Scritto da Peppe Provenzano
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Questo testo è stato scritto come introduzione ad un nuovo libro di Emanuele Macaluso, appena uscito per Castelvecchi, che raccoglie un anno di note e pensieri pubblicate sulla pagina “EM.MA. in corsivo”, uno spazio quotidiano di discussione sulla politica, italiana e mondiale. Per gentile concessione dell’editore e di Giuseppe Provenzano, autore di questo testo e curatore, insieme a Sergio Sergi, del volume, lo pubblichiamo, in esclusiva per il web, nel giorno dell’uscita in libreria.
Introduzione a: Emanuele Macaluso, La politica che non c’è. Un anno di em.ma su facebook, a cura di Giuseppe Provenzano e Sergio Sergi, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 192, 16,50 euro.
Andavamo a prendere l’acqua al pozzo. Ma lo avremmo capito solo dopo, quando Emanuele Macaluso ci regalò, alla fine del suo libro su Togliatti, quella frase bellissima, commovente, poi ripresa da molti: un proverbio cinese, che vale per la politica non meno che per la vita di ogni giorno, e dice che “chi prende l’acqua da un pozzo, non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato”. In piena furia rottamatrice, nei giorni dell’illusione spacciata a buon mercato che si potesse fare tabula rasa della storia, si prestò giustamente attenzione soprattutto al non dover dimenticare. Ma chi ha consuetudine con Emanuele Macaluso – e non dico solo con la sua persona, ma anche solo con le sue parole, il suo pensiero – può facilmente capire che il primo bisogno che s’avverte non è tanto quello di non dimenticare (sarebbe peraltro impossibile), ma è quello di andare ancora al pozzo, ancora all’acqua. Io, Sergio Sergi, e chissà quanti altri, non avevamo smesso di andarci. Ognuno con le sue ragioni, la sua speciale sete. A un certo punto, in quell’andare, mi è parso di ritrovare moventi che non erano solo miei. Mi è parso di vederli nell’attenzione, nella curiosità che un uomo come Macaluso, con la sua vita e le sue idee, suscitava in tanti miei coetanei, e anche più giovani di me, interessati alla politica, a una certa idea della politica, in occasione dei suoi discorsi pubblici, delle interviste che rilasciava, dei suoi sempre più radi interventi sulla stampa. E li ricordo specialmente nella straordinaria occasione del suo novantesimo compleanno. Non era solo l’ammirazione, o magari la pièta, per una senectute tanto attiva e accesa di passione. No, era un interesse politico vivo, attuale. Su cui forse non sarebbe valsa la pena di interrogarsi troppo se fosse stato circoscritto, pur col suo valore, a coloro che hanno condiviso o fronteggiato la sua straordinaria militanza in un grande mondo antico: i compagni o gli avversari interni ed esterni alla sua parte, e quest’ultimi mossi da un legame particolare con la sua umanità ed il suo stile, mai scomparsi dietro la scorza dura del combattente politico e del polemista. Tutta quell’attenzione, il consenso o il dissenso sul suo racconto e le sue opinioni – e la gran vita, generosa di formidabili aneddoti – si coglieva nel campo, politico e tecnologico, dei trentenni e dei ventenni di oggi. Ho visto spesso i suoi ragionamenti politici rimbalzare sui social network, facendo registrare sommovimenti negli imprevedibili fenomeni magmatici del web. Confesso, con qualche pudore, che a volte mi sono sentito un privilegiato, per avere tanto spesso l’occasione di interrogarlo sull’ieri e sul domani, di ascoltare i suoi racconti, le sue opinioni e anche le sue freddure sulle cose, gli uomini e i mezz’uomini della politica, e della sinistra. E diventava sempre più forte la voglia di condividere quel privilegio, nella penuria di luoghi pubblici di confronto politico, e soprattutto di trasmissione anche tra generazioni. È nata così, incrociando quello che stava maturando per parte sua un amico di un’altra generazione, quella di mezzo, Sergio Sergi, l’idea di una pagina su facebook. Uno strumento agile e, come si direbbe, senza impegni: certo non pensavamo che Macaluso avesse voglia di scrivere davvero tutti i giorni… Soprattutto, uno strumento a portata di molti amici e compagni, dispersi e ritrovati, di tante stagioni politiche ed età. Quando Emanuele ha accettatovi ho visto non soltanto quell’insopprimibile bisogno di esprimersi di cui parla qui, ma anche la voglia di stabilire una connessione quotidiana con un pezzo di società, e soprattutto con i più giovani. Ma ci tornerò alla fine su questo tema, che mi pare essenziale, del rapporto tra le generazioni. Intanto, cos’è questo libro?
La raccolta di un’ampia selezione di corsivi, note, graffi, battute e pensieri di em.ma ha una data di inizio su cui forse andrebbe la pena di fermarsi un momento: il 15 di gennaio del 2015. È il giorno dopo delle dimissioni di Giorgio Napolitano da Presidente della Repubblica. Non che l’alto incarico dell’amico e compagno di tante battaglie (e occasioni mancate) abbia mai impedito a Macaluso di esprimere in libertà e autonomia le sue opinioni: del resto, solo uno sciocco può pensare che i sodalizi politici, in quel partito e tra dirigenti di quella levatura, avessero qualcosa a che fare con le cordate personali e i miseri opportunismi che dominano le vicende interne dei partiti d’oggi, anche a sinistra. E solo gli imbecilli, o quelli in malafede, e peggio quando le due cose coincidono, hanno pensato che Emanuele Macaluso prendesse la parola in pubblico, in quegli anni, come “portavoce” del Colle. Eppure, la coincidenza delle date ci dice qualcosa: ci dice della voglia di Macaluso di fare della sua pagina facebook uno spazio di piena e assoluta libertà. E dove trovereste la libertà, e anche il coraggio, nel nostro paese, di aprire un discorso della sinistra riformista, come fa in quel primo corsivo, con queste parole, «la lotta di classe non va mitizzata, ma nemmeno archiviata»? Da lì, in dodici mesi di scritti, si sviluppa una trama che, nella straordinaria varietà di sguardi e interessi, che spero il volume restituirà al lettore (non solo la grande, piccola e infima politica, ma ricordi, letture, impressioni sul costume e la società), si può raccogliere intorno ad alcuni nuclei tematici. È quello che abbiamo fatto in questo libro, senza alcuna pretesa di esaurire, nell’argomento individuato, il pensiero di Macaluso, che peraltro ha avuto modo di esprimere negli ultimi anni nei suoi numerosi saggi e interventi. Qui, inevitabilmente, è la frammentarietà di un discorso che nasce giorno per giorno, sulla base di quel che accade e di quel che non accade, di quello che em.ma legge sui giornali e, soprattutto, di quello che non vi legge. Tuttavia, consapevole di questa avvertenza, non è da escludere che il lettore possa ricavare, da questi quotidiani frammenti, una certa compiutezza.
È “il sonno della politica”, per richiamare il testo di un suo corsivo, la preoccupazione più grande di Macaluso, il deperimento delle conquiste democratiche, frutto di quelle lotte difficili, che lo videro partecipe e protagonista in tutta una vita, e costate la vita di tanti amici e compagni. L’assillo di em.ma non è la fine ma la mancata ricostruzione di una decente democrazia dei partiti, sostituita da un sistema ancora più permeabile al potere economico e politico di classi dirigenti che, nella storia lunga del nostro paese, sono state espressione di interessi particolari, di “circoli” e “santuari” (per richiamare il titolo di un altro libro di Emanuele pubblicato da Castelvecchi, un giallo, un “racconto a chiave”), e che «separate dal popolo o contrapposte al popolo» agiscono per ostacolare il protagonismo e gli interessi democratici. È il problema irrisolto della costruzione del nostro Stato, del funzionamento delle sue istituzioni, che avevano acquisito una diffusa, per quanto debole, legittimazione solo grazie alla grande opera di alfabetizzazione democratica dei grandi partiti di massa. Un problema ora aggravato dall’indebolimento della politica, da partiti privi di una forte militanza, di una struttura e di una visione della società in grado di influenzare i propri eletti, che sono sempre più esposti – in conseguenza del processo di personalizzazione, in campagne elettorali dominate e determinate da denaro e media (e, quindi, di nuovo denaro) che si svolgono nella crescente disaffezione popolare e minore partecipazione – al condizionamento del potere economico e finanziario. Poteri grandi e piccoli che fanno consorteria, “circolo”, sono “forti” a fronte di un potere politico sempre più debole:talvolta si chiamiamo lobbies, talaltra “comitati d’affari”, sono le cronache ricorrenti degli ultimi anni, e ancora di questi giorni. Sono novelli “santuari” che di fronte all’abdicazione dei partiti alla funzione di formare e selezionare una classe dirigente, non solo influenzano gli orientamenti, ma addirittura la stessa composizione degli eletti, approfittando del potere di nomina in mano a pochi o di meccanismi “democratici” come le primarie senza regole, dove a votare è anche il primo che passa. L’indebolimento del sindacato, la sua divisione o la sua deriva antagonista, è l’altro pilastro che viene meno della costruzione democratica a cui lui, e uomini come lui, hanno contribuito. em.ma vi dedica un’attenzione speciale, assai rara al tempo in cui un premier, che si dichiara di sinistra, può affermare con una generalizzazione strumentale che “fa più Marchionne per i lavoratori di certi sindacalisti”. Il sindacato va cambiato, dice Macaluso, non rottamato: e indica una direzione da seguire per ritrovare una funzione in un mondo del lavoro e in una società cambiate, e in continua trasformazione, ma dove l’interesse dei lavoratori non solo esiste ancora, ma rispetto alla vasta scala del conflitto ha bisogno ancor più di un’autonoma e forte rappresentanza.
È in questo stato della democrazia, italiana e non solo, nell’intreccio perverso tra crisi socio-economica e crisi politica, che em.ma colloca la crisi, il sonno della sinistra. A partire da un PD che è sempre “al capolinea” (come scrisse per Feltrinelli, al tempo della sua fondazione) e pertanto sempre più distante dall’obiettivo di rappresentare un partito vero, di una vera sinistra di governo. E non solo perché non risolve ma amplifica i limiti e i difetti dei partiti da cui è scaturito, ma soprattutto perché non riesce a superare il problema che ha minato le esperienze di governo della sinistra nella cd. Seconda Repubblica, e cioè la mancanza nella coalizione di «un vero, forte, grande partito». Il PD, come em.ma scrive con insistenza, non senza asprezze e diverse “spigolature”, è privo di una base politico-culturale capace di orientare il cambiamento della società, somiglia in alcune aree del paese a una coalizione di aggregati diversi, di cordate e persone in conflitto fra loro, in quelle primarie pasticciate che, «come su un ottovolante», gli fanno venire le vertigini. Nel renzismo, che Macaluso per primo ha definito “declinante” (seppure nel vuoto di alternative), non solo non vede soluzioni al problema italiano ma, nella esplicita volontà di completare la distruzione delle forze sociali organizzate, un certo suo aggravamento. E, per quel che riguarda il ruolo della sinistra, malgrado l’adesione al socialismo europeo del Pd di Renzi (un passaggio quasi burocratico, e non quel momento davvero fondativo, dunque anche di vera lotta politica, soprattutto a fronte della crisi di identità e funzione che in tutta Europa esso sta vivendo), em.ma teme possa esservi una sostanziale separazione di destini. È un partito “saldamente ancorato al centro”, il cui profilo è reso ancora più ambiguo dalla crisi della destra e dall’incalzare del populismo, che ha spezzato il legame, che poteva essere ancora fecondo, come accade altrove, con le diverse storie politiche da cui ha avuto sbocco. Ma qui è il punto forse più originale della lettura di em.ma: in Renzi non vede la discontinuità, la rottura che i “rottamati” denunciano. Quando vinse Renzi e i giornali titolarono È finito il PCI, Il bambino si è mangiato i comunisti, Macaluso fu uno dei pochi a sorriderne e, con un misto di sarcasmo e amarezza, a dare una risposta delle sue: “la notizia è datata”. em.ma vede in Renzi il frutto maturo del PD, che ha risolto in un verso le profonde ambiguità che avevano caratterizzato la sua nascita (altro che “spirito originario”…), il punto di caduta della sequela di errori politici – a partire dalla liquidazione del modo di essere partito e della parte migliore della storia della sinistra italiana – già commessi proprio dagli eredi, figli prodighi di quella storia (di questo ha discusso con Peppino Caldarola, in un bel libro dal titolo Politicamente s/corretto). Ed è forse la ragione di fondo per cui oggi, a em.ma, la minoranza interna appare in disarmo, priva di un progetto complessivo alternativo da contrapporre al premier, senza vere alleanze sociali, ridotta spesso nella schermaglia interna e parlamentare a far la parte – poco lusinghiera, in verità – della “minoranza degli emendamenti”. In ogni caso, Macaluso non si augura la dissoluzione di un partito che gli appare, tutto sommato, “il meno peggio”, ma auspica (e fornisce argomenti per) una «crisi virtuosa», che possa rinsanguare la vena aperta della sinistra italiana e riesca a dare risposta alla domanda su che cosa dev’essere «un partito oggi, nella società di oggi». Non vi è l’ombra della nostalgia, in questo, perché è cronaca di tutti i giorni, locale e non solo, il degrado della vita democratica e civile dovuto proprio alla mancanza di un solido sistema dei partiti che organizzi il popolo.
Già, il popolo. E cosa c’è di più popolare, oggi, di facebook, dove milioni di italiani navigano con le loro vite, chi lavora e chi non fa altro che questo, nei giorni di sole e di tempesta? Il popolo è il riferimento che sempre torna negli scritti di em.ma. Chi fa politica con il popolo, chi lo organizza? Chi lotta con il popolo, dove Macaluso vede un crollo verticale della cultura politica (nelle manifestazioni di sostegno ai mafiosi) ma anche un capitale morale (nelle famiglie e nei paesi che reagiscono con umanità e dignità ai drammi dell’oggi: le migrazioni e il terrorismo) di cui la sinistra non può fare a meno? Se nessuno parla e vive con il popolo (o se a parlare al popolo restano solo i comici… memorabile il post sul «fenomeno Zalone») allora davvero non v’è alternativa al populismo, davvero la sinistra è destinata a fallire. È nel popolo la radice salda del riformismo di Macaluso, del suo “migliorismo”, che qui rivendica, nella serrata ma affettuosa polemica con Claudio Petruccioli (“Caro Claudio, io sono sempre stato e resto migliorista”), nella dura critica alla cosiddetta sinistra radicale, dei fuorusciti dal Pd e degli altri (che vogliono rifare la sinistra con de Magistris…), il cui unico obiettivo, alle regionali in Liguria (nella quali sì, em.ma si sarebbe “turato il naso”) come alle amministrative, sembra quello di far perdere il centrosinistra: insomma, il riaffiorare di quel massimalismo (stavolta senza popolo) che nella vita ha sempre combattuto. Perché al popolo, e soprattutto alla sua parte più debole, non giova il “tanto peggio, tanto meglio”: il suo migliorismo è «la battaglia quotidiana per il graduale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori», appresa negli anni delle lotte contadine e sindacali in quella Sicilia e in quel Mezzogiorno formidabili del dopoguerra che ora sembrano scomparsi dall’orizzonte della politica e della sinistra (e numerosi corsivi sono dedicati proprio a questo). Il suo migliorismo è pratica politica, misura dei rapporti di forza, non è tanto il frutto di quella revisione ideologica verso il liberalismo, operata da molti altri, a sinistra: alcuni con rigore e serietà, altri con la solerzia dei novizi, con la frenesia di quei tizi per cui il miglior modo di prendere un treno è perdere il precedente. Del resto, a Macaluso non servivano ideologie per sposare una cultura dei diritti che ha a che fare con la sua stessa vita, con le passioni e il temperamento forse del più eretico, del più tollerante, e del meno bigotto dei togliattiani (le sue posizioni sui “diritti civili” parlano da sé). I diritti e la giustizia, da sottrarre ai pericoli dei giustizieri, con la franchezza e la ruvidezza che può permettersi soltanto un campione dell’antimafia: di quella vera, non quella parolaia dei professionisti, di quella che arrivava allo scontro fisico nelle occupazioni delle terre coi gabelloti mafiosi. E perciò garantista fino al midollo, come chi conosce davvero la giustizia italiana (e gli apparati repressivi, e la galera), con la stessa ispirazione sciasciana, fedele sempre al “né mafia né Mori” del suo Girolamo Li Causi. Sono le parole a fare la differenza in Macaluso, quel chiamare le cose col loro nome, che dimostra come si può essere politici “concreti” senza rinunciare a una fortissima tensione ideale, che testimonia come il riformismo non è sinonimo di moderatismo, e può essere persino il suo contrario. E a proposito, ai miglioristi oggi renziani che vedono in Renzi il “vindice” della loro storia non gliele manda a dire: migliorista chi?
No, non si scherza con la storia. Il pozzo ha ancora la sua vita e non è un buco nero in cui tutto si confonde e scompare. È proprio questa “rottamazione della storia” che em.ma non riesce a tollerare. E allora gli tocca riavvolgere il filo, e lo fa soprattutto raccontando ulteriori capitoli della sua antologia di “libri di vite” (avrebbe detto Croce): personaggi grandi e piccoli, e tutti importanti perché hanno contribuito a scavare il pozzo – della democrazia italiana, e della sinistra. Da Pietro Ingrao – a cui dedica parole speciali e rivelatrici (del modo d’essere di certi dirigenti politici, e certamente di entrambi), nell’anno del suo centenario e della sua morte – a Cossutta, da Pompeo Colajanni agli altri siciliani, ai “funzionari” Fernando Di Giulio e Giovanni Berlinguer. E nel pozzo c’è ancora una capacità di guardare al mondo (la sua prima preoccupazione, oggi), alle sue contraddizioni e tragedie, c’è una lettura del capitalismo e delle disuguaglianze, c’è la guerra e la pace, l’anima della sinistra. Machiavelli nei Discorsi dice che “a volere che una religione o una repubblica viva lungamente è necessario ritirarla spesso verso il suo principio”. Lasciamo perdere il parallelo, assai fecondo, con la religione, con un Papa che si rifà a Francesco, quel Francesco che, per il segretario fiorentino, salva la Chiesa riportandola ai suoi principi. Nel pozzo politico di Macaluso si trovano quei principi, da prendere con una costante opera di distinzione tra “ciò che è vivo da ciò che è morto”. Ed è quello che Macaluso invita a fare, soprattutto ai giovani, in questo “tempo della semina”, mettendo in guardia dalla tentazione nuovista, come se dall’arida terra desolata senza di storia si potesse guardare al futuro con una “testa nuova” (avrebbe detto Vittorio Foa). A volte, invece, aveva già avvertito em.ma, le teste “pensano al nuovo, anzi al nuovissimo, e trovano il vecchio, anzi il vecchissimo”. Vecchia, vecchissima, e terreno di coltura dell’eterno trasformismo italico, è l’idea che non esistano più la destra e la sinistra, o che comunque il crinale della distinzione non sia più quello della libertà e dell’uguaglianza (secondo la lezione di Bobbio, sempre valida per Macaluso) ma quello dell’innovazione e della conservazione. E non è vecchia di vent’anni, dal tempo del blairismo a cui ormai solo la provincia italiana sembra tributare sperticate lodi, ma risale a quello scampolo di Ottocento in cui soleva capitare, nei passaggi parlamentari più stretti, di trasformarsi progressisti. Con queste parole d’ordine, una nuova generazione è andata al governo. Ma non si può certo dire che la questione generazionale sia risolta, e anzi su quel discrimine dell’uguaglianza si riproduce la frattura tra una nuova élite politico-mediatica e una maggioranza ancora offesa dalla crisi e dal declino che l’ha preceduta, da peggiori retribuzioni, da scarse occasioni di lavoro all’altezza delle proprie competenze, e delle proprie ambizioni. L’Italia resta quel paese, appena fuori da twitter, in cui le eredità familiari e geografiche tornano ad essere determinanti per i destini individuali. Un bel problema, questo dell’eredità. Che ci riporta al dramma shakespeariano del potere di Re Lear, su cui ha scritto di recente belle pagine Massimo Cacciari, che sia metafora della vita della nostra democrazia o che sia cronaca della provincia toscana.
È allora di fronte allo scandalo dell’ingiustizia e delle disuguaglianze, delle élite separate dal popolo, dell’atto complesso dell’ereditare, che il gioco delle generazioni diventa imprevedibile. E può riservare la sorpresa dei giovani che sostengono Bernie Sanders nella sua battaglia americana, o che rianimano la vita del Labour di Jeremy Corbyn in Inghilterra. O può spiegare quell’attenzione di non pochi giovani verso alcuni “grandi vecchi” della Repubblica e della sinistra italiana. Più volte mi sono chiesto cosa fossero, da noi, questi, magari minoritari, ma significativi fermenti. È quel “vintage politico” che è dilagato a sinistra (e non solo), e che è stato espresso con grande genio satirico (e non solo) da alcuni giovani (penso a L’Apparato)? O è forse quello strano sentimento, molto ambivalente e insidioso, di nostalgia per un mondo perduto, per un tempo non vissuto, per uomini e modi di un secolo fa? Non credo sia la “nostalgia di futuro” che può prendere i giovani in tempi amari, per usare ancora una bella formula di Vittorio Foa, spesso ripresa che però a me pare resti solo una suggestione. È forse invece qualcosa di più profondo, che ha a che fare con quel “complesso di Telemaco”, di una nuova generazione con lo sguardo su un orizzonte, specialmente politico, di una “Patria senza padri”. E la “domanda di padre” che ne deriva alimenta non solo un’attesa ma anche una ricerca. È sicuramente il rovescio, ma avrebbe potuto essere anche il complemento del rifiuto, dell’uccisione, o dell’atto tragico dell’ereditare. Non è domanda di autorità, ma di testimonianza. E non può essere rivolta a quei padri avari di sé, alla meglio gioventù del mitico ‘68, la generazione di mezzo che, al di là delle eccezioni, ha consegnato ai figli, con un mondo guasto di individualismo e disuguaglianze insostenibili, peggiori prospettive di futuro, precarietà e gelosie di potere. È qui che la domanda incrocia un bisogno insoddisfatto di politica. Il bisogno di una politica che torni ad essere capace di trasformare il mondo, di incidere sulla vita delle persone, di riconquistare un potere che è sempre più altrove. Ecco che allora il gioco delle generazioni porta a rivolgere la domanda di padre ai “nonni” della Repubblica, risale al senso politico delle loro scelte di vita, a quella serietà nella battaglia delle idee, a quella cura e sobrietà nella costruzione di relazioni sociali. Qui, la testimonianza di Macaluso assume un valore speciale, quanto mai attuale. Perché nella sua parola riecheggiano braccianti e zolfatari, le lotte per la questione sociale e democratica che oggi, dopo una crisi che è stata una guerra, si ripropone in forme nuove, lontane dalla miseria che fu, ma non meno gravi. I «nuclei vitali» di una sinistra antica, più antica del suo Pci, e più nuova, da rilanciare nell’arena pubblica non solo in Italia, ma nell’Europa che perde se stessa. E ancor più, le ragioni di una vocazione e una professione politica, che è capacità di intelligenza delle cose e di costruzione di un consenso non effimero nella società.
Si può anche fare a meno di nonni padri e maestri, e va be’. Però una volta ho sentito dire, forse ad Adriano Sofri, un uomo che torna anche in queste pagine, che ci sono maestri speciali, e sono quelli che smettono di esserlo, ché quando li trovi senti che non ti importa niente che siano dei “maestri”, ché non insegnano ciò che sono, ma lo testimoniano. Una lezione che non schiaccia, né minaccia, ma sta lì, dalla tua parte. E cresce, nell’impossibile mimesi, nella curiosità reciproca. Può nutrirsi persino di uno spirito di contraddizione, di un’inquietudine costante per il presente, un senso mai appagato di giustizia, a cui si aggrappa una speranza. Perché, se è vero che em.ma continua a dichiarare il suo pessimismo, siascianamente compie un atto quotidiano di ottimismo con il suo scrivere, lottare, non accontentarsi e non risparmiarsi. E ciò che dà dignità anche a questo tempo, perché ogni tempo ha la sua dignità, anche quello di facebook. È la vita, questo atto di volontà, allo stato puro, purissimo. La vita che viene prima della politica, e dove qui si fa metafora di padri e figli là rimane la verità di un padre e un figlio. Un figlio che muore è il più grave dei lutti. Emanuele ha perso il suo Pompeo, e solo per la forza della vita, per l’affetto che lo ha circondato, anche su questa pagina di facebook, è tornato a scrivere, a reagire. Certo, anche la novantaduesima primavera può essere amara. Così fa la vita, e lui che è nato il 21 marzo lo sa e ce lo ricorda: «Sono vecchio e, come diceva mia madre, ho vissuto molte primavere, anche politiche. Primavere che ci hanno fatto andare avanti e altre che ci hanno respinto indietro. Ma il futuro dipende sempre da noi, da quel che facciamo o non facciamo. Essenziale è esserci. Nel “gorgo”, come diceva il mio vecchio compagno Pietro Ingrao. E non affacciati ad una finestra».
Roma, aprile 2016