Ambiente e intelligenza artificiale: oltre le false soluzioni. Intervista a Benedetta Brevini
- 20 Novembre 2023

Ambiente e intelligenza artificiale: oltre le false soluzioni. Intervista a Benedetta Brevini

Scritto da Ekaitz Cancela, Evgeny Morozov

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Pubblichiamo di seguito la traduzione dell’intervista Benedetta Brevini on the AI sublime bubble – and how to pop it apparsa su «The Syllabus» a cura di Evgeny Morozov ed Ekaitz Cancela, nel quadro di una collaborazione tra «Pandora Rivista» e «The Syllabus», un progetto di selezione e cura dei contenuti di informazione e approfondimento di maggiore qualità.

In questa intervista Benedetta Brevini riflette sulle contraddizioni del rapporto tra intelligenza artificiale e questione ambientale, mettendo in discussione approcci semplicistici largamente diffusi nel dibattito pubblico. Brevini è Professoressa associata di Economia politica della comunicazione all’Università di Sydney e Senior visiting fellow alla London School of Economics. Giornalista e attivista dei media oltre che accademica, Brevini studia il rapporto tra capitalismo dei dati, intelligenza artificiale, crisi climatica e comunicazione ambientale. Il suo ultimo libro, Is AI Good for the Planet? (Wiley 2021), esplora i costi ambientali dell’intelligenza artificiale.


Lei ha scritto ampiamente su come la tecnologia in generale, e l’intelligenza artificiale in particolare, sia stata invocata per risolvere il problema climatico. Può delineare una panoramica sulle tendenze dominanti rispetto a questo discorso? Che genere di immaginari vengono mobilitati?

Benedetta Brevini: L’idea che sta diventando dominante presenta l’intelligenza artificiale come una “bacchetta magica” con la quale possiamo risolvere il problema più grande che la società deve affrontare. Quest’idea fa parte di un tecno-immaginario egemonico che sta guadagnando molto terreno. Di recente, ho studiato come la Commissione europea, ad esempio, abbia guardato all’IA come strumento non solo per affrontare la crisi climatica, ma anche per risolvere gli altri grandi problemi della democrazia, compresi quelli generati dal capitalismo. È emblematica una citazione tratta da un importante rapporto pubblicato dal World Economic Forum nel 2018, un lavoro dedicato all’intelligenza artificiale a salvaguardia della Terra, e uno dei migliori esempi di concezione dell’IA come bacchetta magica: «Abbiamo un’opportunità unica di sfruttare questa Quarta rivoluzione industriale, e il cambiamento sociale da essa innescata, per contribuire ad affrontare le questioni ambientali e riprogettare il modo in cui gestiamo il nostro ambiente globale condiviso. […] L’intelligenza e l’aumento della produttività che l’intelligenza artificiale offrirà possono svelare nuove soluzioni alle sfide ambientali più urgenti in seno alla società: i cambiamenti climatici, la biodiversità, la salute degli oceani, la gestione delle acque, l’inquinamento atmosferico e la resilienza, tra le altre cose». Dal punto di vista discorsivo, è significativo l’utilizzo dell’espressione “Quarta rivoluzione industriale”, in linea con una tipologia di linguaggio che è stata impiegata negli anni Novanta da personalità come Nicholas Negroponte e George Gilder. Ricordo Negroponte sostenere lo sviluppo di una “Nuova era ateniese”, grazie alle possibilità offerte da Internet. Oggi si parla nuovamente di una rivoluzione tecnologica che ci aiuterà a risolvere tutte le calamità del mondo. Questa è la fase sublime di una nuova tecnologia, che alimenta un tecno-immaginario molto potente. Uso il termine “sublime” accodandomi a Vincent Mosco, che ha svolto un ottimo lavoro nell’identificare questo tipico approccio alle cosiddette nuove tecnologie. Sappiamo che l’IA non è una novità: se ne parla fin da prima della Seconda guerra mondiale, ma, proprio a causa dell’accelerazione del capitalismo dei dati, nell’ultimo decennio si è verificata una diffusione incredibile. Questo è il motivo per cui sta diventando una “nuova” tecnologia, che a sua volta è la ragione per cui è così difficile guardare all’IA da una prospettiva più critica. È proprio in questo modo che si costruiscono mitologie o senso comune, per riprendere Antonio Gramsci. Ci viene impedito di mettere in discussione queste mitologie intorno alle tecnologie nel momento in cui diventano senso comune. Come spesso accade, siamo soggetti a una sorta di amnesia riguardo la vecchia tecnologia che viene soppiantata da una nuova. In questo caso, sarebbe il web – o Internet in generale – a essere soppiantato. Stiamo dimenticando che tutte le promesse di Internet sono state disattese, anche se negli anni Novanta sembravano a portata di mano. Stiamo sperimentando ancora una volta questa amnesia con l’IA.

 

Quali sono le conseguenze di una tale sublimazione tecnologica?

Benedetta Brevini: Una conseguenza rilevante è la sua capacità di offuscare la materialità delle tecnologie. Oscura, cioè, il fatto che lo sviluppo della tecnologia è completamente incorporato nelle strutture sociali, politiche ed economiche della società che la sviluppa. Parafrasando Raymond Williams, la tecnologia è sempre pienamente sociale. Siamo consapevoli di star sviluppando l’IA in un regime di iper-capitalismo, un capitalismo non regolamentato. La stiamo sviluppando per profitto, con Stati in cui i monopoli governano tutto ciò che concerne l’IA. Abbiamo a che fare con i “signori del digitale”, con i giganti della tecnologia: sono loro a dettarne lo sviluppo. La sublimazione dell’IA offusca anche la sua materialità. Ricordiamo che l’IA è un insieme di tecnologie e di infrastrutture: quando parliamo di cloud, pensiamo subito a qualcosa di sublime, qualcosa che non possiamo toccare – una bianca, soffice nuvola nel cielo. Crediamo che l’intelligenza artificiale abbia lo stesso tipo di carattere immateriale. Ma non è così. Quindi, cerco sempre di visualizzare i data center come luoghi zeppi di polvere e molto rumorosi poiché, nel momento in cui offuschiamo la materialità di queste tecnologie, dimentichiamo il loro impatto ambientale.

 

Che tipo di affermazioni sta mobilitando la letteratura proveniente da Davos che contribuisce alla formazione del tecno-immaginario? Che l’IA ci permetterà di gestire l’economia in modo più ecologico e sostenibile? Oppure la pretesa è che la società stessa sarà rimodellata dall’IA? 

Benedetta Brevini: In realtà sussistono entrambe le affermazioni. Una tesi frequente e importante è l’ineluttabilità dell’IA. La mitologia è che l’IA sta arrivando, anche se non lo vogliamo; e che, quando arriverà, sconvolgerà completamente la società. L’idea del sovvertimento è tipica anche della prima fase sublime. Questa letteratura presenta l’IA come ineluttabile e radicale. ​​L’altra promessa è che l’IA ci condurrà a una società più efficiente. Qui si prende chiaramente in prestito il linguaggio neoliberista, senza mettere in discussione il concetto di efficienza. Che cosa significa efficienza per la società, per l’economia o per un’azienda, ad esempio? Questa è la terza delle affermazioni rivoluzionarie che osserviamo. L’IA sta arrivando, che lo si voglia o meno, e sta cambiando la società – dal modo in cui forniamo i servizi sociali e l’istruzione, a quello in cui organizziamo i sistemi bancari e finanziari.

 

E in che modo l’IA dovrebbe arrestare la crisi climatica?

Benedetta Brevini: Permettendoci di prevedere gli effetti avversi del cambiamento climatico. Un caso che ho esaminato è un’applicazione chiamata Treeswift. È uno spin off della Penn Engineering e viene venduto come un sistema di monitoraggio forestale alimentato dall’intelligenza artificiale – un perfezionamento della gestione ambientale – che utilizza droni autonomi e l’apprendimento automatico per acquisire dati, immagini e creare un inventario per poter mappare la biomassa forestale. Ci viene detto che questo è il modo in cui diventeremo più efficienti nella gestione dell’ambiente. Un secondo esempio che rientra nello stesso discorso secondo cui l’intelligenza artificiale ci assiste per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica è relativo al controllo degli incendi, che in futuro saranno uno degli eventi più avversi. Anche in questo caso, l’idea è che, grazie ai droni e all’apprendimento automatico, sarebbe più facile prevedere lo svilupparsi degli incendi e quindi controllarli. Un’altra importante applicazione dell’informatica climatica, come viene oggi chiamato questo campo, è nel settore agricolo. Naturalmente, le industrie agricole saranno colpite dalla crisi climatica e vogliono ridurre al minimo gli effetti deleteri. Come possiamo riuscirci? Creando un inventario in tempo reale attraverso sensori, realizzando una mappatura e poi prendendo decisioni ponderate su questa base. La parola chiave qui è “ottimizzare” le colture. La stessa storia vale per la gestione dell’acqua. Nel mio libro studio un bacino idrografico nella Cina settentrionale che esemplifica queste strategie. Lì hanno utilizzato molte analisi di apprendimento automatico per identificare le connessioni climatologiche e idrologiche presenti, e poi hanno previsto le precipitazioni e il flusso del fiume in relazione ai loro sforzi di gestione delle acque. Si tratta di esempi molto concreti di come l’IA possa essere utilizzata per il clima.

 

Questo tipo di iniziative sono state tradizionalmente definite come “tecnologia verde” o “IA sostenibile”. Ma anche qui lei ha rilevato una contraddizione sul piano discorsivo.

Benedetta Brevini: Abbiamo in effetti definito questo tipo di applicazione “IA sostenibile”. Il problema è che essa non è di per sé una tecnologia verde, quanto piuttosto una tecnologia che ci consente di gestire i problemi legati al cambiamento climatico. Ho seguito, ad esempio, le riflessioni su come ChatGPT potrebbe essere d’aiuto per il clima: può un chatbot che produce tanta disinformazione ed è così incline all’allucinazione, aiutarci davvero? L’argomento, ancora una volta, si concentra sulla raccolta di dati e sulla formulazione di previsioni. Ma è impensabile che gli sviluppatori dell’IA ci credano davvero, viste tutte le limitazioni del chatbot – non è nemmeno uno dei tipi più sofisticati di IA basati sulle reti neurali –, nonché la sua impronta di carbonio. Quindi, trovo davvero problematica l’affermazione che ChatGPT sarà utile per la gestione del clima. Esiste però anche una discussione interna ai gruppi di attivisti per la giustizia ambientale, che vogliono utilizzare intelligenze artificiali come ChatGPT come aiuto nella realizzazione di elementi delle campagne, come i comunicati stampa. Anche questo mi ha davvero sorpreso. Comprendo che possa essere utile per generare testi molto superficiali o per riformulare discorsi e tematiche, ma pensavo che la comunità degli attivisti per il clima fosse un po’ più consapevole della superficialità degli argomenti generati.

 

Per ricollegare questi esempi al tema del populismo, forse possiamo appoggiarci a una definizione eccessivamente semplificata di populismo – ossia un discorso che individua un nemico a sbarrare la via – e chiederci: chi sarebbe il nemico in questo caso? Sono presenti elementi populisti nel dibattito sull’IA sostenibile?

Benedetta Brevini: Ciò che sta accadendo è la creazione – e la costante celebrazione – di un particolare tipo di propaganda, piuttosto che la creazione dell’Altro. Un discorso più populista potrebbe posizionare gli esseri umani come l’Altro e sostenere che dovremmo delegare il nostro processo decisionale politico all’IA perché gli esseri umani sono meno capaci. Ma non è quello che emerge da questi esempi. Quello che noto, piuttosto, è che l’IA ci viene venduta come una soluzione tecnologica alle criticità della forma contemporanea di capitalismo. Ma è solo un modo per spingere sempre più in là tale sistema, il che ha portato al sorgere di questi grandi monopoli tecnologici globali – che io chiamo signori del digitale – che hanno un enorme potere su di noi. Sono loro che hanno preso sempre più il controllo del processo decisionale. L’IA è quindi allineata a questa tendenza, piuttosto che alla creazione di un antagonista. Ha più a che fare con la riaffermazione del tipo di capitalismo che si sta sviluppando in Occidente rispetto all’Oriente e con la riaffermazione del dominio dei signori del digitale.

 

Ma l’Altro può essere astratto. Potremmo considerare il neoliberismo come un discorso populista che indica l’inefficienza del settore pubblico come l’Altro – l’antagonista potrebbe essere personificato da funzionari corrotti o in cerca di rendite, ma in definitiva è una forza astratta. Potrebbe sussistere una dinamica simile nel porre l’IA e la tecnologia come più efficienti degli esseri umani?

Benedetta Brevini: Pensando agli slogan populisti intorno al neoliberismo, concordo sul fatto che i nemici sono sempre chiari. Ma con l’IA siamo in presenza di qualcosa di leggermente diverso. Si tratta di un’idea più legata alla conservazione dello status quo, anche se spinto al limite dalla crisi planetaria che stiamo affrontando. Torno ancora una volta alla nozione di technological fix di David Harvey. Il rimedio viene presentato come un aiuto per superare la crisi, ma in realtà legittima lo status quo in una modalità che vanifica la possibilità di qualsiasi altro immaginario. Quindi, se vogliamo pensare all’Altro, probabilmente sarà l’immagine di un altro tipo di società. Non apprezzo la contrapposizione tra IA e umani, perché credo che ci sia qualcosa di più. Si tratta in realtà di celebrare il sistema in cui ci troviamo attualmente e di vanificare qualsiasi possibilità di immaginare qualcosa di diverso – qualcosa che è necessario per il clima, ma che comporterebbe una completa riorganizzazione dell’attuale forma di capitalismo. Ed è quello che sembra non si voglia fare. Invece di considerare cosmologie alternative – invece di seguire il pensiero indigeno o le argomentazioni degli attivisti latinoamericani sulla giustizia ambientale e la ridistribuzione delle risorse – non facciamo altro che sottrarci a questi cambiamenti.

 

Chi sono gli attori che utilizzano questi discorsi sull’IA e come possiamo identificarne le carenze? Qual è la visione economico-politica che si cela alle loro spalle?

Benedetta Brevini: Osservando questi tecno-immaginari emergenti, vediamo che in realtà vengono proposti da importanti società di pubbliche relazioni che lavorano per i principali sviluppatori di IA. Per quanto riguarda lo sviluppo dell’IA in particolare, persino al di là dei discorsi ecologici, vale la pena ricordare che la competizione è tra due blocchi: gli Stati Uniti contro la Cina, con l’Unione Europea a fanalino di coda. E gli sviluppatori di IA che vincono la corsa hanno tutti sede negli Stati Uniti. Quando si parla di attori, vale la pena ragionare su chi prende effettivamente le decisioni. Yochai Benkler, che non è certo un radicale di sinistra, ha sostenuto che stiamo perdendo l’opportunità di definire e sviluppare l’IA perché è completamente nelle mani delle grandi corporation. Coloro che abbracciano una visione pluralistica della politica potrebbero affermare che i discorsi sull’IA provengono da diverse parti interessate, ma in realtà sono anche finanziati dall’industria – lo dimostrano gli accademici in Europa che redigono white paper sull’IA. È così che i position paper di Google finiscono per essere tanto simili ai discorsi che fuoriescono dall’accademia. Tutto ruota intorno all’etica dell’IA e nient’altro. Vi è un grande allineamento. Se ci interessa sapere chi sta portando avanti un contro-discorso, potremmo guardare ai sindacati. Perché i sindacati sono molto preoccupati per le condizioni dei lavoratori e per il fatto che stanno perdendo il lavoro a causa dell’IA. Probabilmente potrebbero essere loro a sviluppare un tipo di discorso più promettente.

 

Se andiamo oltre la sola IA e pensiamo ai discorsi sull’ecologizzazione delle infrastrutture – che potrebbero essere sia digitali ma anche estrattive –, esistono coalizioni all’interno dei settori del capitale, ad esempio tra Big Oil e Big Tech?

Benedetta Brevini: C’è sempre un legame: le industrie si rafforzano sempre a vicenda. Da un lato, Google e Microsoft – e non Amazon, che è rimasta indietro nel greenwashing – dichiarano di essere carbon-negative, grazie a vari programmi di crediti di carbonio. Ma poi, dall’altro lato, sviluppano applicazioni dell’IA per Big Oil, favorendo questo settore nell’aumentare significativamente i suoi profitti negli ultimi cinque anni. Le grandi aziende tecnologiche sostengono di avere un impatto negativo sulle emissioni di carbonio, anche se contribuiscono a rendere più efficienti i settori del petrolio e del gas. Che cosa significa? Se contribuiscono a renderli più efficienti, significa che le aziende stanno trivellando di più e scavando di più, il che ovviamente va contro ciò che devono intraprendere se vogliono essere ecologici. L’intelligenza artificiale per Big Oil va contro la possibilità stessa di sostenibilità. Sul versante del green tech, c’è un altro nuovo importante concetto: la “transizione gemellare”. Le ultime comunicazioni della Commissione europea sono molto chiare: la rivoluzione digitale e il Green New Deal devono andare di pari passo, sono gemelli. Ma se riteniamo che non ci sia abbastanza critica nel campo dell’IA, ce n’è ancora meno nel campo della green tech. Penso davvero che questa battaglia sia già persa, perché nessuno si chiede mai se il green tech sia effettivamente verde. Il discorso acritico proviene dall’industria, ovviamente, ma anche dai politici. A mio avviso, si tratta di un discorso ancora più populista, ancora più difficile da contestare rispetto a quello portato avanti sull’IA. Il fatto che usino l’etichetta “verde” lo rende impossibile da contestare. È quanto sostiene Chantal Mouffe nel suo ultimo libro: abbiamo bisogno della rivoluzione verde, ma non possiamo permettere che diventi un capitalismo verde. Non potrei essere più d’accordo.

 

Può scomporre il capitalismo verde così come esiste attualmente? Quali sono i costi celati dell’IA? Come ha spiegato, non solo l’addestramento di grandi modelli è costoso dal punto di vista ambientale, ma ci distrae anche dall’affrontare i problemi con modalità politicamente più efficaci.

Benedetta Brevini: Quando esaminiamo il costo ambientale dell’IA, è importante considerare la sua intera catena di fornitura e produzione, nonostante le difficoltà che ciò comporta. Non possiamo misurare l’impatto ambientale totale se non partiamo dal principio. Si parte dal modo in cui estraiamo le nostre risorse, dai metalli. Dove prendiamo il litio necessario per le batterie, ad esempio? Dobbiamo fare i conti con la violenza di cui i Paesi che dispongono di queste risorse sono stati vittime nel corso dei secoli. Guardiamo il Cile, guardiamo quello che sta accadendo in Congo e altrove in Africa. Per la prima volta, la Commissione europea riconosce che abbiamo un problema: nei prossimi dieci anni, la domanda di litio aumenterà del 3.000% solo in Europa. Quali saranno i costi ambientali? Inoltre, prima ancora di arrivare alla fase del consumo, occorre addestrare gli algoritmi. C’è un famoso studio condotto dai ricercatori dell’Università del Massachusetts Amherst, a cui faccio riferimento nel mio libro per contestualizzare le emissioni di carbonio. Cosa significa produrre un modello linguistico che emette circa 284.000 chilogrammi di carbonio? Si pensi che un volo tra Roma e Londra ne produce circa 234 chilogrammi. Eppure ci viene costantemente ripetuto che dovremmo limitare l’uso dei trasporti, nell’idea che i trasporti siano in qualche modo l’unica attività umana che ci conduce a un mondo non sostenibile. La realtà è che il semplice addestramento di un algoritmo è ben peggiore. Poi, dobbiamo considerare i data center: le loro emissioni di carbonio e i loro costi ambientali sono oggetto di un acceso dibattito. Sono queste le emissioni che sono state maggiormente condizionate dal greenwashing delle grandi aziende, che fanno a gara per dimostrare che stanno costruendo data center sostenibili. Però ho dei dubbi sulla loro effettiva sostenibilità. Alcuni sono migliori di altri, ma bisogna ricordare che circa due terzi della rete elettrica mondiale si basa ancora sui combustibili fossili. Quindi, se si ha un data center che sta assorbendo l’elettricità da un luogo qualsiasi del mondo, è probabile che faccia ancora affidamento sui combustibili fossili.

 

Tutto questo fa parte della fase di produzione. Nonostante l’incommensurabilità delle scale tra elementi come i singoli voli e l’addestramento di un algoritmo, è necessaria una maggiore consapevolezza sui consumi?

Benedetta Brevini: Dobbiamo prendere atto che il modo in cui consumiamo è importante. Utilizzare le applicazioni sui nostri cellulari significa utilizzare il cloud e quindi consumare energia. Ma la parte più significativa è la fase finale, ovvero la dismissione della tecnologia. Purtroppo, ancora una volta, le più grandi discariche elettroniche del mondo si trovano tutte in ex colonie o in aree che attualmente costituiscono di fatto “colonie” della Cina. Si tratta di luoghi come il Bangladesh, la Cambogia e il Kenya, dove si trova la più grande discarica per l’elettronica proveniente dall’Europa. Questi Paesi non dispongono di leggi sui danni ambientali, quindi è lì che scarichiamo tutti i nostri rifiuti elettronici. Ma quali sono i costi ambientali di questo trasporto? Quali sono i danni ambientali generati a livello locale? Non li calcoliamo. Al momento, le migliori misurazioni di cui disponiamo sono quelle che riguardano la fase di formazione e le emissioni di carbonio di specifici data center. Difettiamo ancora di una stima dell’intera catena di fornitura. Se non calcoliamo i costi di tutte le fasi, se non esaminiamo ogni parte di questa complessa catena di fornitura e produzione, è molto difficile fare delle valutazioni. È per questo che dobbiamo mettere in relazione i calcoli relativi a tutti i passaggi della catena di approvvigionamento. Tuttavia, solamente osservando i dati in nostro possesso, sappiamo già che bisogna interrogarsi sulla sostenibilità dell’IA nel contesto della crisi climatica. È inaccettabile parlare solo di “IA verde” come modo per gestire la crisi.

 

Partendo dal suo punto di vista sul rischio di guardare le singole parti della catena di fornitura in modo isolato, concentriamoci sull’addestramento dei modelli. Come ha detto, è l’ambito in cui disponiamo della maggior parte dei dati ed è anche un punto di grande interesse in questo momento, dato che molte persone incontrano questi modelli per la prima volta attraverso ChatGPT. Cosa sappiamo sul dispendio energetico dell’addestramento di questi modelli man mano che diventano più sofisticati?

Benedetta Brevini: Onestamente, la raccolta di questi dati è molto complessa. Perché? Perché non sono di dominio pubblico. Nonostante si parli continuamente di Open AI, in realtà il sistema non è aperto. Si tratta di un enorme investimento da parte di Microsoft. La verità è che non sappiamo esattamente come funziona la scatola nera che si cela dietro ChatGPT. Né sappiamo come genera i risultati, perché c’è molta opacità.

 

Nessuno sa, giusto, nemmeno Open AI? È la natura della scatola nera.

Benedetta Brevini: Alcune persone sanno meglio di altre. Ma la cosa interessante è che hanno già calcolato il costo dell’addestramento del GPT-3, il modello su cui ChatGPT è stato originariamente addestrato. È pari a 610 voli tra New York e Parigi. È un consumo di energia davvero considerevole, e sappiamo che il GPT-4 è molto più complesso. Il tutto è solo per l’addestramento. Poi, naturalmente, occorre considerare sia il consumo che i prodotti di scarto. In ogni caso, il presupposto principale è che, ancora una volta, questi algoritmi si riveleranno adatti per lo stesso tipo di gestione delle risorse, per lo stesso tipo di previsione. Ma non ho ancora visto altro in termini di utilizzo per la lotta al cambiamento climatico. Climate Change AI, un gruppo con sede in Canada, ha pubblicato un position paper su come l’apprendimento automatico possa essere utilizzato per la gestione delle risorse. Non hanno ancora trattato ChatGPT, ma probabilmente sosterranno che il suo utilizzo è ancora più efficace per le previsioni. Sono piuttosto scettica al riguardo, poiché dubito della sua accuratezza. Gli scienziati hanno dimostrato che è impreciso a molti livelli. E ancora, non sappiamo su quali dati sia stato addestrato. Come possiamo fidarci delle previsioni di un sistema quando non conosciamo la provenienza dei suoi dati?

 

Può dirci qualcosa di più sul futuro dell’IA destinata ai consumatori? In che modo i conflitti geopolitici, per non parlare dei limiti ecologici, influiranno sul tasso di innovazione di queste tecnologie?

Benedetta Brevini: Osservando la traiettoria del mondo, non credo che ci siamo allontanati molto dal capitalismo coloniale. Ora abbiamo un capitalismo colonialista dei dati, se vogliamo, ma le eredità coloniali del passato rimangono, soprattutto per ciò che concerne l’IA. Sappiamo perfettamente che il 99% di queste applicazioni non può essere utilizzato in luoghi dove mancano le infrastrutture. La mancanza di infrastrutture nelle ex colonie del “Sud globale” rappresenta un problema enorme, ma pare che non ne prendiamo nemmeno atto in questa corsa agli armamenti per conquistare l’IA. La Commissione europea, parlando di transizioni gemelle, ha finalmente notato che potremmo avere un ulteriore piccolo problema con l’impatto ambientale di queste tecnologie. Questa, per me, è stata una grande vittoria. Di solito ci focalizziamo soltanto sul problema delle risorse. Ma, allo stesso tempo, pare che non ci facciamo problemi a richiederne di più. Saremo in grado di continuare a produrre al ritmo necessario? Sappiamo che il Donbass è una regione importante per la produzione di litio: purtroppo possiamo aspettarci che le guerre continueranno ad essere generate dall’esigenza di accumulare risorse. Ci saranno continui conflitti per il controllo e lo sfruttamento di queste risorse. Seguo con grande interesse quanto sta accadendo in Cile, perché per la prima volta è sorto un movimento che tenta di proteggere queste risorse. Provano a evitare che le grandi imprese ne acquisiscano il controllo. Ma alla fine credo che manterremo le stesse tendenze che hanno costruito questo capitalismo dei dati, questa tecnocrazia, lasciando fuori il Sud globale. Fino a quando potrà continuare? Spero che la crisi climatica, con i suoi incessanti eventi atmosferici, ci porti a riflettere. Ma finora non ho riscontrato nulla. Abbiamo meno di dieci anni, come ha ribadito il recente rapporto dell’IPCC, per mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5ºC. Se non agiamo nei prossimi cinque anni, perderemo questa occasione. Di certo non vedo l’IA come soluzione a questo problema. La soluzione è riorganizzare la gestione delle risorse e il funzionamento del capitalismo. Ma questo richiederà una volontà politica che sembra essere assente nel Nord globale.

 

Quali sono le alternative alla logica soluzionista e capitalista? È necessario uno sforzo decentralizzato, guidato dalla comunità, per spostare la tecnologia in un assetto completamente diverso?

Benedetta Brevini: Personalmente, credo ancora nel ruolo del settore pubblico. L’idea di sbarazzarsi completamente di un assetto capitalistico nei prossimi sette anni mi sembra molto ardua, quindi cerco di essere più pragmatica. La sinistra ha spesso faticato a capire come rispondere al neoliberismo e al capitalismo. Se reimmaginassimo questo tipo di tecnologie nell’interesse pubblico – con l’emergenza climatica al centro di ogni decisione sulla tecnologia – faremmo già molti progressi. La tecnologia ha ancora la possibilità di essere concepita in modo diverso. La Seconda guerra mondiale ha cambiato il modo in cui vediamo la tecnologia, e le mitologie sono state solo accelerate dallo sviluppo del capitalismo della sorveglianza e del capitalismo dei dati – che però dà segnali di disfunzionalità. Dobbiamo ammettere che la crisi climatica non si affronta con l’adozione dell’intelligenza artificiale, ma con l’interruzione dell’estrazione dei combustibili fossili. Questa, a mio giudizio, è la più grande emergenza dei prossimi cinque anni. Poi possiamo passare alle idee provenienti da diverse cosmologie. Una delle più interessanti è l’idea di custodia, che associo alle comunità aborigene e maori. Essere custodi della natura significa vivere con essa, non sfruttarla. Abbiamo assistito a sviluppi stimolanti anche a livello delle comunità locali e delle città. È qui che si colloca gran parte del pensiero influenzato dalle cosmologie della custodia, oltre che dalle prospettive latinoamericane che trovo molto promettenti. Una grande coalizione di città che cerca di affrontare questi interrogativi a livello locale sarebbe un buon passo. Tuttavia, dobbiamo prima affrontare la questione più grande e più urgente: non possiamo continuare ad avere un’economia basata sui combustibili fossili. Semplicemente non riusciremo a raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. E una volta superata l’ormai famosa soglia di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, il rischio di eventi climatici estremi, che causano morte, sfollamento e povertà per milioni di persone a livello globale, è destinato ad aumentare notevolmente. Per evitare tutto ciò, abbiamo bisogno di un solido processo decisionale a livello globale. Abbiamo le tecnologie per farlo. Possiamo usare l’energia degli oceani o l’energia solare. Possiamo affrontare la questione dello smaltimento dei pannelli, ma dobbiamo iniziare lasciando i combustibili fossili nel sottosuolo. Non possiamo abbracciare un soluzionismo climatico che sappiamo già essere insostenibile. 

Scritto da
Ekaitz Cancela

Giornalista e saggista. È redattore e curatore di «The Syllabus». Il suo principale campo di studio è l’intersezione tra la logica del capitalismo e lo sviluppo tecnologico. È autore di: “Utopías digitales” (Verso 2023) e “Despertar del sueño tecnológico” (Akal 2019) e collabora regolarmente con la stampa spagnola.

Scritto da
Evgeny Morozov

Sociologo, giornalista e saggista. È fondatore e editore di «The Syllabus» e scrive regolarmente per testate di tutto il mondo. Il suo principale campo di studio sono le implicazioni sociali e politiche delle tecnologie dell’informazione e dell’innovazione tecnologica. È autore di: “L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet” (Codice 2019), “Ripensare la smart city” (con Francesca Bria, Codice 2018), “Silicon Valley: i signori del silicio” (Codice 2017), “Internet non salverà il mondo” (Mondadori 2014) e di numerose altre pubblicazioni.

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