Scritto da Giovanni Carrosio, Daniela Luisi, Filippo Tantillo
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Fin dai primi giorni del suo dispiegarsi, è stato chiaro che la crisi epidemica non si sarebbe limitata ad un ambito sanitario, ma avrebbe impattato sulla tenuta dell’intero sistema paese e, soprattutto, che i suoi effetti avrebbero colpito in maniera profondamente difforme i territori che lo compongono, già segnati da profonde diseguaglianze. Non solo il sistema della salute, reduce da anni di indebolimento dei servizi di prevenzione e di prossimità che ne ha colpito soprattutto i margini geografici, ma anche la scuola, spesso già affaticata nella sua organizzazione didattica ordinaria, e le economie interconnesse e fragili, che dipendono in modo strutturale dalle relazioni internazionali.
In tutto il Paese, soprattutto a partire dalla crisi del 2008, abbiamo assistito ad una crescita del numero di soggetti e organizzazioni che si impegnano quotidianamente nei contesti nei quali vivono per combattere le crescenti diseguaglianze sociali causate proprio da quella crisi. Questa cosa è particolarmente visibile in quelle che vengono chiamate aree interne, i luoghi più lontani dalle città, dove gruppi di cittadini e amministratori, più o meno organizzati, hanno provato a sopperire alla scarsità dei servizi di cittadinanza essenziali, sanità, scuola, trasporti, attraverso microprogetti di welfare di comunità, e, attraverso pratiche di rigenerazione urbana degli spazi, a rispondere ai crescenti problemi di tenuta del territorio di fronte all’abbandono e al moltiplicarsi di fenomeni naturali estremi, climatici e sismici. Infine a creare nuove opportunità di lavoro per i giovani, soprattutto in ambito culturale e turistico, ma anche della gestione del territorio e dell’agricoltura di qualità.
È cresciuta contemporaneamente, da parte di questi soggetti, la consapevolezza che per non rimanere esperienze isolate, destinate al fallimento, fosse necessario, proprio in quello che è stato definito il secolo delle metropoli globali, dare alle aree marginali una nuova centralità nelle politiche e nel pensiero dei cittadini. Ed è stato così che queste pratiche hanno incontrato ambiti teorici e politici che già da tempo guardavano l’estrema varietà di risorse ambientali, culturali ed economiche, che per buona parte è contenuta in quel 60% di territorio nazionale chiamato aree interne, come la ricchezza del nostro Paese, quel gradiente che ne fa un unicum a livello internazionale. In questi ambiti è ben diffusa la consapevolezza che le fragilità territoriali di queste aree rappresentino, non solo in Italia, una criticità esplosiva delle società contemporanee, e un moltiplicatore di diseguaglianze sociali sul quale urge intervenire con politiche dedicate.
L’incontro fra queste pratiche e la crescente sensibilità politica sul tema ha prodotto delle sperimentazioni che hanno trovato una loro casa nella Strategia Nazionale per le Aree Interne. Intervenendo in situazioni di fragilità e cercando di risolvere i problemi strutturali che una politica cieca alle differenze territoriali ha causato, la SNAI ha avuto modo di lavorare in anticipo su molte delle dinamiche che oggi riguardano il Paese, ben prima della pandemia legata al coronavirus. In sei anni di lavoro territoriale la SNAI ha maturato esperienze e tratto delle lezioni che possono contribuire ad affrontare l’emergenza attuale e per favorire la ripartenza del Paese. Vediamo quali sono.
Le aree interne chiedono una attenzione che non riguarda solo le loro evidenti fragilità, ma si propongono all’intero Paese come risorsa, come opportunità per progettare azioni e politiche solide e condivise, per questo più capaci di reggere l’urto della crisi. Una delle precondizioni perché questo possa avvenire, è però, recuperare il divario digitale di queste aree. Non sono pochi i ritardi legati all’attuazione del Piano nazionale banda ultra larga, che dovrebbe consentire di cablare i territori montani e le cosiddette aree bianche, a fallimento di mercato. Il Piano avrebbe dovuto essere attuato fino all’80% entro il 2020 ma, ad oggi, oggi solo 80 comuni sono stati collaudati su oltre 6mila. Eppure, molte delle sperimentazioni sulle quali le aree e i cittadini hanno voluto investire per disegnare una nuova offerta di medicina territoriale o una didattica più inclusiva, trovano nell’innovazione tecnologica un importante elemento di rottura e cambiamento, che aspetta di essere avviato.
Molti osservatori sostengono che terminata la crisi, nulla sarà più come prima. Ma non esistono scenari naturali. Il futuro è frutto delle scelte che facciamo oggi, delle intenzionalità collettive che diventano politiche e azioni. Questa crisi apre spazi di possibilità, dentro i quali ciò che ieri era indicibile, oggi diventa argomento che assume legittimazione nella sfera pubblica. Per le aree interne si aprono spazi di possibilità, perché sta vacillando la profezia autoavverante dell’incessante inurbamento, che ha portato negli ultimi trent’anni a costruire politiche e infrastrutture per i grandi agglomerati urbani. Abbiamo imparato che la costruzione di sistemi sociali ed economici più resilienti è fondamentale per affrontare situazioni come questa.
Questo implica sistemi sociali meno concentrati e la ricostruzione di filiere locali di beni primari: oggi i dispositivi sanitari, un domani, di fronte alla crisi ambientale, cibo, energia. Le aree interne riconquistano spazi dentro queste economie fondamentali. Ma perché sia così, c’è bisogno che oggi si lavori perché questo accada.
Per la gentile concessione delle immagini presenti nell’articolo si ringrazia Filippo Tantillo.