La natura del potere nell’Alto Medioevo. Intervista a Giuseppe Sergi
- 02 Novembre 2019

La natura del potere nell’Alto Medioevo. Intervista a Giuseppe Sergi

Scritto da Andrea Raffaele Aquino

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Giuseppe Sergi, Professore emerito di Storia medievale all’Università di Torino, fa parte del Consiglio scientifico del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto e dirige il Bollettino storico bibliografico subalpino. Fra le sue numerose opere ricordiamo: Soglie del medioevo. Le grandi questioni, i grandi maestri (Donzelli 2016), Antidoti all’abuso della storia (Liguori 2010), Dieci secoli di medioevo (con Renato Bordone, Einaudi 2009), L’idea di medioevo. Fra senso comune e pratica storica (Donzelli 1999) e I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali (Einaudi 1995).


Il 476 d.C. per noi che guardiamo la storia ex post è una data periodizzante, ma sappiamo che i contemporanei non la percepirono come tale. Alla luce di una riflessione sulla natura e sull’esercizio del potere, si può ravvisare nel 476 d.C. per l’Occidente una soluzione di continuità rispetto al passato, che renda tale data, oltre che simbolica, significativa, oppure la tradizione imperiale romana, con le sue istituzioni, rimase immutata agli occhi degli uomini vissuti nel cosiddetto Alto Medioevo?

Giuseppe Sergi: La risposta è che si tratta di una data che è stata enfatizzata, e questo mi sembra già implicito nella sua domanda, ma un dato interessante da osservare è che, tra i cronisti che ci raccontano quel periodo, ne parla Simmaco[1] e non Cassiodoro[2]. Possiamo dire che Simmaco è all’origine dell’enfasi collegata alla deposizione di Romolo Augustolo ed è chiaro come la tradizione successiva abbia dato un grande peso alla mancata assunzione del titolo imperiale da parte di Odoacre. Devo dire che tutti gli elementi che possediamo ci conducono a pensare che per i contemporanei l’evento non ebbe una rilevanza periodizzante. La realtà di quegli anni era delineata giacché ormai le componenti barbariche si configuravano come ineliminabili, soprattutto quelle dell’esercito, e di conseguenza la struttura politica non colpiva e stupiva più nessuno. Il 476 è una data di inizio perché nei repertori cronologici, nei cosiddetti calendari perpetui, che gli storici usavano soprattutto una volta, da quel momento non figura più registrato il titolo imperiale in Occidente, ma permane solo quello orientale.

 

Dopo il collasso delle strutture imperiali occidentali e parallelamente alla formazione dei regni “romano-barbarici”, la figura del vescovo in Occidente rappresentò un punto di riferimento centrale nel periodo che si suole chiamare tardoantico. Alla luce della compenetrazione reciproca tra potere politico e religioso, che culmina con la produzione di un falso storico nell’VIII secolo, il Constitutum Constantini, possiamo tracciare un quadro dell’azione, seppur eterogenea, delle istituzioni ecclesiastiche altomedievali nella definizione di un presupposto principe del potere?

Giuseppe Sergi: Secondo me è molto importante ricordare che tutti i vescovi erano espressi dalle aristocrazie militari. È cruciale, in questo il peso che la pratica ecclesiastica aveva nella gestione del potere, la simbiosi tra potere politico e influenza religiosa nata con Clodoveo[3]. I Goti, arrivati in Italia come popolo migrante, professavano la religione ariana, mentre le popolazioni autoctone erano cattoliche e tale differenza creava un freno nell’integrazione, poiché essa constava anche di pratiche cerimoniali e quotidiane che dovevano riguardare tutta la popolazione. Le competenze tesero a rimanere separate e ciò risulta chiaro anche da un’analisi onomastica: a coloro che dovevano essere destinati alla carriera ecclesiastica veniva conferito un nome romano, a quanti avrebbero intrapreso quella militare un nome germanico. Invece considerando il caso dei Franchi, tutti cattolici, questa distinzione non esiste più. Il vescovo era un’autorità ecclesiastica che aveva un ruolo anche carismatico di un certo rilievo agli occhi delle popolazioni, però il vero potere che cominciò a esercitare non fu funzionariale, non fu un potere delegato: i vescovi non erano conti. Questo vale tranne nel caso in cui ai vescovi veniva concessa l’immunità, che introduceva un’esenzione dal controllo del conte e di fatto sembra una concessione solo in negativo. Però insisto sul fatto che ogni diocesi, ogni potere vescovile – che si fosse caricato anche dei significati temporali o meno – era un’isola, e dunque non esisteva, come si potrebbe pensare, una specie di grande rete di potere ecclesiastico che potesse condizionare i poteri civili, ma una convivenza tra di essi in cui, addirittura, negli anni di Carlo Magno, sembrava predominare l’imperatore, e non il papa.

 

Quali ritiene che siano state le strutture di potere più rilevanti nel periodo che va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente alla “restaurazione” carolingia?

Giuseppe Sergi: Gli elementi di continuità furono rappresentati dagli eserciti, come risulta molto evidente per il caso dei Longobardi. Tutti i liberi in età adulta, armati, costituivano l’insieme degli arimanni. Il termine Longobardi inoltre non designa un’etnia, al loro interno c’erano Alamanni, Turingi e molti altri popoli. Dall’editto di Astolfo[4] in poi (750 d.C.) anche Romani, mentre ci potevano essere dei Longobardi poveri esentati dall’esercizio delle armi. Direi che in questo periodo l’autorità che potesse proiettarsi anche sui territori era direttamente derivata dalle gerarchie militari e quindi dipendente dai rapporti di forza.

 

Da un impero all’altro. Quali sono gli elementi costitutivi del potere carolingio che esso riprende dalla tradizione franca e quali quelli che mutua dalla tradizione romana? È legittimo parlare di un’integrazione tra le due culture culminata con la ricostruzione, forse al tempo più simbolica che sostanziale, dell’impero?

Giuseppe Sergi: Dal punto di vista dell’esercizio del potere l’Alto Medioevo può essere definito il periodo dell’ambiguità, la quale riguarda la compresenza di tradizione “pubblica” romana e concezioni tribali-personali. I funzionari franchi rappresentano la tradizione romana, i vassalli quella germanica. Diventa interessante, in questo caso, il fatto che si usino i due diversi modelli e li si sovrapponga, si rafforzi l’apparato funzionariale con dei vincoli, che sono di fedeltà personale, ma che nulla hanno a che fare con una costruzione di tipo statale.

 

Ancora oggi, quando si parla di distribuzione del potere nel Medioevo ai non addetti ai lavori balena nella mente l’immagine distorta della piramide feudale, molto diffusa nella manualistica scolastica. Perché l’idea di un potere ordinato dall’alto con al vertice un sovrano onnipotente e una gerarchia rigida di sottoposti (i cosiddetti vassalli, valvassori, valvassini) risulta essere un’approssimazione storica non più accettabile oggi?

Giuseppe Sergi: La questione su cui conviene insistere è che il feudo non dava potere. Fino a quando rimase davvero un rapporto vassallatico-beneficiario così come l’avevano inventato e applicato i Franchi non diede potere. Si scelse di rafforzare la fedeltà dei funzionari, dei conti, attraverso l’obbligo di presentare l’omaggio vassallatico solo da Ludovico il Pio[5] in poi. E già questo aspetto risulta abbastanza significativo. Altro difetto vistosissimo dell’immagine della piramide: essa suggerisce una distribuzione di potere dall’alto verso il basso. È uno schema facile e di solito al secondo o al terzo livello vengono collocati i vescovi, ma il vescovo era un ecclesiastico e non poteva giurare fedeltà vassallatica: non poteva essere un vassallo.

 

Si ritorna, quindi, all’immagine stereotipata del vescovo-conte?

Giuseppe Sergi: Neanche, perché quella del vescovo-conte è l’idea di un vescovo funzionario. Simile è l’idea del vescovo vassallo che, bisogna dire la verità, non è molto affermata se non in quella piramide. I vescovi vengono inseriti nello schema della piramide perché con un certo scandalo si constata che erano anche capi militari, che combattevano e quindi li si metteva lassù, ma loro in quanto ecclesiastici non potevano prestare l’omaggio vassallatico. Infine, conviene sottolineare ancora due aspetti: vassi e valvassori sono sinonimi, quindi il valvassore non è un vassallo del vassallo. I valvassini sono invece effettivamente dei vassalli minori, ma non è detto che siano minori in quanto vassalli di un vassallo di un vassallo. Possono essere minori in quanto vassalli di un qualunque ricco, spesso sono vassalli delle Chiese – e questo posso ben dirglielo avendo studiato a lungo il famoso re Arduino[6], che è ritenuto il sovrano che è riuscito a mobilitare i milites minores – si chiamano minores e quindi volendo valvassini. Nonostante sia indubbia la presenza di un diminutivo che allude a un livello più basso, esso non riguarda l’inferiorità in una scala vassallatica ma lo status di questi vassalli che, spesso, a parte il beneficio non avevano altro ed erano perciò minori in questo senso. Se questi milites minores perdevano le terre beneficiarie concesse loro dai seniores, nel caso di Arduino rappresentati da chiese lombarde o piemontesi, perdevano tutto, diventavano dei “nessuno”. Mentre quelli dei quali non si direbbe mai valvassini, i maggiori, erano anche dei grandi allodieri, vale a dire che possedevano terre in piena proprietà. Di conseguenza, tali grandi allodieri non cambiavano status sociale se venivano loro tolte le terre beneficiarie. I valvassini erano, in un certo senso, vassalli puri, che dovevano il loro status solo a terre beneficiarie e non avevano terre allodiali.

 

Paolo Prodi ha parlato di giuramento come sacramento del potere, strumento di (ideale) appannaggio regio per il controllo dei territori sotto la propria giurisdizione. Tuttavia, nonostante il significato sacrale, che Prodi ha sottolineato, di tale istituzione, rimasero forse preponderanti i rapporti di forza tra il sovrano e i nemici esterni al regno. Intorno al X secolo la capacità dei re, conti e marchesi di controllare omogeneamente i propri territori e proteggere i propri sudditi diminuì, tanto che questi ultimi preferirono affidarsi sempre di più a poteri locali. Quali furono le cause di tale situazione? E, soprattutto, cosa essa comportò?

Giuseppe Sergi: Non è che mancassero i nemici esterni, però bisogna distinguerli. Il problema si pose inizialmente in Gallia, a causa delle minacce normanne, alle cui incursioni il regno franco fece fatica a rispondere. Lo stesso accadde con gli Ungari in Italia e dovunque essi arrivarono, ovvero fino a Basilea, quindi fino all’Europa centrale. I saraceni, che sono stati in realtà molto mitizzati, rappresentavano una minaccia esterna assai meno importante di Normanni e Ungari. Nei fatti bisogna dire che spesso si definivano “saracene” bande di briganti che erano molto raramente arabi, come è stato ampiamente dimostrato. Perlopiù, se di religione musulmana, erano berberi. A ogni modo, in quel periodo il fattore preponderante era il bellicismo endemico interno. Il X secolo fu il teatro di azione di quelli che le fonti chiamano i mali Christiani, i cattivi cristiani. Persino i documenti di allora hanno lo scrupolo di dire che gli assalitori non erano tutti infedeli, ma anche mali Christiani. Questo disordine fece sì che la risposta fosse quasi più sociale che politica, partendo dal basso. Si procedette all’incastellamento, che appunto fu una caratteristica del X secolo ma che affondava le proprie radici nella seconda metà del IX. Nell’864 Carlo il Calvo[7] emise un capitolare con il quale affermò l’illegalità di tutti i castelli che chiamava “adulterini”, definendo in questo modo quelli costruiti senza l’autorizzazione pubblica, quindi non edificati dal regno. Tuttavia, nel momento stesso in cui il re emette tale capitolare, egli ammette l’esistenza di tali castelli, e in secondo luogo si riconosce impotente, affermando implicitamente che non riuscirà a controllare queste forze locali, nonostante provi a ribadire che tutti i castelli, con gli armati relativi, debbano essere di proprietà del regno. In realtà questo capitolare costituisce la prova che a quell’altezza cronologica non era più così. E siamo, ripeto, ancora nella seconda metà del IX secolo, figuriamoci nel X.

 

Sempre in ambito di autorità locali: le curtes che amministrarono i grandi latifondi fino all’XI-XII secolo possono essere considerate una diretta evoluzione delle villae romane? Si può parlare rispetto a ciò di una continuità tra poteri locali del tardo impero romano e dell’Alto Medioevo?

Giuseppe Sergi: Direi che c’è continuità. Però la villa romana è un latifondo compatto con manodopera prevalentemente schiavile, le curtes medievali non lo sono praticamente mai, essendo sempre dislocate, come asseriscono gli esperti in tale ambito. Queste ultime si configurano infatti come nuclei dispersi su vari villaggi, con alcune parti a conduzione diretta e altre a conduzione indiretta (distinzione, questa, tipicamente medievale). Ma vorrei aggiungere una considerazione assolutamente fondamentale: la curtis non è affatto una struttura di potere, può essere al massimo un puntello. Prima ho citato il latifondo, le chiese, le milizie di fedeli interne che aiutano il dominus a diventare tale. Il latifondo è spesso organizzato in forma curtense però, di per sé, la curtis non è una struttura di potere, è un’azienda agraria. Tanto è vero che, equivoco ricorrente, le corvées non sono un diritto signorile, ma sono il pagamento di un affitto. Quando una famiglia contadina paga la ‘taglia’, la paga al signore che la protegge; quando presta la corvée, sta pagando la terra che non è sua e che ha ricevuto: è una forma parziale di pagamento per una terra che ha ottenuto da coltivare. La corvée non è un diritto signorile.

 

La storia medievale è leggibile anche mediante la chiave interpretativa di un progressivo distacco tra Occidente latino e Oriente cosiddetto bizantino, fino a eventi sempre più ostili, culminati con la rottura rappresentata dalla Quarta Crociata. Ciò nonostante, la figura bizantina del sovrano come basileus assoluto influenzò i sovrani nell’Alto Medioevo, ovvero nel momento in cui, anche per motivi politici, i rapporti culturali tra Bisanzio e l’Occidente si configuravano come più fitti?

Giuseppe Sergi: Diciamo che agli imperatori occidentali sarebbe piaciuto essere come l’imperatore d’Oriente, ma non ci sono mai le condizioni, non si avvicinano mai, neanche vagamente, ad assomigliare all’imperatore bizantino, non ci provano neanche. Forse l’unica eccezione può essere identificata con Ottone III, anche perché è figlio di una principessa bizantina. Ma in questo caso si tratta, più che dell’uomo di potere, di una questione teorica: dell’Ottone III intellettuale, quello che voleva la renovatio imperii e che ha avuto Gerberto d’Aurillac, futuro papa Silvestro II, come tutore. L’uomo di potere sapeva benissimo che non poteva arrivare ai livelli orientali, soprattutto per la struttura statale. Sono stati fatti tanti sforzi per scoprire un presunto feudalesimo bizantino che in realtà non è mai esistito, perché la struttura bizantina era molto più statale rispetto a quella Occidentale: la cosiddetta struttura tematica[8] vigente a Bisanzio era funzionariale-territoriale per eccellenza.

 

Il papato e l’impero nell’Alto Medioevo sono i due poteri per eccellenza che cercarono di autolegittimarsi. Come cambiarono i loro rapporti reciproci dalla dominazione carolingia a quella ottoniana?

Giuseppe Sergi: Direi molto poco. L’ambizione della costruzione di un papato monarchico emerse a metà dell’XI secolo e si sviluppò successivamente con rapidità. Non bisogna tuttavia pensare che con il Dictatus Papae (1075), alla fine dell’XI secolo, con Gregorio VII, davvero sia stata istituita la monarchia papale. Direi che la si può considerare costituita col primo canonista importante, Graziano. Siamo nel 1140 e quindi risulta essere passato un lungo periodo di tempo rispetto all’età degli Ottoni. La stessa volontà ottoniana di appoggiarsi ai vescovi promanava dal fatto che essi ancora non costituivano la Chiesa ma rappresentavano le chiese plurali. Si trattava proprio della volontà di sottolineare e sfruttare, a fini anche civili, il carisma che i vescovi avevano, ognuno nelle proprie sedi. Si è molto discusso se gli Ottoni si siano richiamati nella loro idea di renovatio imperii più al modello romano o al modello di Carlo Magno. La risposta è che si ispiravano a entrambi ma ormai avevano a che fare con un contesto che non si prestava più all’applicazione diretta di uno dei due modelli. Negli anni di Carlo Magno l’imperatore sapeva che mandando un conte in una certa provincia quel funzionario sarebbe stato considerato come un’autorità riconosciuta, e qualora fossero stati costruiti spazi di autonomia e di gestione del potere (certamente alcuni meccanismi di indipendenza locale si erano già avviati a quest’altezza cronologica), questi spazi sarebbero stati reputati abusivi. Gli Ottoni invece ormai furono costretti a prendere atto, ad esempio, del fatto che molti di quei castelli che Carlo il Calvo aveva provato ancora a bloccare ormai detenevano il vero potere. Fu dunque intrapresa una politica di instaurazione di rapporti con chi localmente era ritenuto non scardinabile. Nella politica dei sovrani dell’età degli Ottoni si trova un elemento constatativo assente negli anni di piena età carolingia, durante la quale invece esisteva più progettualità. Questo era dovuto anche al fatto che in età carolingia molte dominazioni militari erano fresche, nate da poco. Ma, per coronare il tutto, possiamo dire tranquillamente che, se non ci affidiamo a testi di natura propagandistica, questa contrapposizione tra Chiesa e Impero è soltanto apparente. Nel senso che non c’era un’idea di Impero e un’idea di Chiesa alleati o in potenziale concorrenza. La pratica del potere era un’altra. La Chiesa era molto scomposta al suo interno, ma era anche constatativa. L’Impero a sua volta prendeva atto della propria articolazione. E insisto sul fatto che tra l’altro il titolo che contava di più era quello regio. Spesso questa astrazione dell’Impero è considerata più spendibile di quanto non fosse. Il famoso discorso, caro a molti studiosi, di Carlo Magno, secondo cui, usando una testimonianza di Eginardo[9], Carlo Magno non sarebbe stato così soddisfatto dell’incoronazione imperiale, è molto significativo. Non tanto perché dobbiamo fidarci di quanto dice Eginardo, che forse riprendeva la tradizione romana dell’esibizione della modestia, quanto perché è effettivamente vero che quello era un momento che rischiava di scontentare i Franchi. Carlo infatti era il re di un singolo popolo – pur con le sue presenze plurime – e, come tale, nel momento dell’incoronazione imperiale la sua aristocrazia potrebbe aver manifestato diffidenza ed essersi meravigliata del fatto che l’acclamazione dei Romani contasse come la loro, dato che allora, altra cosa da public history che spesso si trascura, la carica regia era elettiva, non dinastica. Nonostante la presenza di alcune dinastie, di durata relativamente breve, l’elezione regia continuò a risultare fondamentale. Quindi quello dell’incoronazione imperiale fu un momento cruciale della transizione dalla personalità alla territorialità del potere. In fondo, da un punto di vista teorico il mondo franco non aveva bisogno del titolo imperiale perché, nonostante ci fossero i singoli re territoriali (d’Italia, di Aquitania, di Borgogna), il Rex Francorum era il re di tutti i Franchi, ovunque fossero. Possiamo dedurre che il titolo di Rex Francorum fosse una sorta di anticipazione del titolo imperiale. In un certo senso, potremmo arrivare, forzando un poco, a dire che da un punto di vista interno, per Carlo Magno l’incoronazione imperiale portò più oneri che vantaggi. Da un punto di vista esterno, invece, la spendibilità della sua immagine guadagnò il fatto di poter dimostrare agli altri sovrani di governare territori enormi, perché in ogni singola regione si trovava un principe che aveva giurato fedeltà vassallatica. Tuttavia, tali prìncipi si occupavano perlopiù dei propri affari, come si evince da un’analisi delle guerre nel tardo Medioevo.


[1] Si tratta di Quinto Aurelio Memmio Simmaco (†525/526), uomo politico e scrittore, nonché praefectus Urbi di Roma tra 476 e 491. La sua opera, la Historia romana in sette volumi, è andata perduta, ma ne possediamo un frammento grazie alla lunga citazione di Iordanes nei Getica.

[2] Cassiodoro (490 ca-580 ca), alto funzionario della monarchia ostrogota in Italia, sostenne con diverse opere l’ideale di integrazione tra Romani e Goti. Della sua attività a corte lasciò memoria nelle Variae. Fondò inoltre un monastero a Vivarium, che divenne il modello per i centri culturali monastici medievali.

[3] Clodoveo (466 ca-511) fu il primo re dei Franchi a convertirsi al cristianesimo romano.

[4] Astolfo (†756), fu re d’Italia e dei Longobardi dal 749 alla morte.

[5] Ludovico I, detto il Pio (778-840), figlio di Carlo Magno ed imperatore dell’Impero carolingio dall’814 alla morte.

[6] Arduino di Ivrea (955 ca-1014), re d’Italia dal 1002 al 1014.

[7] Carlo II, detto il Calvo (823-877), figlio di Ludovico Il Pio e imperatore dell’Impero carolingio dall’875 alla morte.

[8] Si definiscono θέματα le circoscrizioni militari e amministrative che sostituirono le provincie romane a partire dall’età di Eraclio I (610-641), nell’opinione di Georg Ostrogorsky, o da quella del suo successore Costante II (641-668), come si evince dai più recenti studi di Warren Treadgold. Il termine indica espressamente gli eserciti, ognuno dei quali dava il nome alla zona che presidiava. L’impianto tematico bizantino cominciò il suo processo di dissoluzione nell’XI secolo, corrispondentemente al periodo di governo imperiale dell’aristocrazia costantinopolitana (1025-1081). Cfr. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968 / 2014; Warren Treadgold, Storia di Bisanzio, il Mulino, Bologna 2009. L’aggiornamento accettato dalla comunità scientifica è in Mario Gallina, Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII), Carocci, Roma 2016.

[9] Si tratta del celebre redattore (770 ca-840 ca) della Vita Karoli, testimonianza ineludibile per la ricostruzione storica dell’azione del sovrano franco.

Scritto da
Andrea Raffaele Aquino

Dottorando in Storia, Antropologia, Religioni, curriculum medievistico, alla “Sapienza” Università di Roma. Si è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Roma. È inoltre membro della Consulta Giovanile del Pontificio Consiglio della Cultura.

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