“Altre Afriche. Racconti di paesi sempre più vicini” di Andrea de Georgio
- 14 Novembre 2017

“Altre Afriche. Racconti di paesi sempre più vicini” di Andrea de Georgio

Recensione a: Andrea de Georgio, Altre Afriche. Racconti di paesi sempre più vicini, Università Bocconi Editore, Milano 2017, pp. 160, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Edoardo Baldaro

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Già da diversi anni Andrea de Georgio – giornalista, documentarista, osservatore, scopritore di storie e cittadino bamakois acquisito –  non può essere considerato uno “sconosciuto” da chi si occupa di Africa Occidentale. L’autore di Altre Afriche rappresenta infatti una delle voci italiane più autorevoli e puntuali, nel raccontare con intelligenza e profondità gli eventi e i cambiamenti in atto in una delle regioni più complesse, affascinanti e dimenticate del pianeta. Tuttavia, non è solo questo. Per un’intera comunità di giovani ricercatori, cooperanti o “semplici” viaggiatori italiani che si avventurano in Mali e nell’ex Afrique Occidentale Française, tra cui chi scrive, de Georgio è ormai una guida e un punto di riferimento capace di condividere con gli altri la passione per quella che ha scelto essere la sua seconda casa. L’intelligenza e l’impegno sincero di de Georgio emergono chiaramente ad ogni pagina, andando a comporre un testo che, scritto in maniera scorrevole e accessibile, riesce a trattare temi complessi, spesso dolorosi, e sicuramente necessari.

Fin dalle prime righe di Altre Afriche, l’autore rende esplicita la propria dichiarazione di intenti, indicando l’arduo compito che si prefissa di svolgere: «Cercando di approfondire lo sguardo oltre il binocolo miope che vede solo terrorismo e migrazioni, questo libro si propone come principale obiettivo la decostruzione di alcuni pregiudizi e dicotomie quali centro-periferie, globale-locale, noi-loro» (p.2). Due sono le tesi attraverso cui de Georgio sviluppa questo punto. Da un lato, vuole dimostrare che l’Africa non rappresenta un altrove insolito e distante, i cui eventi possono costituire ai nostri occhi poco più che esotiche curiosità. Dall’altro, cerca di mostrarci come il nostro presente e (soprattutto) il nostro avvenire siano ormai parte di un’unica storia e di un unico percorso, pienamente condivisi con i popoli e gli stati situati nelle terre a sud del Mar Mediterraneo.

Altre Afriche si presenta come un lavoro che è contemporaneamente un reportage, un diario di viaggio e una raccolta di racconti brevi. Tanto per la sua struttura che per le sue scelte stilistiche e narrative, è difficile immaginare che de Georgio non sia stato almeno in parte ispirato da un altro viaggiatore ed osservatore del mondo, recentemente scomparso. Scriveva infatti Ryszard Kapuściński all’inizio del suo più bel libro dedicato all’Africa: «Questo libro non parla dell’Africa, ma di alcune persone che vi abitano e che vi ho incontrato, del tempo che abbiamo trascorso insieme. L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo»[1].

Proprio come il grande giornalista polacco, anche de Georgio sceglie di raccontarci dei grandi temi geopolitici e geoeconomici che interessano l’Africa contemporanea, facendoceli conoscere attraverso il prisma delle persone “comuni” incontrate durante i suoi viaggi, straordinari protagonisti di un quotidiano che ci appare al contempo così diverso e totalmente famigliare. E proprio come Kapuściński, Andrea non pretende di parlarci dell’Africa – che, «a parte la sua denominazione geografica, in realtà […] non esiste»[2] –  ma di quei luoghi e di quelle persone, che nel corso dei sei anni passati sul continente ha imparato a conoscere. Cinque capitoli per cinque paesi – Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Niger – ognuno raccontato seguendo una giornata di un suo abitante, mentre l’autore si nasconde e diviene quasi solo voce narrante ed osservatore privilegiato – che si paleserà solo in occasione di un breve dialogo con la proprietaria di un albergo di Abidjan.

Attraverso questo stratagemma, de Georgio riesce a collegare e tenere assieme quelli che a livello accademico verrebbero chiamati i diversi “livelli di analisi”, mostrando come le dinamiche della politica internazionale penetrino in profondità nella vita degli africani. Dal Senegal al Niger, i rapporti di forza vigenti nel sistema internazionale vengono vissuti direttamente sulla pelle delle persone: dalla moneta usata per fare acquisti, passando per i gusti alimentari e giungendo fino ai canoni estetici, il sistema coloniale prima e il mondo globalizzato poi, hanno ridefinito usi, costumi e pratiche dei popoli del continente. Al tempo stesso, in un sistema caratterizzato dall’interdipendenza complessa, le iniziative dei contadini burkinabé, così come la rabbia accumulata dalla gioventù sahariana, sono in grado di influire sull’agenda delle grandi potenze mondiali, facendo battere in ritirata le grandi multinazionali, o provocando la militarizzazione del più vasto deserto del mondo.

L’esistenza di questo rapporto biunivoco, che prescinde dalle distanze geografiche e rimette in discussione il concetto stesso di frontiere, costituisce il fulcro dei ragionamenti alla base di questo libro. Da un lato il “mondo”, ovvero tanto i paesi più potenti e impegnati in una nuova “corsa all’Africa”, che i rappresentanti dei grandi interessi economici, stanno determinando il presente e il futuro del continente. Dall’altro lato, l’Africa non solo è già parte integrante del sistema-mondo, ma il suo avvenire sarà sempre di più anche il nostro. 

 

L’Africa è il nostro specchio

Il primo mito che nel lavoro di de Georgio viene chiaramente confutato, riguarda il fatto che l’Africa sia un luogo lontano, periferico e cristallizzato in un perenne sottosviluppo che impedisce all’uomo africano di “entrare abbastanza nella storia”[3]. Al contrario, il continente e i suoi abitanti sono pienamente inseriti all’interno del nostro sistema internazionale. Una ragazza di Dakar può recarsi all’università ascoltando musica inglese sull’Ipod, mentre una signora di Abidjan si tiene aggiornata sull’ultima moda parigina leggendo Vogue France e un giovane Tuareg del Niger aspetta con ansia l’ultimo film di Tarantino da vedere sullo smartphone di produzione cinese. Questi sono tutti piccoli esempi, che mostrano al lettore come esista ormai un immaginario e un quotidiano collettivo, che traducono in senso pratico il vasto concetto di “globalizzazione”. La grande porosità dei sistemi economici locali, unita all’esplosione dell’export cinese e alla bassa età media della popolazione – l’Africa, continente più “giovane” del pianeta, è un bacino enorme e in espansione di consumatori avidi di nuove tecnologie e prodotti globali – fanno anzi si che in Africa, la globalizzazione agisca in maniera diretta e non mediata, plasmando la vita delle persone e influenzando le dinamiche politiche, sociali ed economiche di intere nazioni.

Se infatti la presenza di merci e prodotti cinesi, europei ed americani costituisce un indicatore particolarmente visibile della diffusione del modello capitalistico basato sul consumo individuale, altri elementi raccontano dell’esistenza di un quadro ancora più sfaccettato e complesso, che sta determinando profondissime trasformazioni sul continente. Moltissime sono le informazioni fornite a tal proposito da de Georgio. Alcune raccontano di fenomeni più conosciuti, e che affondano le radici nella storia e nell’instaurarsi di rapporti diseguali tra ex colonizzati ed ex (?) colonizzatori. Questo è ad esempio il caso del Franco CFA, la moneta utilizzata in 14 paesi dell’Africa occidentale e centrale, erede diretta del Franco delle colonie francesi, tuttora ancorato all’Euro ed indirettamente controllato dalla Banca Centrale di Francia.

Più recente invece, è il fenomeno che sta portando alla ridefinizione degli spazi e dei confini in Africa. In questo caso, è l’Unione Europea – e in seconda battuta gli Stati Uniti – ad apparire come uno dei principali protagonisti. L’ “emergenza” migratoria ha spinto l’Unione a sviluppare uno sforzo multisettoriale senza precedenti sul continente, mirante a far implementare ai partner africani una politica di controllo dei confini e dei flussi migratori, che sta avendo un impatto diretto su attività economiche e solidarietà sociali esistenti da secoli, e su cui si fonda la sussistenza di milioni di persone. Particolarmente colpito appare essere il Sahel, regione di passaggio tra l’Africa sub-sahariana e il nord Africa, in cui l’Unione Europea sembra aver ormai posto le proprie nuove frontiere. Non solo paesi come il Niger ed il Mali rischiano di uscire definitivamente dalla cornice istituzionale di organizzazioni regionali quali la CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) – nata ispirandosi ai principi di libera circolazione ed integrazione economica alla base dell’Unione Europea – ma la criminalizzazione generalizzata di interi settori economici basati sugli scambi transfrontalieri, minaccia di far accrescere a dismisura il numero di disoccupati e diseredati, costretti a trovare nuove soluzioni per la propria sopravvivenza.

Più in generale, la nuova competizione geopolitica ed economica che vecchie e nuove potenze stanno mettendo in pratica intorno alle risorse e ai mercati del continente, sta contribuendo a rafforzare anche in Africa un fenomeno che appare sempre più essere alla base del nostro sistema, ovvero l’aumento esponenziale delle sperequazioni economiche, che finiscono per dividere le società tra un gruppo limitato di “vincitori”, e una grande massa di “sconfitti”. Anche in questo caso, l’autore ci mostra come l’Africa sia cartina al tornasole delle dinamiche internazionali, parlandoci delle forme di “resistenza” messe in atto dalle popolazioni. Da un lato, le proteste che nel 2014 hanno messo fine al regime di Blaise Compaoré in Burkina Faso, suggeriscono come esista ancora fiducia in principi quali giustizia e democrazia, e nella loro capacità di fare cambiare le cose. Dall’altro, assume però un altro significato anche il fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo di matrice islamica, che tocca ormai l’intera Africa Occidentale: nella violenza armata e nel terrorismo infatti, sempre più esclusi – principalmente giovani e disoccupati – stanno trovando nuovi strumenti per dare forma e senso alla propria rabbia verso un sistema che li emargina e li “schiaccia”[4], proponendo un parallelo interessante – anche se in parte un po’ forzato – con quei fenomeni di protesta dal basso, che stanno attraversando le società occidentali.

 

L’Africa è il nostro futuro

«Non abbiamo avuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro»

Andrea de Georgio decide di affidare l’apertura del primo capitolo del proprio libro a questa breve citazione di Cheik Anta Diop[5]. La scelta non è ovviamente casuale: come sottolinea anche Lucio Caracciolo nella sua prefazione, questo libro conferma e sviluppa un’idea, che si sta affermando sempre più presso esperti e decisori, ovvero che l’Africa detiene le chiavi del nostro futuro.

Nell’ambito del dibattito politico contemporaneo in realtà, dire che dall’Africa giungerà il nostro futuro assume quasi un suono sinistro, come una promessa di minaccia prossima e incombente. Sulle pagine dei giornali e in televisione vediamo scorrere immagini di povertà e violenza, cui spesso si accompagnano titoli che parlano di invasione, terrorismo e malattie. Una narrazione chiaramente grottesca e a tratti criminale, ma che sta tristemente trovando un proprio pubblico in Europa. Il messaggio contenuto nel libro di de Georgio si pone in totale contrapposizione rispetto a tutto ciò. In un mondo interconnesso e altamente tecnologizzato, dove benessere economico, stabilità politica e sicurezza fisica di persone e nazioni dipendono dal raggiungimento di un equilibrio complesso, multilivello e ormai deterritorializzato, l’Africa non può più essere considerata come una lontana culla del caos. Le sfide ambientali, economiche e sociali che si porranno davanti all’umanità nel corso di questo secolo, pretenderanno l’elaborazione di risposte coordinate e collettive, in cui popoli e governi africani – che purtroppo molto spesso non condividono gli stessi interessi ed obiettivi – siano pienamente coinvolti.

In questa cornice, la questione migratoria è ovviamente centrale. Lo spostamento di persone, lavoratori e speranze da un continente in pieno boom demografico – in Niger ad esempio, la media è di più di sette figli per donna – ma anche sottoposto a un’incipiente desertificazione nella sua fascia saheliana, verso un’Europa sempre più vecchia e poco dinamica, rientra in un più vasto movimento di redistribuzione delle risorse su scala globale, che può forse essere in parte governato, ma sicuramente non arrestato. Consapevole dell’importanza della questione, e della centralità assunta nel dibattito pubblico europeo dal Sahel, de Georgio decostruisce una serie di convinzioni che stanno ispirando la risposta – eminentemente securitaria – fornita dall’Europa rispetto ai flussi migratori africani.

In particolare, raccontando di Niger, Senegal o Burkina Faso, due sono i punti su cui si sofferma. In primis, i migranti non sono vittime, spersonalizzate e depoliticizzate, di un contesto avverso, ma sono soggetti consapevoli, individui dotati degli strumenti necessari per comprendere e muoversi nel mondo. In tal senso, molto spesso questi rappresentano veramente una “risorsa”, intesa in senso anche umano e culturale, in grado di restituire vitalità ad economie e società sempre più conservatrici e sclerotizzate. In secondo luogo, la stessa “tratta” dei migranti non è il risultato dell’azione di qualche organizzazione criminale transnazionale. Molto spesso i passeurs, che permettono ai migranti di attraversare frontiere e deserti, sono soggetti auto-organizzati, e inseriti in reti di scambio informale il cui scopo principale è quello di compartecipare al business generato da questo movimento di persone. Esistono ovviamente imprenditori criminali e predatori, che sfruttano ed abusano dei migranti ben prima che questi giungano in Libia. Questi però sono soggetti che quasi mai finiscono nella rete dei controlli nazionali anti-migrazioni, ma anzi prosperano in un contesto in cui le azioni repressive degli stati locali – “suggerite” dai partner europei – aumentano i rischi e dunque i costi associati a questa attività.

L’analisi, con cui de Georgio ridefinisce molte delle nostre certezze riguardanti il funzionamento dei flussi migratori provenienti dall’Africa, rappresenta solo un possibile esempio, del grande lavoro svolto dall’autore, per riuscire a decostruire pregiudizi e dicotomie sull’Africa. In questa epoca storica e in questo contesto politico, Altre Afriche deve essere accolto come una ventata di aria fresca e come un’opera necessaria, per poter comprendere ciò che sta avvenendo in un luogo che non ci è mai stato così vicino.


[1] Ryszard Kapuściński, Ebano, Feltrinelli, Milano 2000 / 2013.

[2] Ibid.

[3] La formula è tratta dal famoso discorso tenuto dal neo-eletto presidente francese Nicholas Sarkozy all’Università Cheik Anta Diop di Dakar nel 2007. Riprendendo un linguaggio attribuibile ad alcuni scritti di Hegel, in quell’occasione Sarkozy affermò che il principale problema dell’Africa fosse l’aver mancato il proprio ingresso nella storia, rifiutando ogni idea di progresso e cambiamento.

[4] Principale sostenitore della cosiddetta tesi della “islamizzazione del radicalismo” è il politologo Olivier Roy. Questi ha espresso un sunto delle proprie posizioni nell’articolo Le Djihadisme est une révolte générationelle et nihiliste, pubblicato su Le Monde il 24 novembre 2015.

[5] Cheik Anta Diop (1923-1986) è stato uno storico, antropologo e fisico senegalese, nonché uno dei più grandi e influenti intellettuali africani della sua generazione. Noto soprattutto per i suoi studi sull’Africa pre-coloniale e per le sue tesi riguardanti l’origine africana della civiltà egizia, è stato un fervente sostenitore del pan-africanismo. Porta il suo nome l’università di Dakar, una delle più importanti università dell’Africa francofona.

Scritto da
Edoardo Baldaro

Nato a Bologna, dopo aver conseguito il dottorato in Scienze Politiche presso la Scuola Normale Superiore (sede di Firenze), è attualmente assegnista di ricerca in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Si occupa principalmente di conflitto e sicurezza in Sahel, e delle politiche estere occidentali nell’area.

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