“Ancora un momento” di Edgar Morin
- 13 Maggio 2024

“Ancora un momento” di Edgar Morin

Recensione a: Edgar Morin, Ancora un momento. Testi personali, politici, sociologici, filosofici e letterari, Raffaello Cortina, Milano 2024, pp. 160, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Comes

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L’ultimo testo che Edgar Morin ci lascia in eredità, intitolato Ancora un momento e edito da Raffaello Cortina, raccoglie un interessante intreccio di temi e argomentazioni esito della «inseparabilità tra vita, pensiero e opera del loro autore» (p. 7)[1]. Un libro complesso, si potrebbe dire, perché strutturato intorno all’idea stessa di complessità sviluppata da Morin, indicante un insieme eterogeneo di elementi che trovano senso all’interno di una relazionalità reciproca[2]. Così, le riflessioni autobiografiche si fondono con altre di carattere politico, filosofico e culturale in senso più generale, come esplicitato sin dal sottotitolo, delineando un percorso che invita il lettore a riflettere su avvenimenti e tematiche della storia passata e contemporanea in una chiave decisamente originale.

In tal senso, il libro costituisce un ottimo compendio al cui interno è possibile rintracciare alcuni tra i temi cardine della riflessione di Morin: l’idea di coscienza, l’ecologia, il socialismo, la nozione di metodo, l’educazione alla complessità, l’idea di un nuovo umanesimo. Un pensiero assai acuto che, seppur incarnato in una vita lunga più di un secolo, non smette di provare meraviglia di fronte all’esistente ed essere perciò profondamente fecondo. Proprio nella meraviglia, suggerisce implicitamente Morin, sembra si nasconda il segreto per una vita longeva. Grazie al suo portato emotivo, essa rende possibile un’apertura sensibile al mondo in grado di arricchire tanto la vita quanto il pensiero. Quell’antico stupore che già Aristotele poneva alle origini della filosofia viene ripreso da Morin sin dalle pagine iniziali del suo libro ed espresso in una serie di interrogativi dai quali la riflessione prende avvio.

È sempre grazie alla meraviglia, ad esempio, che possiamo cogliere quelle «emergenze» il cui unico nome è «Vita» (p. 37), vale a dire quegli imprevedibili elementi esito di combinazioni altrettanto imprevedibili che costituiscono la trama della complessa organizzazione del nostro mondo interno ed esterno. Tali emergenze sono la ragione per cui, solo per citare un caso, per quanto un semplice batterio possa essere composto da molecole fisico-chimiche, «la sua complessa organizzazione» finirà per produrre «attività quali l’autoriproduzione, l’autoriparazione, la nutrizione, la cognizione, che sono proprietà emergenti […] non attive né visibili a livello puramente molecolare» (p. 37). Se dal mondo esterno ci spostiamo a quello interno, è possibile osservare quanto la stessa «coscienza è l’emergenza di un’emergenza». Ora, così come un fenomeno emergenziale non può esser dedotto dagli elementi che lo costituiscono, allo stesso modo sia la cognizione che la coscienza non possono essere dedotte sic et simpliciter dalle attività cerebrali che le producono. Un aspetto, osserva Morin, spesso dimenticato da alcuni neuroscienziati che tendono a ricondurre la coscienza ad operazioni tra neuroni. La coscienza allora non può essere banalmente “spiegata”, ma piuttosto osservata. Essa emerge in determinati momenti, allorquando la «cognizione si trasforma in attività riflessiva, quando la mente guarda se stessa agire» (p. 38). La nozione di autoreferenzialità diventa quindi secondo Morin la strada privilegiata per accedere alla coscienza di sé, rompendo al tempo stesso con interpretazioni intuitive e deduttive del cogito. Ecco allora che «la coscienza di sé è prodotta da un dispositivo autoreferenziale che porta, in un ciclo continuo, dall’Io oggettivo all’Io soggettivo (e viceversa)» (p. 40). È importante qui sottolineare tale circolarità dell’Io per non ricadere nella visione cartesiana dell’ego, secondo cui il soggetto è presentato come realtà meramente oggettiva dell’«io penso».

Un’idea di soggettività, quella cartesiana, sulla quale Morin ha a lungo riflettuto in termini fortemente critici, assumendo posizioni teoriche divergenti anche rispetto alle correnti maggiormente dominanti all’interno delle scienze sociali francesi, quali il poststrutturalismo e l’antisoggettivismo di matrice foucaultiana. Ciò che il cogito cartesiano non contempla secondo il filosofo francese è la sua intrinseca relazionalità con il mondo dalla quale esso stesso emerge. «Penso il mondo e penso me stesso in modo inseparabile» (p. 40), ribadisce Morin, la cui idea di soggetto, secondo la prospettiva della complessità, si articola quindi attraverso un duplice movimento che dall’egocentrismo porta all’apertura verso un Noi, cioè ad una dimensione collettiva. «Ogni essere vivente dispone, così, delle qualità di soggetto sia antagoniste sia complementari: l’egocentrismo (la cura di sé e della propria sopravvivenza) e l’altruismo (la cura degli altri e della loro sopravvivenza)» (p. 42). Una simile dinamica sembra riscontrabile finanche nella vita del batterio prima citato, nella misura in cui egli è contemporaneamente per sé e per l’altro, si autoafferma e lo fa cooperando anche con altri batteri[3].

Posta in questi termini la questione, Morin giunge a concludere che non può esserci soggettivazione senza porre una comunità di soggetti e di altri esseri viventi. Si tratta allora di riscoprire una dimensione comune, quella che già in Terra-Patria egli chiamava «comunità di destino». Ciò comporta una definitiva presa di coscienza rispetto alla reciproca dipendenza non soltanto degli umani tra loro, ma anche rispetto al loro involucro originario: la Terra[4]. Un compito che riguarda tutta l’umanità senza alcuna distinzione dal momento che «la globalizzazione, con le sue possibilità e soprattutto i suoi pericoli, ha creato una comunità di destino per tutti gli umani. Dobbiamo affrontare, tutti, il degrado ecologico, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’egemonia della finanza sui nostri Stati e i nostri destini, il crescere di fanatismi ciechi, il ritorno della guerra in Europa». (p. 91). Ciascuno di noi è chiamato ad una seria presa di coscienza complessiva affinché i grandi problemi siano finalmente trattati su scala globale, dando vita a quel cambio di strada e quindi di vita auspicato da Morin in uno dei capitoli centrali del libro.

Ad esser chiamata in causa dal filosofo francese è perciò la politica, da troppo tempo subalterna ad un’economia di mercato capitalistica che ha finito per diventare di fatto la suprema lex di ogni relazione umana, ma anche del rapporto tra uomo e ambiente. Fautore di una visione antropologica incentrata sull’atomismo sociale e di una logica di sfruttamento illimitato delle risorse, il capitalismo ha fatto sì che la categoria di sviluppo fosse eletta a obiettivo primario della vita umana. Così è accaduto che quei ritmi necessari a garantire un equilibrio vitale tanto nelle dinamiche umane quanto naturali venissero alterati. Per questo è necessario che la politica riacquisti centralità nella gestione della res publica, incentivando «forme di solidarietà locali» o istituendone di nuove, «come la creazione di case della solidarietà nelle piccole città o nei quartieri delle grandi città» (p. 90). Questo stimolerebbe la convivialità, «bisogno umano primario, che inibisce la vita razionalizzata, cronometrata, votata all’efficienza». Affinché ciò avvenga, è però necessario ripensare anche lo spazio urbano entro cui si svolgono le nostre vite, cercando di superare quella dicotomia tutta moderna tra città e campagna. L’urbanizzazione dominata dal paradigma dello sviluppo economico ha generato infatti «l’ingrandimento delle città con la creazione di sobborghi, periferie, ghetti e bidonville», per non parlare poi della «desertificazione delle campagne, ma anche lo sviluppo di una agricoltura e di un allevamento industriali, massivi ed estensivi, di cui si possono già misurare gli effetti nocivi per la salute umana» (p. 123). Per ristabilire un possibile equilibrio è indispensabile allora che le nostre città diventino sempre più umane ed ecologiche prediligendo un’architettura attenta alle sfide ambientali e forme di economia circolare.

Per altro verso, uno sviluppo qualitativo della vita non può essere disgiunto dal tipo di alimentazione che si conduce. Come non ricordare in tal senso il celebre aforisma del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach secondo cui «l’uomo è ciò che mangia». Un tema a cui Morin dedica uno specifico paragrafo intitolato Sul degrado della nostra alimentazione, ma che è presente pure nelle pagine iniziali, dove il filosofo parla della sua dieta come uno dei fattori concorrenziali alla sua longevità – così come anche nel corso del paragrafo Per una politica della città e della campagna. L’invito formulato è di abbandonare o quantomeno ridurre l’alimentazione a base di prodotti industriali che richiedono l’uso di sostanze nocive a vario livello tanto per l’uomo quanto per l’ambiente. A questi sono da preferire materie prime provenienti da un’agricoltura diretta, alimenti «della filiera corta», il cui consumo andrebbe sostenuto e implementato. «Quello che deve crescere è l’utile e il pulito; quello che deve decrescere è l’inutile e il malsano» (p. 121). Certo, Morin è consapevole dell’impossibilità di riconvertire in un colpo solo un’agricoltura e un allevamento industriali retti dal profitto in un’agricoltura e in un allevamento agroecologici. «La deindustrializzazione della nostra alimentazione sarà progressiva» (p. 121), ma è importante che vi sia una forte volontà politica di migliorare la situazione e che ciò si traduca in decisioni concrete.

Eppure, «non potranno esserci riforme urbane e rurali, riforme sociali ed economiche, riforme politiche e educative senza riforma etica» – lì dove per etica Morin non intende certo «semplici lezioni di morale» (p. 140). L’etica ha piuttosto a che fare con «una riforma del pensiero e, dunque, una riforma dell’educazione al fine di apprendere problemi al tempo stesso fondamentali e globali». Vengono a questo punto riprese alcune riflessioni sviluppate in testi come Insegnare a vivere (2015), I sette saperi necessari all’educazione del futuro (2001) e La testa ben fatta (2000). Considerazioni dalle implicazioni pedagogiche e didattiche che fanno tutt’uno con questioni di carattere più filosofico. Ad essere additato da parte del filosofo francese è l’attuale sistema educativo, diviso in compartimenti stagni e strutturato attorno ad una logica che separa le conoscenze invece di collegarle. Abbiamo puntato ad un’iperspecializzazione, perdendo di fatto la conoscenza complessiva. Un tema, questo, già presente nella riflessione fenomenologica di Husserl, non a caso citato esplicitamente da Morin. Manchiamo in altre parole di una formazione orientata alla complessità, volta cioè a cogliere la simbiosi, la sincronia e la confluenza dei vari saperi.

È questa la strada per «la nuova via», un progetto davvero radicale nelle intenzioni del filosofo, che egli non esita a definire «nuovo umanesimo». Un pensiero che può trovare un valido contributo nel pensiero di quei «postmarrani» come Montaigne, Cervantes, Spinoza e Shakespeare, citati come testimonianza di un pensiero libero, laico e apertamente comunitario, ma anche come intellettuali la cui vita non può essere disgiunta dal loro pensiero. È questa l’occasione da parte di Morin per riflettere anche sulla missione attuale degli intellettuali, i quali avrebbero il compito e la responsabilità di farsi veicolo di tale riforma del pensiero. È a questa figura, quella dell’intellettuale, di cui attualmente non sappiamo quale sia la funzione, che Morin dedica uno specifico paragrafo stilando un decalogo volto a raccogliere i punti essenziali di quella che sembra essere a tutti gli effetti una “missione” intellettuale. A costoro, ma non solo, spetta il compito di riattivare la speranza in un futuro migliore. Una speranza che non si iscrive più in un quadro messianico, rivolta cioè alla fine, quanto piuttosto il contrario: «la speranza coraggiosa della lotta iniziale» (p. 108). Questa forma di speranza «ha bisogno di ristabilire una concezione, una visione del mondo, un sapere articolato, un’etica».


[1] Sulla stretta relazione tra vita e pensiero si veda Edgar Morin, L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera, a cura di Francesco Bellusci, Raffaello Cortina, Milano 2015.

[2] Cfr. Edgar Morin, La sfida della complessità, a cura Annamaria Anselmo e Giuseppe Gembillo, Le Lettere, Firenze 2017.

[3] Il tema della coscienza è ampiamente discusso in Il metodo 6. Etica, Raffaello Cortina, Milano 2005; lì dove il discorso sulla soggettività è affrontato ne Il metodo 2. La vita della vita, Raffaello Cortina, Milano 2004.

[4] Cfr. Edgar Morin e Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano 1994.

Scritto da
Enrico Comes

Dottorando in Filosofia nell’ambito del dottorato interdisciplinare “Immagine, linguaggio, figura: forme e modi della mediazione” presso l’Università di Milano. Si occupa, inoltre, di marketing elettorale e comunicazione politica. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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