Scritto da Gio Maria Tessarolo
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Il discorso pubblico è, come è noto, intessuto non tanto di visioni individuali che si confrontano, quanto soprattutto di narrazioni, discorsi cui ciascuno contribuisce ma che nessuna opinione è sufficiente a determinare da sola, paradigmi che nel venire a galla strutturano le idee di chi, con maggiore o minore conformismo, vi aderisce. Negli ultimi anni (con un’approssimazione un po’ grezza si potrebbe dire dopo che gli effetti della crisi del 2008 si sono ripercossi anche sull’Italia) una di queste narrazioni si è affermata con particolare vigore negli ambienti della sinistra di più vario tipo, dalle organizzazioni studentesche alle manifestazioni culturali alle dichiarazioni di esponenti politici: si tratta di un’interpretazione dei problemi e delle sfide della contemporaneità giocata solitamente in chiave tutta negativa, in cui si imbocca la strada (sempre facile e per questo insidiosa) di individuare un capro espiatorio da accusare. Questo avversario è solitamente indicato dall’etichetta “neoliberismo” (talvolta “neoliberalismo” o semplicemente “liberismo”), o addirittura nei casi più estremi e superficiali semplicemente “capitalismo”: è stato il protagonista negativo tanto delle ultime lotte di genere quanto di quelle per il clima o delle polemiche sulla valutazione dell’università, fino ad arrivare naturalmente alle discussioni su politiche economiche, crescita, diritti sociali. Pur non allineandosi certamente con la schiera di coloro che usano tale schema argomentativo nelle sue forme più banali, il recente editoriale di Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano per la «Rivista il Mulino» è utile proprio perché fornisce una cristallizzazione ragionata del modo in cui questa linea critica imposta solitamente i problemi, cui però (a differenza di quanto si fa di solito) aggiunge anche una risposta alla legittima domanda su quale alternativa proporre. Da un certo punto di vista si tratta di un testo che non si sottrae a molte ambiguità: un articolo di Luciano Capone e Alberto Mingardi su «Il Foglio» dello scorso 15 febbraio ne ha ampiamente criticato i limiti per quanto riguarda la caratterizzazione del “neoliberalismo”. Con Capone e Mingardi si può o meno essere d’accordo, ma non si può negare che il loro testo ponga dei problemi oggettivi, su cui sarebbe interessante leggere una risposta. Più che su questioni economiche, tuttavia, qui si cercherà di riflettere in chiave filosofico-politica sulla parte propositiva del contributo di Felice e Provenzano, e in particolare su una questione circoscritta e non esplicitamente affrontata dagli autori, ma il cui chiarimento è essenziale per fornire di basi solide il loro stesso discorso.
Per mettere a fuoco il problema si può partire da un curioso accostamento che si può leggere a pagina 889, dove i fini del “liberalismo sociale” preso a modello vengono identificati con la «realizzazione umana (la ricerca della felicità)». Ci sono ragioni per cui la coincidenza delle due potrebbe essere accettata, ma a patto di intendersi sul senso di tale equivalenza, ossia sul fatto che la ricerca della felicità non coincide affatto con la felicità, nello stesso modo in cui cercare un tesoro non coincide con trovarlo o percorrere una strada non coincide con giungere a destinazione. Posta in questi termini, è difficile pensare che l’equazione non susciti nemmeno qualche dubbio: le si potrebbe, infatti, opporre la ragionevole obiezione che la «realizzazione umana» potrebbe essere pensata come uguale alla felicità, non al suo perseguimento. È in effetti più con questa seconda concezione che sembrano allinearsi anche le ripetute asserzioni di Felice e Provenzano circa la «piena realizzazione della persona umana» (p. 887) o la «fioritura umana» (pp. 887, 890). Svariate domande potrebbero sorgere a questo punto: cosa significa (e, soprattutto, chi lo stabilisce) che la persona “si realizza” o “fiorisce”? Che nesso sussiste fra tali “realizzazione” o “fioritura” e la politica?
Tali interrogativi sono importanti non solo per ragioni astratte o fondazionali, ma perché portano direttamente a confrontarsi con le questioni di fondo della filosofia politica moderna. Come è noto, il complicato processo che ha condotto all’affermazione di ciò che oggi si intende con politica è consistito sostanzialmente nel progressivo abbandono della convinzione (che, facendo le dovute eccezioni, aveva retto i grandi sistemi dell’antichità e del Medioevo) che l’uomo fosse un essere determinato tanto nelle sue caratteristiche quanto nel suo fine, ossia che essere felici, “realizzarsi”, “fiorire” significassero la stessa cosa per tutti e che nel suo senso più proprio la politica dovesse (e, soprattutto, potesse) realizzare questa condizione in modo compiuto e perfetto. Con l’abbandono di tale convinzione, di cui d’altra parte già i classici (a partire dall’acuto realismo e pragmatismo della Politica di Aristotele) avevano visto i limiti, la politica assume tratti completamente diversi perché scopre la sua impotenza. Se anche i cittadini della repubblica di Machiavelli potranno essere virtuosi, un sapiente legislatore deve «presupporre tutti gli uomini rei» e disegnare istituzioni che sappiano contenere l’inevitabile corruzione che deriva dal libero gioco delle passioni umane. Il Leviatano di Hobbes è del tutto indifferente a ciò che gli individui fanno nella loro vita privata, fino a quando questo non interessa la stabilità dello Stato: naturalmente portati a competere e a vivere in una situazione di insicurezza, tutto ciò che la politica può esigere dagli uomini è che non distruggano i “termini minimi” della loro convivenza.
Come qualsiasi manuale di scienza politica insegna, la politica diventa così sempre più un processo di riduzione dell’incertezza in un mondo caotico, che si tratti del regno della fortuna del repubblicanesimo fiorentino o dell’universo meccanico del razionalismo hobbesiano: la differenza che è importante cogliere è che riduzione dell’incertezza non significa affatto eliminazione dell’incertezza. Se si rifiuta l’idea che l’uomo sia qualcosa di definito, ossia che esista una vita buona che sia tale a priori, se ne deve trarre la conseguenza che compito della politica non potrà essere realizzarla: cosa sostituire allora a quell’eu zen che era stato la sostanza della politica fin da Platone e Aristotele? Come si è detto, la risposta è la riduzione dell’incertezza, ma con la precisazione che nella modernità la politica si configura come uno dei mezzi di riduzione dell’incertezza: un altro è il mercato, naturalmente. Sostenere che il mercato riduce l’incertezza, tuttavia, non significa ritenere che esso funzioni alla perfezione in modo spontaneo o lasciargli l’ultima parola su qualsiasi problema, ma riconoscere che esso è una delle istituzioni che si sono rivelate utili a produrre innovazione, pace, benessere: non è l’unica e non è infallibile.
È in tale orizzonte che va inserita una considerazione seria del liberalismo, di cui Felice e Provenzano costruiscono una sorta di “genealogia selettiva”. Sostenere che esso nasca «come pensiero di emancipazione, fondato sulla centralità del lavoro» (p. 886) è un’affermazione per certi versi condivisibile, la cui correttezza è ampiamente dimostrata proprio dagli esempi che si possono leggere a pagina 887. Come tutte le verità parziali, però, se presa di per sé risulta fuorviante: la centralità del lavoro è infatti per il liberalismo solo uno degli elementi che lo portano ad essere una dottrina di limitazione del potere. Questa va a sua volta ricondotta a quel processo di “neutralizzazione” della natura umana di cui si è detto (e che si compie ovviamente a piccoli passi lungo il corso di secoli): la grande conquista del liberalismo nelle sue varie forme consiste proprio nell’aver sostenuto con la massima coerenza l’inconsistenza di qualsiasi idea arbitraria di vita buona.
È bene precisare che questo non significa affatto limitare la partecipazione o lo spirito civico dei cittadini: non a caso Tocqueville (uno degli autori più amati dai famigerati “neoliberali”, al punto da aver ispirato il titolo della Via della schiavitù) vedeva proprio nell’interesse per la politica e nell’attivismo all’interno delle proprie comunità lo strumento principale per difendere tali libertà. Al contrario, la limitazione della politica ha a che fare con una definizione rigorosa dei suoi ambiti di intervento e dei suoi obiettivi: nulla toglie che in tali ambiti e in relazione a tali obiettivi il suo ruolo sia fondamentale.
È alla luce di questa logica che anche i diritti assumono un senso (per quanto sia bene ricordare che sono esistiti ben prima del “neoliberalismo” anche liberalismi che non hanno parlato il linguaggio dei diritti, naturali o meno): essi possono essere concepiti come la sfera dei requisiti minimi che la politica si premura di assicurare, lasciando poi agli individui l’autonomia più piena nella scelta se, quanto e come “fiorire”. Il cuore del messaggio del liberalismo è che la politica non può fare molto di più: il suo compito è solo garantire tale minimo, per il semplice motivo che garantire un massimo significa assumersi il compito (oneroso e ingiustificato) di decidere al posto degli individui cosa sia il loro bene. Il compito della politica può essere allora pensato in modo analogo a quello dell’arbitro in una competizione sportiva: stabilisce le regole, punisce chi le infrange, va in soccorso di chi si infortuna, ma si astiene dal decretare il vincitore prima dell’inizio del gioco, anche e soprattutto perché (a differenza dello sport) nella vita le gare sono infinite e, a patto di rispettare le regole, non c’è mai un solo vincitore perché non c’è mai una sola partita. Permettere la ricerca della felicità, non prometterne il conseguimento.
Ci sono stati, naturalmente, anche nella modernità progetti politici che si sono posti l’ambizione di realizzare la natura umana, da varianti dell’aristotelismo ad alcuni filoni del repubblicanesimo (il cui culmine teorico è non tanto la Rivoluzione Americana quanto Rousseau). A conferma di quanto si è detto, in tutti questi casi la tenuta della teoria nel suo complesso si basava su una ben precisa immagine teleologica del cosmo e dell’uomo: una volta che si è rinunciato ad accettare come universalmente vera questa premessa, vengono a mancare anche le conclusioni. Ancora diverso è invece il discorso per quanto riguarda qualsiasi versione rigorosa del marxismo, che non vede nella politica un mezzo di realizzazione della natura umana perché ripone tutte le sue speranze nella transizione dal regno della necessità a quello della libertà: che questo processo si fondi su una filosofia della storia, un’interpretazione dialettica della realtà o un’analisi economica, prima che esso si realizzi è difficile che la politica così come la si intende qui abbia qualcosa da dire o fare in merito.
Molto più rilevante per l’attualità è che l’analisi liberale collida con il ruolo che è comunemente attribuito alla politica da coloro che la interpretano come un meccanismo di soddisfazione delle aspettative, qualunque esse siano: da teorico il problema diventa allora socio-culturale, di “mentalità”. Quello delle aspettative che i cittadini hanno nei confronti della politica è un problema che si lega ad un atteggiamento sempre più diffuso e sempre più pericoloso: quello di pensare che esista qualcosa come un diritto al successo o alla felicità o alla realizzazione. Se anche si può discutere in astratto sulla validità o meno di tale concezione da un punto di vista morale, il suo aspetto pericoloso risiede nella convinzione che sia compito della politica farsi carico di soddisfare tali esigentissime aspettative, che essa non potrà evidentemente mai realizzare nella forma assoluta e perentoria in cui vengono formulate. Pensare infatti che un qualsiasi tipo di processo politico possa fornire concretamente ai cittadini il benessere, la soddisfazione o la felicità che ciascuno desidera, in modo del tutto conforme alla personalissima concezione che ciascuno ha di cosa siano il benessere, la soddisfazione o la felicità, significa sostanzialmente nascondere la testa sotto la sabbia, postulando l’esistenza di un mondo in un cui non esistono scarsità, errori, modificazioni nelle risorse o nelle aspettative stesse. O, alternativamente, privare i singoli della libertà di decidere cosa sia per loro il benessere, la soddisfazione o la felicità. Da questo punto di vista, i frequenti appelli all’uguaglianza o alla giustizia non possono che essere controproducenti: nel loro suggerire obiettivi fin troppo ambiziosi, non fanno altro che acuire la disillusione, la frustrazione e la rabbia, inevitabili conseguenze della constatazione che lo stato roseo e miracoloso che era stato promesso non si è realizzato.
Se si accetta invece la premessa liberale fondamentale, ossia che non esiste una vita buona e che la politica non ha il compito di realizzarla, le conseguenze possono essere almeno tre. In primo luogo, la risposta alla domanda “cosa deve fare la politica?” si rivela molto più modesta e molto più concreta: essa è un processo che riduce l’incertezza fornendo a ciascuno un minimo di strumenti e di risorse e a tutti un corpus di regole fondamentali di convivenza (insieme naturalmente a strumenti coercitivi che ne permettano l’applicazione e il rispetto). In secondo luogo, si chiarisce che essa non ha una missione da realizzare al di là di fornire quei mezzi (intesi tanto come beni quanto come istituzioni e opportunità) che mettono ciascuno in condizione di intraprendere la ricerca della felicità. In terzo luogo, ne emerge che sarebbe bene cominciare ad acquisire e diffondere la consapevolezza che il rischio di sbagliare e di fallire è l’altra faccia della libertà: l’unica corsa in cui si ha la certezza di non arrivare ultimi o di non farsi del male è quella a cui non si partecipa. Se ci deve essere senza dubbio qualcuno pronto a soccorrere chi si infortuna o ad aiutare chi non ce la fa, questo non significa che tutti debbano sempre vincere.
Non si tratta naturalmente di misure oggettivamente determinabili, ma di idee su cui una politica liberale deve riflettere caso per caso: è per questo che una contrapposizione frontale al “neoliberalismo” non può che risultare controproducente, sviando dai problemi più urgenti. Felice e Provenzano vedono giustamente in una virtuosa alleanza fra pubblico e privato la strada da seguire, ma il modo “antagonistico” in cui l’argomentazione è impostata sembra dare per scontato che, a patto di combattere il nemico supremo (ossia l’asservimento al mercato del “neoliberalismo”), individuare la versione ottimale di tale alleanza sia facile o scontato. Al contrario, specialmente in un paese come il nostro, gravato da inefficienze, sprechi e politiche pubbliche ben poco lungimiranti, proprio a riflettere su dove tracciare questa linea di confine dovrebbe essere dedicata la riflessione politica: a capire cosa differenzia la ricerca della felicità dalla felicità e quali siano concretamente le condizioni perché tale ricerca abbia luogo. In Italia (ma non solo) ci sono senza dubbio moltissime cose che la politica dovrebbe fare e non fa, non fornendo effettivamente a molti nemmeno quel minimo di cui si è parlato in termini di servizi, istruzione, sicurezza: una posizione liberale sul problema invita a chiedersi se questo non avvenga anche perché essa fa invece molte cose che non dovrebbe fare.
A tale scopo, un «ripensamento dello Stato» (p. 895) è senza dubbio indispensabile, così come un «rilancio del progetto europeo» (p. 898): per poter intraprendere tali percorsi, tuttavia, la «stella polare dei diritti umani» (p. 897) non è certamente una guida sufficiente, se non affiancata dalla bussola politica della consapevolezza dei propri obiettivi (e dei loro limiti). Limitarsi ad addossare la colpa al “neoliberalismo” rischia di far perdere di vista il rischio che ogni estremismo comporta, cioè quello di cadere nell’estremismo opposto: con le parole di Alexis de Tocqueville, quello di «preferire l’eguaglianza nella schiavitù alla diseguaglianza nella libertà».