Algoritmi e persone: chi crea il valore nell’e-commerce?
- 25 Gennaio 2021

Algoritmi e persone: chi crea il valore nell’e-commerce?

Scritto da Chiara Mancini

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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.


Ogni anno il Black Friday riporta (mai abbastanza) al centro del dibattito pubblico il tema delle condizioni di lavoro dei lavoratori di Amazon e della sua filiera. Quest’anno nel giorno del Black Friday la CGIL ha promosso il ‘Red Friday’[1] con l’intento di far luce su queste tematiche, nell’ambito della giornata di mobilitazione mondiale ‘Make Amazon Pay’. Un’iniziativa che svolge la sua opera di denuncia in un momento molto particolare (anche) per il settore del commercio elettronico, che con la pandemia ha visto una grande espansione: soltanto nel primo semestre del 2020 la crescita degli acquisti online è stata del +32,5% rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente (dati ISTAT) e il trend non ha riguardato solo i mesi del lockdown ma si è consolidato anche dopo[2]. Il periodo che intercorre tra il Black Friday e Natale è già in condizioni di ‘normalità’ un momento di picco degli acquisti – online e offline – e quest’anno i ritmi dell’e-commerce potrebbero aumentare molto di più, con le famiglie che, disincentivate ad incontrarsi ma incentivate ad acquistare comunque, potrebbero ricorrere all’e-commerce anche per i regali di Natale. Appare, quindi, emergere una ‘miscela esplosiva’ tra pandemia e acquisti natalizi, che potrebbe mettere ulteriormente sotto pressione le condizioni dei lavoratori di Amazon e della sua filiera. Questo fenomeno contingente, tuttavia, non sembra episodico, ma solo l’accelerazione di un trend che potrebbe avere una portata storica. Sarebbe un errore trattare il boom dell’e-commerce come un’eccezione: è necessario invece leggerlo provando ad immaginare (e poi a costruire) un nuovo patto sociale intorno alle mutate circostanze indotte dall’innovazione tecnologica e dall’innovazione sociale.

La diffusione del commercio elettronico segna un cambiamento profondo delle modalità attraverso cui le persone si procurano le merci: dal retail alla logistica. Si tratta di un processo simile a quello innescatosi negli anni Settanta, quando sono nati i supermercati e i centri commerciali. In quegli anni, è nata l’idea di spostarsi per fare scorte per la settimana, o per fare shopping in luoghi dedicati. Siamo immersi in questo mondo, ma è importante riconoscere che questa modalità di consumo non è ‘naturale’ ma è il frutto, tra le altre cose, di una tecnologia (l’automobile) e di un’epoca (quella del consumo di massa) che hanno cambiato le consuetudini secolari di comprare nelle botteghe e nei negozi di vicinato. Oggi potremmo essere agli inizi di un movimento simile, che ha come protagonista l’e-commerce, ma di cui nessun altro fattore è predeterminato: potrebbe avvantaggiare i piccoli commercianti come produrre maggiore concentrazione nel settore, potrebbe variare la quantità di occupazione e la qualità del lavoro, potrebbe cambiare profondamente le nostre abitudini sociali, la forma e il modo in cui sono organizzati i territori e il modo di viverli.

Insomma, se il processo in cui siamo immersi ha una portata di questo tipo, allora oltre alla necessaria opera di denuncia occorre anche provare ad analizzare le dinamiche strutturali dell’e-commerce, per riuscire a proporre una strategia non solo difensiva rispetto alle condizioni di lavoro ma che possa rilanciare una sua valorizzazione insieme ad un cambio di paradigma del ruolo del consumo nella nostra società, che deve essere governato e indirizzato.

Per farlo, occorre innanzitutto comprendere i modelli di business dell’e-commerce e, più in generale, della logistica nell’ambito dei processi di digitalizzazione, dove si assiste ad una tendenza verso la concentrazione del mercato dovuta ad una maggiore importanza strategica di questa parte della catena del valore. Mentre per i consumatori ‘tradizionali’ non è importante sapere quanto tempo ha impiegato la merce per arrivare in negozio, per i consumatori online questo fattore diventa cruciale, insieme a quelli legati all’affidabilità e alla trasparenza del processo logistico che la merce compie[3]: i consumatori comprano online se si possono fidare dell’insieme dei servizi di consegna e, dunque, il valore si crea soprattutto nella logistica. Amazon costituisce un esempio di un’azienda che è riuscita a dominare il mercato dell’e-commerce non semplicemente grazie ad un sito web marketplace ben fatto o agli algoritmi di profilazione degli utenti, ma soprattutto per la capacità di controllare tutta la filiera logistica più classica, integrando processi fisici e utilizzo dei dati. Infatti, Amazon sta investendo in corrieri, aeroporti cargo e magazzini propri, generando un processo di concentrazione del mercato dell’e-commerce che è un esempio perfetto di quello che sta accadendo più in generale nel mercato della logistica.

Siamo abituati a pensare – e nel tessuto industriale del settore in Italia è così ancora oggi – alla logistica come un servizio esternalizzato dalle imprese produttrici e un mercato frammentato al suo interno. Esternalizzare un servizio a basso valore aggiunto consente infatti maggiore flessibilità ad un costo molto minore, coerentemente con gli approcci della lean production, del decentramento produttivo e della ricerca di economie di scala esterne presenti nei territori. Ma, se con il diffondersi del commercio elettronico la logistica acquisisce maggiore valore strategico, le aziende produttrici sono incentivate a costruire partnership più stabili e ad alto valore aggiunto con le aziende della logistica, le quali, dovendo integrare servizi sempre più complessi, tendono a produrre nel mercato degli operatori logistici una minore frammentazione. Questo potrebbe permettere alle aziende del settore di avere una maggiore solidità, pianificare le risorse e investire in innovazione.

In questo contesto potrebbe esserci spazio anche per una maggiore valorizzazione del lavoro: tuttavia, anche se il settore diventa più ‘ricco’, questo valore non viene redistribuito ai lavoratori che contribuiscono a crearlo. Anzi, la logistica è tradizionalmente dominata da catene di appalti e condizioni di lavoro precarie, che non sono migliorate nemmeno a seguito del lockdown, quando i lavoratori di questo settore per la prima volta sono stati riconosciuti (e si sono auto-riconosciuti) come essenziali. Non solo: la situazione non cambia nemmeno nelle aziende che da un punto di vista industriale sono all’avanguardia, come nel caso di Amazon. Oggi la logistica di Amazon prospera su una contraddizione: ha il peso economico di un segmento ‘ricco’, ma le condizioni di lavoro sono estremamente povere – ed è su questa contraddizione che occorre impostare una narrativa e un’azione di stampo non solo difensivo ma anche strategico, che deve poggiare su due pilastri.

Il primo è quello del riconoscimento: innanzitutto, riconoscimento reale e pieno dei diritti anche basilari per un lavoro dignitoso – si pensi al tema dei ritmi e della sicurezza sul lavoro – fino al riconoscimento della possibilità di organizzarsi collettivamente, quindi della legittimità dell’interlocutore collettivo e la necessità di buone relazioni sindacali. Già questo, oggi, non è scontato – ma, comunque, non è sufficiente per ‘rilanciare’ verso un obiettivo alto di valorizzazione. Per fare un salto anche rivendicativo occorre riconoscere il ruolo che il lavoro ha nella creazione del valore. Il lavoro in questo settore non viene remunerato adeguatamente, nella convinzione che – dal momento che si tratta generalmente di un lavoro poco qualificato – esso non contribuisca a creare valore. Ma questa narrativa è ideologica e falsa: il fatto che Amazon – una tra le aziende più tecnologicamente avanzate al mondo – abbia bisogno di molte persone capaci di lavorare a quei ritmi e in quelle condizioni, è la dimostrazione che quell’attività è essenziale e non automatizzabile. È arrivato il momento di smontare questa narrativa e di riconoscere che, fino a che ci sarà bisogno di lavoratori, essi contribuiscono alla creazione del valore insieme al capitale e alla tecnologia. E non si tratta solo di ottenere un bonus una tantum, elargito unilateralmente dall’azienda, ma di una valorizzazione reale e multiforme che parta dal presupposto che, se il settore del trasporto merci e della logistica si sta trasformando in un settore ad alto valore aggiunto, il lavoro deve essere remunerato per il valore che contribuisce a creare.

L’alternativa – o, meglio, il secondo pilastro di una strategia di rilancio del lavoro, complementare al primo – è chiedere ancora maggiore innovazione. Nei magazzini logistici o nei furgoni dei corrieri vediamo spesso – e testimonianze dirette e inchieste lo confermano – un lavoro che si può ancora definire come fordista (con qualche spruzzatina di lean production che di solito peggiora le cose): un lavoro segmentato, ripetitivo e alienante, un lavoro che non ‘aggiunge’ nulla – che non ha niente di artigianale e niente di intellettuale. Non solo questo rende difficile anche alla parte del lavoro ragionare in termini di valore-lavoro, ma impedisce anche di ragionare su quale tipo di lavoro siamo disposti ad accettare, dal momento che in condizioni di crisi e di crescente disuguaglianza tendiamo – comprensibilmente – ad accettare di buon grado la creazione di qualsiasi (posto di) lavoro. E questo fatto ci tiene imprigionati sotto la spada di Damocle, senza permettere un vero riscatto dei lavoratori. Il punto è che alcuni di questi lavori tecnicamente oggi potrebbero essere automatizzati, in maniera tale da permettere alle persone di dare un contributo prettamente e squisitamente umano al processo produttivo, senza dover fare lavori alienanti. Ma le aziende – persino quelle più innovative da un punto di vista tecnologico – non lo fanno perché investire in innovazione ‘sana’, capace di sollevare le persone da carichi inumani, risulta meno conveniente di ricorrere a lavoratori mal pagati e senza diritti. Altri lavori, invece, non sono oggi automatizzabili. E quando le persone fanno lavori essenziali che le macchine non sono in grado di svolgere – siano essi accudire gli anziani o consegnare pacchi – devono essere adeguatamente remunerate.

Insomma, il salto rivendicativo necessario si può riassumere in questi termini: se anche fossero riconosciuti i diritti, le tutele e le condizioni migliori possibili, gran parte del lavoro in questo settore resterebbe intrinsecamente, nel suo contenuto, un lavoro alienante e disumanizzante. Siamo allora di fronte a un aut aut che è il cuore della questione: in una società dell’abbondanza, come quella in cui viviamo, è possibile, tecnicamente ed economicamente, da una parte redistribuire il lavoro lasciando fare agli esseri umani qualcosa che non possa essere svolto dalle macchine e dall’altra dare il giusto riconoscimento, in termini di diritti e salario, a chi si sottopone al sacrificio di svolgere lavori pesanti non ancora automatizzabili.

Ma se questo oggi non avviene e nessuno dei due pilastri sembra minimamente consolidarsi, questo dipende in gran parte dai rapporti di forza attualmente esistenti, sfavorevoli al lavoro. E qui si chiude il cerchio rispetto all’inizio del ragionamento proposto in questo articolo: il ruolo del consumo. Se è il cambiamento dei modelli di consumo che innesca questo cambio paradigmatico nel settore della logistica, allora è ancora questo che può fungere da leva anche per agevolare il salto di qualità di cui abbiamo parlato.

Infatti, il consumo online può essere, potenzialmente, più informato e quindi più responsabile. Ma non è detto che questo avvenga: come nei Black Friday di qualche anno fa i consumatori si ammassavano all’ingresso dei centri commerciali, oggi la folle corsa agli acquisti è meno visibile ma non per questo assente. Per questo è necessaria un’opera di educazione e sensibilizzazione dei consumatori affinché la rete possa essere usata nelle sue potenzialità per fare acquisti in maniera più consapevole, con una maggiore attenzione ai temi del lavoro. La campagna ‘Make Amazon Pay’ vuole parlare anche ai consumatori, ma quello che fatica ad emergere è l’alternativa che viene proposta. In questo periodo c’è stata anche una campagna per la valorizzazione del made in Italy o dei prodotti locali, per supportare l’artigianato e la produzione di qualità in un momento difficile: questa campagna ha proposto un’alternativa ad un problema contingente – quello dei regali di Natale – che però porta un messaggio al consumatore, che è quello di un atto di responsabilità. È necessario sfruttare questa leva anche con riferimento alle condizioni di lavoro, in maniera tale che non sia solo un’opera di denuncia ma di promozione attiva di un modello diverso.

Se messi in questa luce, i problemi relativi alle condizioni di lavoro in Amazon diventano i problemi del modello sociale, economico e produttivo in generale e permettono di impostare (e poi di agire) una battaglia politica e non solo sindacale.


[1] A questo link il video completo dell’iniziativa; qui un articolo.

[2] ISTAT, Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, luglio 2020; si veda par. 3a pag. 36.

[3] Il 41% dei fattori che spingono i consumatori a scegliere l’e-commerce è legato alla logistica e in particolare al numero di opzioni di consegna disponibili (7%), alla possibilità di ritirare il pacco in una location conveniente (8%), alla return policy (11%), alla velocità di spedizione (15%); Pwc, Five forces transforming transport and logistics, PwC CEE Transport & Logistics Trend Book 2019.

Scritto da
Chiara Mancini

Laureata in sociologia all’Università di Firenze e in economia, con indirizzo relazioni industriali, all’Università di Roma Tre, è stata ricercatrice junior in Adapt e poi ha curato il progetto “Idea Diffusa” dell’Ufficio Lavoro 4.0 della CGIL. Attualmente fa parte dell’Ufficio studi della FILT CGIL, dove si occupa in particolare dei grandi driver del futuro dei trasporti.

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