La politica al bivio nella nuova “crisi di fine secolo”
- 30 Marzo 2015

La politica al bivio nella nuova “crisi di fine secolo”

Scritto da Alfredo Reichlin

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Nato nel 1925 e morto il 21 marzo 2017, Alfredo Reichlin è stato uno dei massimi e storici dirigenti del Partito Comunista Italiano, sempre attento all’aspetto della riflessione intellettuale e del suo legame con la prassi politica. Gappista a Roma durante la Resistenza, vicino a Togliatti, è stato direttore dell’Unità, segretario del partito in Puglia, membro della direzione nazionale, responsabile economico e deputato. Negli ultimi anni, le sue pubblicazioni sono state incentrate sulla questione meridionale, sulla necessità dell’elaborazione di un nuovo pensiero critico per la politica e sulle trasformazioni capitalistiche. Riteniamo che questo articolo, scritto per Pandora Rivista nel marzo 2015, al di là degli spunti contingenti e dei riferimenti all’attualità, esprima bene alcuni dei temi di fondo dell’ultimo periodo della riflessione di Alfredo Reichlin.


Se il compito che ci si pone è quello di ridefinire lo spazio e le ragioni di una forza rinnovata della sinistra ciò significa fare i conti non solo con il “rottamatore” ma con i grandissimi problemi irrisolti del Paese che minacciano tutt’ora la sua vita democratica, il suo livello di vita, la sua sovranità. In una parola, il suo destino. C’è un grande spazio vuoto, davanti a noi. Occupiamolo. Non nego affatto l’importanza cruciale che ha una lotta parlamentare per cambiare in meglio la legge elettorale. Vedo benissimo i danni e i pericoli che derivano da certe tendenze personalistiche e autoritarie. Ma io sento il bisogno di collocare tutto questo in un contesto più largo. È tempo di avere una visione più chiara delle forze reali in campo. Il problema della democrazia italiana si misura non solo su questa o quella regola costituzionale da far rispettare (anche, certamente). Ma, stiamo attenti, siamo a un passaggio storico. Sono in discussione gli assetti sociali e la natura dei poteri di fatto (i cinesi si sono comprati anche la Pirelli e l’industria italiana va scomparendo). Insomma, è con le reali classi dirigenti che bisogna cominciare a fare i conti: cosa che da molti anni non facciamo. Questa è la sinistra. Smettiamola di dividerci tra “duri” e “molli”.

Come si cambia l’Italia? C’è bisogno di qualcosa di più di un emendamento a un programma di governo. Sento la necessità di una svolta. Intendo con ciò una iniziativa in grado di far fronte a qualcosa di analogo alla famosa “crisi di fine secolo”. Il 1901, l’avvento di Giolitti. Anche allora la sorte di quello che era il giovane Stato italiano si trovava di fronte a un bivio: ripiegare su un assetto autoritario monarchico, il cosiddetto ritorno allo Stato albertino, oppure mettere da parte i generali che mantenevano l’ordine pubblico a cannonate e imboccare decisamente la via di una democrazia parlamentare moderna. Prevalse Giolitti. Egli andò al governo e procedette subito con il riconoscimento dei sindacati, l’intesa con Turati, la neutralità dello Stato e della polizia nei conflitti sociali. Non fu una rivoluzione bolscevica. Ma l’Italia “cambiò verso”: in pochi anni ci fu la creazione del “triangolo industriale”, la banca mista, la nazionalizzazione delle ferrovie, le assicurazioni generali, ecc. Poco dopo venne il suffragio universale.

Anche adesso l’Italia ha bisogno di “cambiare verso”. Ha ragione Matteo Renzi. Solo che lui non mi sembra in grado di farlo. Il punto è questo. Sta qui il ruolo della sinistra.

Ma da dove ripartire? Io credo che la posizione più forte è pur sempre quella di ripartire dall’Italia. Da ciò che costituisce – in questo difficile passaggio storico – il suo problema vitale, decisivo. Tutti chiedono una svolta, ma di che natura e rispetto a che cosa? Io penso che si tratti di ripensare il tipo di sviluppo dell’organismo nazionale, e non parlo solo di alcune strutture fondamentali, ma dello Stato inteso anche come il nostro modo di stare insieme. Un problema – io penso – che non viene dopo (e quindi mai) rispetto alla pur necessaria riforma del sistema politico ed elettorale. Ma insieme. Un “punto a capo”. Non una rivoluzione bolscevica, per carità, ma – l’ho già detto – qualcosa di analogo alla “svolta del 1901”.

È con la vastità di un analogo, grandissimo problema nazionale che la sinistra di oggi non è riuscita a misurarsi. Parlo del passaggio di 20-30 anni fa quando furono le sfide del nuovo mondo che spazzarono via i grandi partiti della Prima Repubblica, mentre i giudici compivano soltanto l’opera. Il ristagno e poi la riduzione del nostro apparato produttivo sono cominciati allora, ben prima della crisi mondiale. E ciò per tante ragioni internazionali che sappiamo. Ma un peso decisivo ha avuto l’accettazione anche da parte della sinistra del “pensiero unico”, la corsa spensierata non tanto verso le privatizzazioni quanto verso la marginalizzazione delle funzioni dirigenti del Pubblico (non parlo solo dello Stato) in nome di una fiducia illusoria del mercato. Siamo diventati liberali mentre il Paese affidava a noi un potere enorme: dai comuni alle regioni al governo. Che uso ne abbiamo fatto? Me lo chiedo perché questo è stato e resta forse il punto decisivo. È il grande problema che nasce dal fatto che l’Italia è nata, ed è, una “economia mista” e che non è in grado di rispondere alla sfida cruciale dell’innovazione e del nuovo salto tecnologico e antropologico senza un ridisegno dei suoi fondamentali a cominciare dal modo in cui si formano il potere e la ricchezza. Se non si parte dalla condizione della scuola e dalla condizione giovanile. Se non si mette in campo una nuova idea della funzione del Pubblico e quindi senza riuscire a difendere la qualità del lavoro, e avviare una stagione politica ispirata all’idea che la scelta di fondo per la ricostruzione è un grande patto per l’inclusione sociale; il quale non escluda affatto l’impresa produttiva. E senza una consapevolezza di che cos’è l’Europa come vincolo non solo economico ma politico.

Questo è il grande limite di Renzi. È questo il “cambiare verso” che lui non sa fare. Aggiungiamo a tutto questo gli effetti davvero devastanti, materiali e morali del decennio berlusconiano. E in più il degrado della politica, lo spettacolo indecoroso della vita parlamentare che appare ormai agli italiani come un luogo di schiamazzi inconcludenti. Ci rendiamo conto, allora, di quale vuoto politico e morale si è creato. Un vuoto enorme, senza precedenti, certo non riempito da esperienze deludenti come quelle dei “tecnici” alla Monti. Come può una forza di sinistra ritrovare un suo cammino se non ritrova una connessione sentimentale e politica profonda con questo popolo reso così scettico e smarrito, che da anni assiste alle lotte intestine di una sinistra che si limita a gestire l’esistente? Se, insomma, non avanziamo una risposta finalmente seria rispetto all’attuale stato delle cose? Insisto. Non è possibile ritrovare una egemonia se non partiamo dal fatto che il Paese percepisce che questa non è una crisi come tante altre. Esso capisce che l’Italia vive in una sorta di “stato d’eccezione”. Le persone avvertono che siamo al rischio di cedimento di strutture fondamentali della constituency reale. E quindi non riuscire più a rifinanziare il debito pubblico, né a governare il crescente divario economico, ma anche civile e culturale, tra il Nord e il Mezzogiorno. Si rende conto che diventa difficile rimanere nel gruppo di testa dei Paesi più avanzati e lo sfilacciamento delle strutture pubbliche, sia amministrative che giudiziarie è tale da non combattere ma alimentare la corruzione, il metodo mafioso, il sopruso impunito, il peso delle rendite. Noi non andiamo lontano se non se non interpretiamo il bisogno di “un punto a capo”. È inutile dividersi tra duri e molli. La situazione è quella che è. Il Paese è in condizioni tali da non sopportare rotture del fragile equilibrio democratico pena il rischio di pericolose avventure. Eppure una svolta è più che mai necessaria e questo tema va posto in tutta la sua grandezza. È in questa situazione che si apre lo spazio per una sinistra nuova. Ma la condizione è che essa smetta di dividersi ed elabori una proposta politica chiaramente di tipo ricostruttivo, concreta, socialmente inclusiva e su una linea aperta, di centro-sinistra e contro l’oligarchia corrotta che ci governa da sempre. Non bastano gli emendamenti e ciò che fa il governo. Al cuore di tutto ci deve essere un messaggio alto di valori, rivolto soprattutto ai giovani, e la rappresentanza di nuove aspirazioni. Del resto non invento niente. Quando mai una forza nuova di sinistra si è affermata se anche prima di essere diventata una matura forza di governo non si è palesata come un movimento reale nella società e come l’affacciarsi di una nuova cultura? La cosiddetta “economia del debito” non regge più. È su una nuova cultura politica che si formeranno le nuove maggioranze.

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Alfredo Reichlin

Nato nel 1925 e morto il 21 marzo 2017, Alfredo Reichlin è stato uno dei massimi e storici dirigenti del Partito Comunista italiano, sempre attento all'aspetto della riflessione intellettuale. Gappista a Roma durante la Resistenza, vicino a Togliatti, è stato direttore dell'Unità, segretario del partito in Puglia, membro della direzione nazionale, responsabile economico e deputato. Negli ultimi anni, le sue pubblicazioni sono state incentrate sulla questione meridionale, sulla necessità dell'elaborazione di un nuovo pensiero critico e sulle trasformazioni capitalistiche.

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