è costata la vita. Ma, certo, se quell’incontro fosse avvenuto, né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista sarebbero rimasti gli stessi.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici