Recensione a: David Allegranti e Giovanni Orsina, Antipolitica. Populisti, tecnocrati e altri dilettanti del potere, Luiss University Press, Roma 2021, pp. 144, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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In quest’ultimo anno e mezzo l’evento pandemico ha posto la politica di fronte a numerose sfide, perlopiù inedite, costringendola a scelte difficili nel tentativo di bilanciare i diversi interessi coinvolti. La crisi, sanitaria, economica e sociale, ha innanzitutto evidenziato il complesso rapporto che vige tra politica e scienza, ossia tra l’arte di gestire il conflitto e la (presunta) oggettività neutrale dei dati: un rapporto che spesso ha visto la prima nascondersi dietro alla seconda, in un’ottica di de-responsabilizzazione finalizzata a scaricare sui dati l’impopolarità di talune decisioni. Questo fenomeno va poi inserito nel contesto mediatico – o scenografico, si potrebbe dire – che caratterizza la politica dell’ultimo trentennio, in una commistione tra pubblico e privato, istituzioni e spettacolo, classe dirigente e società civile, su cui la letteratura [1] ha giustamente speso molto inchiostro e che trova nella crisi del “politico” un comune denominatore.
Una prospettiva interessante per analizzare queste tendenze è quella propostaci dallo storico e politologo Giovanni Orsina e dal giornalista de La Nazione David Allegranti in un recente libro-intervista edito da Luiss University Press, dall’inequivocabile titolo Antipolitica. Populisti, tecnocrati e altri dilettanti del potere. Un concetto complesso e variegato come quello dell’antipolitica, fondamentale per comprendere le tendenze di cui sopra, ci viene così presentato attraverso un dialogo tra un accademico e un cronista, capace proprio per questo di mettere in relazione la storia con l’attualità, sulla scia di un filo conduttore che trascina il lettore dalla magistratura ai media, da Berlusconi a Salvini, dalla questione morale ai cinque stelle, fino alle recenti sirene tecnocratiche. Quello che emerge è un frammentato mosaico che mostra in tutta la sua nudità le contraddizioni dell’Italia, in cui l’antipolitica si è manifestata con particolare intensità, probabilmente per la tradizionale frattura tra paese legale e paese reale dall’Unità in poi, essenziale chiave di lettura per capire il presente.
Orsina, stimolato dalle puntuali domande di Allegranti, riprende alcuni dei temi già affrontati nel suo libro La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio 2018). Tra questi, la crisi dei corpi intermedi, l’individualismo emerso a partire dagli anni Sessanta, nonché il suicidio delle élite che, al posto di difendere – ripensandolo – lo spazio collettivo della politica di fronte alle diverse spinte di autodeterminazione individuale, hanno contribuito a comprimerlo con l’esaltazione dei diritti individuali (a sinistra) negli anni Settanta e del libero mercato (a destra) negli anni Ottanta; infine, l’emergere della società dello spettacolo e la moralizzazione del conflitto politico.
In ogni caso, è agli anni Novanta che bisogna guardare per comprendere appieno il concetto di antipolitica. In quella stagione, infatti, le tendenze di cui sopra esplodono in un radicale rifiuto del ceto politico, che si concretizza, anzitutto, in due prime particolari forme di antipolitica – infatti, come ribadisce più volte Orsina, l’antipolitica può assumere più volti. Una prima forma è rappresentata dall’erosione da parte della magistratura degli spazi propri della politica, accolta con entusiasmo da giornali e opinione pubblica nella stagione di Tangentopoli. La seconda forma è invece quella dell’antipolitica berlusconiana, fondata sul rifiuto del politico di professione – per citare Weber – e a favore invece delle qualità della società civile e alla possibilità dei singoli di emergere in base alle proprie capacità e gestire di conseguenza la cosa pubblica. A queste due forme negli ultimi anni si è aggiunta quella peculiare del Movimento Cinque Stelle, su cui Allegranti insiste molto: tra gli aspetti più interessanti, vi è quello del filo conduttore che porta dalla questione morale degli anni Settanta alla moralizzazione di stampo grillino, volta a tracciare una distinzione manichea tra un popolo puro e una casta corrotta. In quest’ottica, l’antipolitica raggiunge un livello altissimo, andandosi tra l’altro ad intrecciare con l’impostazione rousseauiana del non-partito e del (illusorio) uno vale uno.
Nel tratteggiare le diverse declinazioni del fenomeno dell’antipolitica, i due autori si avvalgono delle riflessioni di importanti pensatori (Tocqueville, Ortega y Gasset, Del Noce, Montale) e affrontano i più cruciali avvenimenti storici (il Sessantotto, la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, la crisi finanziaria del 2008).
Viene così evidenziato, ad esempio, il nesso tra la cultura degli anni Novanta – caratterizzata dalla “fine della storia” e dal successo del liberalismo – e l’antipolitica della società civile di Berlusconi; oppure, a partire dal sentimento di smarrimento dettato dall’iper-globalizzazione e dalla crisi del 2008, viene analizzato il fenomeno del populismo degli ultimi anni, che deriva paradossalmente da una richiesta di maggiore politica – riprendere il controllo di fronte a fenomeni che sembrano incomprensibili – ma che spesso finisce per assumere connotati antipolitici, come nel caso del Movimento 5 stelle, oppure anche in quello di Salvini, che alla risposta politica del “sovranismo” unisce un approccio comunicativo antipolitico; o, ancora, di grande attualità sono le riflessioni che portano dal Sessantotto – e dai primi segnali di crisi del marxismo – al modello pedagogico moralizzante di una parte di sinistra, attraverso strumenti culturali ma anche tramite il diritto penale.
Un capitolo del volume è poi dedicato ai tecnici. Le riflessioni di Orsina sul tema evidenziano due questioni cruciali: in primo luogo, la politica è scelta e l’illusione di ridurla a neutralità tecnica è destinata ad essere smascherata, anche perché – sfiorando il parossismo – la stessa «scelta su che cosa de-politicizzare, ossia mettere fuori dal dibattito e affidare ai tecnici, è una scelta politica. È la politica, insomma, che deve prendere la decisione politica di auto-sospendersi. La prenderà se tutti gli attori politici la riterranno conveniente, e la manterrà soltanto fin quando quelli continueranno a ritenerla tale» (p. 108). Poi, in secondo luogo, è pure difficile immaginare le decisioni assunte dai tecnici come neutrali. Sul punto, Orsina nota acutamente come, da Monti a Draghi, un insostituibile denominatore comune sia rappresentato dall’adesione all’Unione Europea. Da qui, la chiara politicità delle scelte, in base alla cultura del cosiddetto vincolo esterno (strutture, canoni e diktat europei), per cui «quando l’Italia si allontana troppo da quel perimetro, com’è avvenuto nel 2011 con la crisi del debito sovrano e come sta avvenendo ora, per ragioni differenti, con la pandemia, la democrazia viene commissariata, i partiti spinti in un angolo, e il governo è messo in mano a tecnocrati che da un lato sanno gestire il vincolo esterno, dall’altro non hanno il problema di essere eletti» (p. 118).
Questa tendenza, molto marcata in Italia, è squisitamente antipolitica, perché tende a relegare la politica, «privata di reale potere decisionale ma costretta comune a farsi sentire […] a un tetro di ombre cinesi, come ha ben detto Stefano Folli. Polemizza, si divide, protesta e pretende, ma è solo una rappresentazione, perché tanto alla guida ci sono i tecnici e il vincolo esterno lascia pochissima libertà decisionale» (p. 119).
Il volume ha una densità contenutistica cui in questa sede non si è riusciti a dare il giusto respiro, perciò si rimanda direttamente al libro per i tanti temi non toccati. Quanto ci interessa invece sottolineare a conclusione di questa breve trattazione è l’importanza della ricostruzione proposta in merito al processo di indebolimento della politica e il contestuale emergere di diverse forme, esplicitamente o implicitamente, antipolitiche: un percorso che comincia negli anni Sessanta e che unisce spinte di autodeterminazione individuale, moralismo, strumenti non politici (corti, istituzioni tecnocratiche, modelli di mercato), esigenze di elettorati perennemente insoddisfatti, volatilità e tendenza allo short-term, costringendo la politica, sempre più inerme, a mutare volto, fino a rinnegarsi e tradursi in anti-politica.
Su questi temi ci sarebbe molto da dire. Un’unica postilla la merita, stante anche l’attualità dell’argomento, la critica di Orsina al diritto penale utilizzato in funzione ri-educatrice, nonché più in generale all’approccio pedagogico di certe forze politiche. Se esiste una letteratura molto seria sul paternalismo del diritto penale – tendenzialmente da evitare, verrebbe da dire – e se è vero che esiste un problema di approccio spesso sfociante in un (immotivato) complesso di superiorità etica, va anche riconosciuto che non è sempre antipolitico il tentativo di condurre la società verso certi obiettivi. Se il dato di partenza è, ad esempio, la presenza di diverse disuguaglianze o fenomeni di oppressione culturale, è legittimo perseguire l’obiettivo politico di accompagnare la società verso dinamiche diverse; così come è legittimo l’altro posizionamento, altrettanto politico, volto a lasciare che siano gli individui, liberamente, a scegliere che strada seguire, modificando, mantenendo o eliminando determinate strutture sociali negli anni. Il punto è che il confine è molto stretto e bisogna quindi prestare parecchia attenzione nell’affrontare l’argomento. A parere di chi scrive, i punti sollevati da Orsina hanno un riscontro nella realtà e denunciano derive moraliste o paternaliste esistenti da un certo punto di vista, dalle quali i fautori dei diritti civili dovrebbero maggiormente tenersi alla larga. Detto questo, è altresì fondamentale sottolineare quanto qui sopra brevemente enunciato: di fronte ad un reale ritenuto profondamente ingiusto, una politica che voglia affrontare determinate situazioni sovrastrutturali non per questo è detto che debba sempre scadere nell’antipolitica moralistica. Altrimenti, ogni obiettivo politico – che sia uguaglianza, libertà o altro – diventa una paternalistica ingerenza sull’ordine costituito.
Le issues sono molte e gli spunti di riflessione pure. Il volume ha il merito di stimolare un dibattito non solo necessario, ma anche utile per affrontare le sfide future. Infatti, lungi dall’essere sparite di scena con l’arresto dei movimenti populisti – in un non troppo preciso accostamento tra populismo e antipolitica – tutte le problematiche qui sopra affrontate rimangono estremamente attuali. Anzi, potrebbero persino aggravarsi. Per questo motivo bisogna continuare a discuterne. In modo sintetico ma efficace, ancora una volta a dircelo è Orsina: «L’accelerazione direi mostruosa del tempo storico pone problemi economici, ma anche di status, di futuro, di angoscia, d’identità. Questi problemi si vorrebbe che fosse la politica ad affrontarli, ma la politica non ha più strumenti per risolversi, perché negli ultimi trent’anni si è – e l’abbiamo – decostruita. Allora possono perdere le elezioni tutti i Trump del mondo, e tutti i Salvini del mondo possono compiere tutte le svolte europeiste del mondo, e puoi avere le risorse del Next Generation EU, ma il problema rimane, ed è epocale. Chi sostiene che il populismo è finito, a mio avviso, non sa che cosa dice. Anche perché è dagli anni Settanta che le ondate del cosiddetto populismo vanno e vengono. Se il Next Generation EU viene elaborato correttamente e funziona, magari quell’onda resterà bassa per qualche anno. In caso contrario, potremmo vederla montare tra 18 o 24 mesi. O magari non cala proprio per niente» (p. 55).
[1] In merito, vale la pena innanzitutto segnalare due saggi recenti che, oltre a proporre riflessioni originali, ripercorrono ampiamente la letteratura in questione, rappresentando in questo modo anche un ottimo bagaglio bibliografico: Luigi Di Gregorio, Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2019; Nello Barile, Politica a bassa fedeltà. Populismi, tradimenti dell’elettorato e comunicazione digitale dei leader, Mondadori Università, Milano 2019. Sull’antipolitica va poi sicuramente menzionato il precedente lavoro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018. Sui rapporti tra politica e tecnica si veda invece Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri, Macerata 2020.