Scritto da Chiara Visentin
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Il tema, vasto e proteiforme, dell’appartenenza etnica o nazionale medievale è stato terreno di contese e dibattiti che hanno coinvolto studiosi di primo piano, tanto nelle scienze politiche e sociali quanto negli studi medievali, in particolare concernenti il suo rapporto con le appartenenze contemporanee. Gli studiosi ne hanno messo in evidenza la complessità senza tralasciare le implicazioni più ampie insite in una galassia concettuale dai risvolti così importanti, sentiti e attuali. Il presente contributo si propone di ripercorrere alcuni sviluppi teorici significativi di questa parabola, prendendo le mosse da influenti posizioni che, contro letture teleologiche miranti a legittimare le identità del presente proiettandole indietro nel tempo e rappresentandole come un destino, enfatizzano la grande distanza tra mondo medievale e mondo moderno. Prosegue poi analizzando varie critiche, messe in discussione e qualificazioni di questi argomenti, che hanno consentito di recuperare in un quadro rinnovato o portare alla luce – al netto, beninteso, di orientamenti nazionalisti –, elementi di connessione e rilevanza, aprendo nuove prospettive per la riflessione su questi fenomeni al di là delle rigide dicotomie.
Come è noto, il momento fondativo per la teorizzazione contemporanea di nazioni e nazionalismo in area anglo-americana ha visto il deciso e motivato rifiuto delle pretese genealogie medievali delle identità nazionali contemporanee, tipiche della cultura nazionalista europea. Nello stesso anno, il 1983, fecero la loro comparsa tre futuri classici del settore, Nazioni e nazionalismo di Ernest Gellner, L’invenzione della tradizione edito da Eric Hobsbawm e Terence Ranger, e Comunità immaginate di Benedict Anderson[1]. Le posizioni di questi autori sono spesso raggruppate sotto l’etichetta di «modernismo», in riferimento alla tesi secondo cui nazioni e nazionalismo sono fenomeni prettamente moderni ovvero, nell’uso invalso in lingua inglese, relativi all’era contemporanea. Gli aspetti e le determinanti enfatizzati variano: caratteristiche socio-strutturali delle società industriali per Gellner, costruzione deliberata e strumentale di rituali e immagini per legittimare poteri e aspirazioni legati allo Stato-nazione moderno per Hobsbawm, e ampie mutazioni culturali legate a secolarizzazione, stampa, colonialismo e percezione della temporalità per Anderson. Questi autori sono tuttavia concordi sul fatto che attribuire identità nazionali a periodi anteriori rappresenti nel migliore dei casi un errore o un anacronismo, e nel peggiore una pericolosa mossa ideologica. Il Medioevo figura come “altro” rispetto alla modernità nazionalizzata. Per Gellner, si tratta delle «società agro-letterate» in cui da una massa analfabeta legata alla comunità locale si distingue una esigua intellighenzia in grado di spaziare attraverso i confini. In Hobsbawm, una miniera di materiale o ispirazione sfruttata con disinvoltura per la creazione di inautentiche tradizioni al servizio degli interessi del presente. Per Anderson, infine, un negativo della modernità nazionalista: «lingue scritte sacre» a vocazione universalistica al posto dei volgari nazionali, regni gerarchici centrati sul sovrano al posto di comunità orizzontali dai confini ben definiti, una temporalità in cui il presente riceve senso dalla trascendenza al posto del tempo lineare e omogeneo di orologio e calendario, romanzo e giornale, che rendono possibile immaginare la comunità nazionale.
La tendenza di pensiero or ora tratteggiata, che non si esaurisce con questi tre autori[2], prende come già accennato le mosse dal rifiuto di linee storiografiche di matrice nazionalista influenti nel corso del XIX e del primo XX secolo e non senza strascichi fino al presente. Vi corrispondeva una concezione della missione della storia come custodia e trasmissione del passato nazionale, per la “Nazione”. Tale concezione non detenne mai un’egemonia completa, ma perse credito soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, con l’incrinarsi del consenso sui suoi assunti ideologici e la denuncia delle loro pericolose implicazioni escludenti, a seguito delle traumatiche esperienze del conflitto mondiale, unite alla rivelazione, grazie al lavoro di numerosi specialisti, dell’infondatezza scientifica di molti dei suoi leitmotiv, come quello dell’identificazione tra popolazioni altomedievali e popoli contemporanei, argomento che è stato al centro di un contributo di Francesca Roversi Monaco sul numero 3/2021 di «Pandora Rivista»[3].
Il paradigma modernista a sua volta non è stato immune da critiche: non si tratta, tuttavia, di tentativi di restaurare le visioni e i miti nazionalisti precedenti, ma di proposte atte a colmare lacune, accrescere complessità e multidimensionalità, superare semplificazioni o generalizzazioni rivelatesi eccessivamente astratte o problematiche. Nel campo degli studi teorici su nazioni e nazionalismo, una influente corrente di pensiero alternativa al modernismo è rappresentata dall’etnosimbolismo, inaugurato da John Armstrong e sviluppato da Anthony Smith[4]. Esso pone l’accento su «miti, memorie, valori e simboli» che esprimono le identificazioni etniche. A differenza di altri aspetti di tali identità, come le funzioni sociopolitiche o la mobilitazione di massa, in cui la specificità della contemporaneità è più marcata, su questo piano culturale è più agevole individuare continuità di lungo periodo, motivi ricorrenti legati a tradizioni più antiche, come quelle di matrice religiosa. Esse, secondo questi autori, giocano un ruolo non trascurabile nel rendere possibile l’emergere di identità nazionali e plasmarle. Tesi, quest’ultima, che ha provocato la tagliente risposta di Gellner, secondo cui tali elementi identitari premoderni hanno per la nazione contemporanea la stessa (ir)rilevanza dell’ombelico di Adamo[5].
Anche gli storici che hanno protestato contro le cronologie proposte dal paradigma modernista non sono mancati, soprattutto in area britannica. Per Adrian Hastings[6], l’Inghilterra costituisce non solo un esempio precoce ma un vero e proprio prototipo di nazione, possedendone sin dal IX secolo le caratteristiche chiave: letteratura in volgare, forte identificazione includente una dimensione politica, senso di orizzontalità. Da una prospettiva ampia a livello europeo, Susan Reynolds[7] individua, nella cultura politica medievale, una nozione diffusa e radicata per molti versi simile a idee moderne di nazione: quella di comunità naturali con origini mitiche, storia, costumi, cultura e diritti politici comuni, di cui il regno rappresenta l’archetipo, anche a fronte di pretese di poteri universalistici e spinte verso la frammentazione. Collocandosi sulla stessa linea, Rees Davies[8] aggiunge che negare queste somiglianze sia sintomatico di una certa «arroganza presentista» e di una eccessiva formalizzazione del concetto di nazione, a cui è da contrapporre l’aspirazione dello storico a «comprendere le società del passato nei loro propri termini»[9].
Nell’ambito del pensiero post-coloniale, infine, sono emerse critiche radicali delle astrazioni e degli ideal-tipi su cui si basano le ricostruzioni moderniste. A cominciare dalla nozione stessa di modernità, di cui è stato notato il carattere spesso eurocentrico e mitizzato. Non a caso, uno dei principali critici della teoria del nazionalismo di Anderson è Partha Chatterjee[10], che gli rimprovera l’enfasi esclusiva sul piano politico e sul tempo omogeneo della modernità, incapaci di rendere conto di contesti post-coloniali come quello indiano, caratterizzati dalla co-esistenza di molteplici piani temporali eterogenei e dal ruolo cruciale di dimensioni «spirituali». Questi elementi sono elaborati ulteriormente e generalizzati da Dipesh Chakrabarty nel classico Provincializzare l’Europa[11]. Il senso stesso dell’anacronismo sorge da una coscienza storicizzante che tende a disporre secondo un ordine lineare quelli che sono in realtà «nodi temporali», in cui elementi irriducibilmente differenti si trovano giustapposti rendendo il presente sempre, in un certo senso, “non contemporaneo” con se stesso. Prenderne coscienza non significa avallare pretese di filiazione diretta da passati mitizzati, ma al contrario cercare di superare le barriere erette da un modo di pensare moderno dominante che tende a mettere a tacere le voci altre tacciate di arcaicità, in particolare quelle subalterne, ma anche gli echi provenienti dal passato premoderno come quello medievale, celando con ciò le condizioni della propria possibilità, perché «quel che consente agli storici di storicizzare il medievale o l’antico è il fatto stesso che questi mondi non sono mai completamente perduti». In un’ottica simile, Kathleen Davis[12] mostra le «occlusioni e reificazioni» della periodizzazione, e in particolare delle categorie periodizzanti attraverso cui la modernità europea ha marcato la propria differenza dal Medioevo, quali feudalesimo e secolarizzazione: elaborate in relazione alla formazione della sovranità moderna e al colonialismo, esse possono, se non approcciate criticamente, assumere implicazioni problematiche, in quanto tendono a restituire un’immagine monolitica del mondo medievale che ne occulta la dimensione politica contestata e plurale.
Alla critica degli assunti teleologici e nazionalisti si aggiunge quindi da più parti una più generale critica dell’essenzialismo, che conduce anche a rivedere i procedimenti classificatori e adottare criteri più flessibili. Il sociologo Philip Gorski[13] parla di una «teoria post-modernista del nazionalismo», in cui, abbandonato l’assunto di aver a che fare con un oggetto unitario e circoscrivibile, se ne dipanano i molteplici e stratificati fili discorsivi. Si guarda allora alle appartenenze etniche medievali apprezzandone le specificità, la diversità, e le comunanze o continuità laddove presenti, sensibili alla situazione contestuale tanto dell’oggetto quanto del soggetto dell’indagine. Tematizzare l’appartenenza etnica o nazionale nel Medioevo, allora, non solo non rappresenta necessariamente un gesto nazionalista, ma può configurarsi finanche come uno sforzo critico e «liberante», come scrive Kathy Lavezzo introducendo il volume Imagining a Medieval English Nation sull’Inghilterra tardo-medievale[14]. L’etnicità medievale, infatti, come insegna Robert Bartlett[15], è destinata a sfuggire ai tentativi di definizione precisa e univoca, tenendo insieme elementi semantici diversi e per certi versi contraddittori. In ultima analisi, essa è meglio intesa, per il Medioevo come per altre epoche, come una forma di «etichettamento» tra altre, con le quali si interseca, entra in relazione o si confonde – ad esempio religione, genere, o una dicotomia importante nel pensiero medievale come quella tra civilizzato e selvaggio. La sua natura è «situazionale e strategica», mobilitata in maniera e con intensità variabile, a seconda dei contesti e delle esigenze degli attori in gioco.
L’appartenenza etnica e nazionale medievale si configura come molteplice in numerosi sensi, al di là di quello più scontato, e connaturato a una lunga e non ancora del tutto superata tradizione di nazionalismo metodologico, di una serie di identità, ciascuna caratterizzata dai propri processi interni, da analizzare separatamente o eventualmente comparare. L’assenza di unitarietà caratterizza peraltro già l’identità etnica in generale, posta in una relazione costitutiva e dinamica con il suo esterno a partire dal suo atto fondativo di distinzione da un altro o uno straniero che con ciò stesso presuppone. In primo luogo, il panorama delle appartenenze medievali è caratterizzato da una molteplicità di livelli: unità territoriali, autorità e giurisdizioni di diversa natura ed estensione coesistono e interagiscono, non solo giustapposte ma anche in parziale sovrapposizione, o incastonate l’una nell’altra, e rappresentano altrettanti almeno potenziali poli di attrazione identitaria, categorizzazione e articolazione di confini, che possono assumere caratteri o risonanze di tipo etnico o nazionale, in base a tradizioni, pratiche, avvenimenti specifici, e che sfuggono in gran parte a tentativi di stabilire gerarchie precise[16].
Molteplici sono poi i settori o ambiti in cui le strategie identitarie entrano in gioco, non potendo esaurirsi in quello statuale, caratterizzato peraltro da una forza e un impatto sociale molto minori rispetto a quelli a cui siamo abituati, sebbene con importanti progressi su questo fronte nel corso del Basso Medioevo. Parlare di piani diversi da questo non significa, tuttavia, rinunciare all’idea di usi politici dell’identità, bensì allargare lo sguardo a dinamiche di potere in senso più ampio e diffuso, non meno interessanti e rivelatrici. Lo illustra bene la diffusione sempre più notevole di stereotipi etnici dal Medioevo centrale[17], che proliferano e ritornano in ambiti svariati (ad esempio religiosi, ludici, accademici, più o meno formalizzati o informali). Non mancano d’altronde, anche se non detengono un monopolio, usi e appropriazioni più strettamente politici da parte di autorità centrali aspiranti al consolidamento, e si può in certi casi parlare di «propaganda». Siamo comunque sempre in presenza di usi, riproduzioni e reinterpretazioni attivi, situati e mirati, «invenzioni di tradizioni», un «fare cose con le parole»[18]e le categorie.
Infine, possiamo assumere un punto di vista «esterno» su queste identità, come suggerito da Caspar Hirschi[19] in un contributo che individua importanti antefatti per il nazionalismo successivo in contesti “internazionali” tardo-medievali nei quali si assiste alla formazione di gruppi corporativi e competizione sulla base di «nationes», come le università, e soprattutto il concilio ecumenico di Costanza. Più in generale, abbondano gli esempi in cui l’appartenenza etnica o nazionale si definisce e acquisisce salienza negli svariati e numerosi poli e nodi dove, specialmente con l’accresciuta mobilità del Basso Medioevo, si converge e ci si incontra da provenienze disparate, dando vita a complesse geometrie variabili identitarie che coinvolgono tanto gli stranieri di diversa origine quanto i “locali”, e talora conducono alla formazione e cristallizzazione di vere e proprie «comunità forestiere» o «nazioni extra-territoriali»[20]: centri mercantili, spedizioni militari, pellegrinaggi, sono solo alcuni ulteriori esempi di questo tipo di contesti di mobilità, che possono rappresentare un punto di osservazione privilegiato dei meccanismi del farsi dinamico, interattivo, contingente e settoriale delle appartenenze in questo periodo di mutazioni.
Si può dunque affermare senza timore che questo periodo può offrire stimoli importanti per riflettere sulle dinamiche dell’appartenenza etnica, nella sua natura situazionale e strategica e nella sua contingenza, permettendo di cogliere aspetti e meccanismi che non sono necessariamente assenti in epoche successive, ma che possono essere resi meno evidenti dall’eredità persistente di egemonie nazionaliste e dallo strapotere dello Stato-nazione contemporaneo – e che potrebbero forse anche, se seguiamo quanto suggerito da alcuni teorici, acquisire una nuova rilevanza con la perdita di protagonismo di quest’ultimo nell’era globale[21]. L’opera demistificatoria nei confronti delle ideologie nazionaliste ha richiesto, da un lato, la critica delle loro pretese di filiazione da un Medioevo fantasmatico; dall’altro, e in maniera complementare, di fronte a una modernità essa stessa passibile di mitizzazione, la riconsiderazione del periodo medievale può fornire l’occasione di approfondire e ampliare gli orizzonti della riflessione sulle identità etniche, la loro costruzione e il loro uso, nella loro complessità, sfaccettatura, contingenza e specificità, non solo sottraendole, così facendo, a strumentalizzazioni da parte di retoriche nazionaliste, ma, più in generale, fornendo un antidoto a reificazioni e presentismi in cui, nonostante gli avanzamenti della ricerca, è spesso facile cadere.
[1] E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985; E.J. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987; B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari 2018.
[2] Un altro autore da menzionare è John Breuilly, autore di Il nazionalismo e lo Stato, il Mulino, Bologna 1995; con un’enfasi sul nazionalismo come fattore di mobilitazione politica.
[3] F. Roversi Monaco, Il gioco delle identità tra passato e presente: alcune considerazioni, «Pandora Rivista» 3/2021. Utili opere introduttive in lingua inglese sono P. Lawrence, Nationalism. History and Theory, Routledge, Londra 2004; S. Berger e E. Storm (a cura di), Writing the History of Nationalism, Bloomsbury, Londra 2019.
[4] J.A. Armstrong, Nations Before Nationalism, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 1982; l’opera di Anthony D. Smith è vasta: il suo lavoro seminale è Le origini etniche delle nazioni, il Mulino, Bologna 1998; da segnalare anche le altre traduzioni italiane di suoi lavori sul tema, Le origini culturali delle nazioni, il Mulino, Bologna 2010; La nazione. Storia di un’idea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.
[5] E. Gellner, Ernest Gellner’s Reply: “Do Nations Have Navels?”, «Nations and Nationalism», 2 (3) 1996, pp. 366-370.
[6] A. Hastings, The Construction of Nationhood: Ethnicity, Religion and Nationalism, Cambridge University Press, Cambridge 1997.
[7] S. Reynolds, Kingdoms and Communities in Western Europe, 900-1300, Oxford University Press, Oxford 1997; The Idea of the Nation as a Political Community, in L. Scales e O. Zimmer (a cura di), Power and the Nation in European History, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 54-66.
[8] R.R. Davies, Nations and National Identities in the Medieval World: An Apologia, «Belgisch Tijdschrift Voor Nieuwste Geschiedenis», 2004, pp. 567-579.
[9] Da notare per inciso che gli autori «modernisti» non ignorano del tutto questi dati storici, e talora ne concedono una certa rilevanza, sebbene limitandone la portata o la significatività, come è il caso, ad esempio, di E.J. Hobsbawm, in particolare in Nazioni e nazionalismi. Programma, mito, realtà, Einaudi, Torino 1990.
[10] P. Chatterjee, The Nation and Its Fragments: Colonial and Postcolonial Histories, Princeton University Press, Princeton 1993; The Nation in Heterogeneous Time, «Futures», 37(9), pp. 925-942. Per la critica al concetto sociologico di modernità si veda G.K. Bhambra, Rethinking Modernity: Postcolonialism and the Sociological Imagination, Palgrave, Londra 2007.
[11] D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Milano 2004; edizione originale Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000.
[12] K. Davis, Periodization and Sovereignty: How Ideas of Feudalism and Secularization Govern the Politics of Time, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2008.
[13] P.S. Gorski, The Mosaic Moment: An Early Modernist Critique of Modernist Theories of Nationalism, «American Journal of Sociology», 105(5) 2000, pp.1428-1468.
[14] K. Lavezzo, Introduction, Imagining a Medieval English Nation, University of Minnesota Press, Minneapolis 2004, pp. VII–XXXV.
[15] R. Bartlett, Medieval and Modern Concepts of Race and Ethnicity, «Journal of Medieval and Early Modern Studies», 31 (1) 2001, pp. 39-56.
[16] Si vedano, a titolo di esempio, i contributi nel volume collettaneo: R. Babel e J.-M. Moeglin (a cura di), Identité régionale et conscience nationale en France et en Allemagne du moyen âge à l’époque moderne, Thorbecke, Sigmaringen 1997 e gli articoli: J.-M. Moeglin, Nation et Nationalisme Du Moyen Age à l’Époque Moderne (France-Allemagne), «Revue Historique», (1999), pp. 537-553; P. Monnet, La patria médiévale vue d’Allemagne, entre construction impériale et identités régionales, «Le Moyen Age», CVII (1) 71 (2001); X. Nadrigny, Un sentiment national à la fin du Moyen Âge? L’étude du cas toulousain, «Revue Historique», 679 (3) (2016), pp. 513-548.
[17] C. Weeda, Ethnicity in Medieval Europe, 950-1250: Medicine, Power and Religion, York Medieval Press, York 2021.
[18] Espressione tratta dal celebre libro del filosofo John L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Bologna 1987.
[19] C. Hirschi, The Origins of Nationalism: An Alternative History from Ancient Rome to Early Modern Germany, Cambridge University Press, Cambridge 2012.
[20] Le due espressioni sono tratte rispettivamente da G. Petti Balbi (a cura di), Comunità forestiere e «nationes» nell’Europa dei secoli XIII-XVI, Liguori, Napoli 2002 e Société des Historiens Médiévistes de l’Enseignement Supérieur Public (a cura di), Nation et nations au Moyen Âge, Éditions de la Sorbonne, Parigi 2014.
[21] Si tratta delle teorie cosiddette neo-medievaliste nel campo delle relazioni internazionali, ma un’idea simile si trova espressa anche in G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1994.