“Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa” di Vittorio Mete
- 25 Agosto 2022

“Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa” di Vittorio Mete

Recensione a: Vittorio Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, il Mulino, Bologna 2022, pp. 168, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Tancredi Bendicenti

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Cos’è l’antipolitica? Come è nata? Come incide sulla determinazione del consenso? Su queste domande e molte altre si interroga Vittorio Mete nel suo ultimo saggio Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa. Per navigare il mare magnum della contemporaneità è senza dubbio utile, se non necessario, comprendere come sia i partiti con le loro strategie, sia l’elettorato con le sue preferenze, si siano adattati e abbiano dettato l’antipoliticizzazione della politica. In un mondo in eterna e rapidissima trasformazione, in cui nuovi giocatori nascono e svaniscono continuamente, in cui la centralità dello Stato sembra essere messa in discussione dal rafforzarsi di sempre più pervasivi nuovi soggetti economici, alla politica resta un ruolo apparentemente ristretto, limitato dall’interconnessione dei mercati globali e dalla tecnicizzazione della gestione dello spazio pubblico.

Prima di trattare le tematiche specifiche e gli spunti offerti dal libro, è opportuno introdurre a tratti generali l’oggetto della riflessione proposta. L’antipolitica potrebbe essere definita come la generalizzata ostilità nei confronti della dimensione del politico, diretta non solo contro il suo ambito oggettivo, ma anche (forse soprattutto) contro l’insieme di individui che ne fa parte, che potrebbe anche essere definito come una categoria “professionale”. E in un periodo storico in cui la tendenza alla “personalizzazione” è assai diffusa, sarebbe sostanzialmente (oltre che logicamente) impossibile scindere tra l’avversione nei confronti del sistema-politica e quella nei confronti degli uomini-politici, in quanto i secondi, sia presi individualmente, che come “casta” (in questo senso vi si combina anche la tendenza anti-elitaria), incarnano le patologie (reali o percepite come tali) che affliggono la prima. Riferendosi direttamente al saggio di Mete, si potrebbe dire che l’antipolitica è uno dei modi, e degli strumenti, con cui si esplica il “populismo”, che è un fenomeno più generale, e che si presenta in forme molteplici, addirittura a volte in aperta opposizione tra loro (nel linguaggio comune spesso sentiamo di populisti di “destra” e di “sinistra”, come se fossero una categoria separata e trasversale, diversa dalle altre forze che abitano lo spazio pubblico). L’antipolitica, però, come l’anti-ideologia, soffre di un vulnus genetico di difficile conciliazione, ossia di una contraddizione pragmatica che ne mina le fondamenta: è indiscutibilmente una forma di politica. Si propone di eliminare un nemico, ma per farlo vi si deve prima trasformare. Gli anti-partiti sono partiti, gli anti-professionisti presto diventano professionisti della politica a loro volta. Per questo motivo l’antipolitica non appartiene, nella storia, ad un solo movimento, ma cambia forme e attori: quando l’antipolitico si fa troppo politico, uno nuovo ne prende il posto. All’agire comunicativo che dovrebbe animare la vita di un Paese democratico si sostituisce intanto un agire strumentale fatto di slogan e pubblicità che, violando l’etica del discorso, rende sempre più difficile affrontare ragionevolmente le questioni pubbliche. I protagonisti dell’antipolitica incarnano il moralista politico di Kant e il demagogo di Platone, promettono un nuovo mondo di puri: un giudizio universale anticipato che separi i giusti dai peccatori.

Così giungiamo alla riflessione del professor Mete. Il primo dei quattro capitoli del saggio indaga le forme assunte dall’antipolitica “dal basso”. L’elemento definitorio e comune a tutte le tendenze antipolitiche è discernibile intuitivamente dalla parola stessa: un disprezzo diffuso e spesso generalizzato esercitato nei confronti non di questa o quella parte, ma della classe politica nel suo insieme, sia essa di destra, centro o sinistra. L’autore traccia una breve storia del fenomeno in Italia sottolineandone la non novità: già nell’immediato dopoguerra l’antipolitica era relativamente diffusa – basti pensare al fenomeno del Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini –; è poi esplosa con la caduta del muro di Berlino e Tangentopoli. Eppure, nello spazio pubblico, come nelle conversazioni private, la vox populi dominante sembra idealizzare il tempo perduto della cosiddetta “Prima Repubblica”, dipingendola come una dimenticata età dell’oro popolata di galantuomini preparati e onesti, di forti ideali e saldi principi, che avevano una visione chiara e delineata del futuro della nazione e delle misure utili a costruirlo, in cui i partiti erano strutturati e radicati nel territorio, e per partecipare alla vita pubblica bastava interfacciarsi con la sezione della propria città o del proprio quartiere. E questo mito dell’Età dell’Oro non dovrebbe forse neanche tanto sorprendere: già Augusto, due millenni orsono, rimpiangeva i sani costumi dei maiores, e la virtus e la gravitas che contraddistinguevano gli eroi della vecchia Repubblica romana. Agli inizi del Novecento, in piena età giolittiana, si rimpiangevano i fasti del Risorgimento. Dopo la Seconda guerra mondiale, sono poi apparsi e tuttora permangono – e sembrano addirittura aumentare – i nostalgici del Ventennio fascista. D’altronde la retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” è stata storicamente una scusa patologica quanto diffusa nella cultura italiana. Una tendenza che però non è certo limitata al nostro Paese, come dimostrano l’avanzata dei sovranismi e il dilagare di un sentimento di nostalgia verso il passato che ha pervaso gran parte dell’Occidente.

Questione di grande rilevanza sottolineata da Mete è quella della genesi del fenomeno dell’antipolitica. Se è vero che le masse disprezzano la classe politica, tale classe politica rispecchia le masse da cui emerge. Non si può cioè pensare la classe politica come un’entità separata e indipendente dalla società che rappresenta: sarebbe antistorico, oltre che illogico. Dunque com’è mutata negli ultimi trent’anni questa società? Astenendosi da ogni giudizio di valore, la più lampante tendenza che si può rilevare è quella di una progressiva individualizzazione e atomizzazione della società stessa. Ognuno tende, secondo un clima culturale progressivamente affermatosi, a concepirsi come imprenditore di se stesso, alla ricerca di un percorso proprio e unico. Passati sono i tempi in cui la maggioranza degli italiani era costituita da operai e contadini, con vite molto simili tra loro, con avversari sociali ben chiari e vicini. La meccanizzazione e la delocalizzazione della produzione hanno fatto sì che gli odiati “padroni” di un tempo non siano più nemmeno persone fisiche, ma fondi intangibili, esistenti in una dimensione diversa. Il mondo del lavoro è sempre più fluido, alla ricerca di competenze sempre più diverse e specifiche, e attinge non più al “proletariato” marxianamente inteso, ma a un esercito crescente e insoddisfatto, sottopagato o non pagato affatto, di giovani istruiti e preparati ognuno con capacità di giudizio e nozioni sviluppate, determinate dal balzo in avanti della scolarizzazione negli ultimi settant’anni. Chi vota oggi ha opinioni ben precise, tendenze e necessità specifiche, si rivolge alla politica non più con la deferenza dettata dalle vecchie gerarchie, ma con l’esigenza del cliente che si relaziona con l’imprenditore. Più passano gli anni, più le richieste sono importanti, e più passano gli anni più la politica si dimostra incapace di rispondere adeguatamente. È qui che si può introdurre quello che forse è il concetto fondamentale della riflessione di Mete, il cosiddetto “gap delle aspettative”: l’elettorato si aspetta dalla politica più di quanto essa sia capace di dare. Questo perché si ragiona spesso dello Stato come se fosse un’entità – un agente economico – che agisce in un contesto di risorse illimitate. È diffusa la percezione di uno Stato onnipotente, che potrebbe fare tutto, ma non lo fa per dispetto, avarizia o corruzione. Eppure, nella realtà dei fatti, non solo le risorse sono limitate, ma lo sono molto di più che nel secolo scorso. I paradigmi del neoliberismo e della globalizzazione – fusi, se non identici tra loro – adottati indiscriminatamente dall’Occidente e non solo hanno limitato fortemente il campo di azione dello Stato, spodestato le nazioni dal ruolo monopolista (all’interno dei propri territori, si intende) che avevano conquistato. Molte nuove forze e soggetti si intrecciano nel determinare la gestione delle risorse del pianeta, in un sistema di dialogo tra leggi statali e norme, convenzioni, usi e accordi internazionali, spesso non scritti. E dunque il motivo forse primario per cui la politica non riesce ad affrontare i problemi che tradizionalmente le spettava risolvere è proprio che non possiede più gli strumenti, le prerogative e l’egemonia del passato.

All’interno del saggio, Mete scrive inoltre della diffusione di un’idea “pagana” di democrazia, fatta di simulacri e ombre prodotte dal senso comune e dalle scorciatoie cognitive che il corpo elettorale spesso impiega per interpretare un mondo di cui ignora le specificità. Dal ritornello del “Presidente del Consiglio non eletto dal popolo” fino all’inflazione della richiesta di forme dirette di gestione e ordinamento della cosa pubblica, alla proliferazione delle forze che di queste tendenze hanno fatto la loro bandiera: l’idea di democrazia diffusasi tra gli italiani è quella di una recita folkloristica, una pretesa di eterno e violento plebiscito, ignorante dei molti sistemi e contrappesi che rendono possibile il funzionamento e la salvaguardia della Repubblica. Perciò non sorprende che l’odio sia prima di tutto rivolto verso coloro che della politica hanno fatto professione, che vivrebbero alle spalle del popolo percependo stipendi dorati e privilegi ingiustificati per lo svolgimento di funzioni che non dovrebbero spettare loro. Nell’immaginario collettivo la gestione della cosa pubblica è cosa semplice e immediata, mera esecuzione che può e deve essere lasciata ai principianti, alla “gente come noi”. Contemporaneamente, vengono però lamentate incompetenza e inadeguatezza della classe dirigente. Il politico deve essere perciò una sorta di centauro, mezzo superesperto e mezzo uomo qualunque. Appartengono alla medesima madre il dilettantismo e l’appello alla tecnocrazia: ma entrambe le opzioni sono insufficienti a saziare la sete di indignazione, e sono dunque subito fagocitate. I dilettanti disprezzati perché incapaci, i tecnici odiati per le dure misure assunte nei molti momenti di crisi che il Paese ha attraversato negli ultimi anni. Tuttavia, l’antipolitica oltre che dal basso viene anche dall’alto. La volatilità dell’opinione pubblica rende possibile raccogliere milioni di consensi in pochi mesi attraverso la strategia “dell’anti-tutto”, eppure chi di antipolitica ferisce, di antipolitica perisce, come dimostrano le parabole di narrazioni come la “rottamazione”.

La prima vittima dell’antipolitica – fenomeno trasversale, che va da destra a sinistra – è la Costituzione. Si pensa che cambiando le regole del gioco si possa aggiustare tutto, che impoverendo i politici questi diventino magicamente più onesti, che diminuendo il numero di rappresentanti del popolo, questo divenga più e meglio rappresentato. Sembra quasi che per restare a galla le forze politiche debbano partecipare ad una gara di destrutturazione del (costoso) apparato indispensabile per lo svolgersi della democrazia. Lo strumento del referendum è l’arma preferita dall’antipolitica, il presidenzialismo il sistema diletto; eliminare la mediazione tra popolo e potere, il compromesso tra le forze e gli interessi, l’obiettivo. Vittorio Mete identifica cinque meccanismi attraverso i quali spiegare l’odio che si è sviluppato nei confronti della politica: la trappola dell’intransigenza (ai politici viene chiesto di essere integri e inamovibili, eppure l’essenza stessa della politica, in democrazia, è il compromesso); il double standard (la figura del buon politico è idealizzata e disumanizzata; perciò, ci si aspetta un comportamento irrealistico di assoluta perfezione morale); il gap delle percezioni (si è più clementi nel giudizio delle amministrazioni più piccole e vicine, molto più severi nei confronti di governi centrali); il gap delle domande (la differenza tra le richieste dei cittadini e l’effettivo apprezzamento delle misure attuate dal governo per rispondervi); e la già citata fisionomia da centauro del politico ideale: mezzo uomo qualunque, mezzo tecnico straordinariamente competente.

L’autore termina il volume con un’originale capitolo sulla condizione personale dell’uomo politico contemporaneo “odiato, sorvegliato e stressato”, ridotto a vivere in un mondo ostile, facendo di quella stessa ostilità verso se stesso la propria arma di sopravvivenza. Il saggio di Mete è senza dubbio, in primis, una dichiarazione d’amore per la politica, e per il ruolo virtuoso che ha potuto, può e potrà giocare nella gestione di un mondo sempre più diviso, confuso, complesso e complicato. Un invito al cittadino, più che alla clemenza nei confronti della classe dirigente odierna, a una riflessione sulle cause della situazione presente, e sull’attribuzione delle responsabilità che l’hanno determinata – media, trasformazioni socioeconomiche, nuovi paradigmi culturali. Una lettura, quella di Antipolitica di Vittorio Mete, utile allo sviluppo di un’informata comprensione dello spazio pubblico.

Scritto da
Tancredi Bendicenti

Studente di Giurisprudenza all’Università LUISS “Guido Carli” e studente di Economia e finanza alla “Sapienza” Università di Roma. Ha vinto il concorso di ammissione come allievo ordinario di Scienze giuridiche alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

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