“Costituzione italiana: articolo 5” di Sandro Staiano
- 09 Aprile 2018

“Costituzione italiana: articolo 5” di Sandro Staiano

Recensione a: Sandro Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, Carocci, Roma 2017, pp. 176, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Ambrosino

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«La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

Articolo 5 della Costituzione della Repubblica Italiana

Il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione ci mostra un testo ancora popolare, spesso citato nei dibattiti e celebrato nei mass-media. Eppure, l’esaltazione della Legge Fondamentale supera spesso la sua effettiva comprensione, in particolare per quanto riguarda la straordinaria ricchezza di motivi e di implicazioni presenti nei primi dodici articoli. Per questa ragione, e soprattutto per evitare una mera commemorazione retorica, la casa editrice Carocci ha lanciato un’iniziativa editoriale unica nel suo genere: una serie di dodici volumetti, uno per ognuno dei Principi fondamentali, che indaga in maniera originale non solo la genesi teorica “remota” del principio e le tensioni del dibattito costituente, ma anche la sua effettiva implementazione e attualità.

Sandro Staiano, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Napoli Federico II e già sindaco di Pompei, ci guida attraverso la complessa vicenda dell’articolo 5, che definisce le forme in cui la Repubblica riconosce le autonomie locali e attua il decentramento amministrativo. Certamente, anche per questo principio valgono gli aggettivi che i curatori usano per descrivere la prima sezione della Legge Fondamentale, ovvero: «punto di riferimento stabile, immodificabile e allo stesso tempo […] ispiratore di un forte rinnovamento dell’ordinamento repubblicano»[1]. In linea con gli obiettivi della collana, quindi, anche il principio dell’autonomia viene presentato come dinamico e in costante divenire. Scrive Staiano: «L’autonomia è un principio; ma è anche un processo, che tocca ricostruire»[2]. Eppure, il sentiero che porta all’attuazione dell’articolo 5 è tortuoso, spesso poco decifrabile e privo di una certa linearità che altrove, invece, si è potuta manifestare. Usando una metafora molto riuscita, Staiano descrive il principio dell’autonomia non come un fiume che scorre placido dalla sorgente alla foce, bensì: «come un largo canale lagunare, che si muove alternativamente nei due sensi con l’andamento delle maree»[3].

Perché, il decentramento amministrativo e l’autonomia decisionale del livello locale, due degli elementi che fondano la nostra attuale Repubblica democratica, non possono essere rappresentati come il risultato di un processo uniforme, naturalmente disposto lungo una linea retta? L’originale risposta che ci fornisce Staiano è che l’applicazione strutturata del principio di autonomia è stata spesso deformata dalla mancata sinergia tra «i motori della democratizzazione: i partiti di massa […] e l’autonomia politica degli enti territoriali»[4].

In altre parole, quando questi due elementi hanno impresso al sistema repubblicano spinte contrastanti, piuttosto che lavorare in sincronia, il principio dell’autonomia – agli occhi dei Padri Costituenti «l’espressione di un modo di essere della Repubblica, quasi la faccia interna della sovranità dello Stato»[5] – ha mostrato il suo lato oscuro, irrigidendosi in una contrapposizione sterile tra il sistema dei partiti e l’apparato statale. Di questo erano ben consci anche i Costituenti, i quali avevano manifestato più volte una certa mancanza di fiducia sui modi in cui si voleva che la democratizzazione dell’Italia avvenisse. Infatti, dopo l’approvazione, l’attivazione concreta del principio dell’autonomia venne temporaneamente paralizzata. Tale «glaciazione»[6], nelle parole dell’autore, richiederà un disgelo particolarmente lungo. Le prime elezioni regionali si sarebbero tenute solo nel 1970, la prima legge sui Comuni e le Provincie sarebbe arrivata solo nel 1990 ed il nuovo testo unico solo nel 2000.

 

La genesi dell’articolo 5

La definitiva approvazione del dettato dell’articolo 5 e del Titolo V, che dal primo dipende direttamente, fu il risultato dei confronti sul tema che più di tutti polarizzò il dibattito in seno alla Costituente: la questione regionale[7]. Tale problema politico aveva già diviso senatori e deputati in passato, ed era destinato a dividerli anche in futuro. Utilizzando le parole del noto giurista Ettore Rotelli: «Il tema della regione non è mai stato popolare, né durante il fascismo, quando si giunse a proscrivere la parola dagli atti ufficiali, né durante l’età liberale, quando essere “regionisti” fu considerato l’equivalente di essere anti-unitari, né, infine, nel periodo repubblicano»[8].

La scelta di sagomare la nascente Repubblica sulla base di regioni, più che una spinta “dal basso”, fu dunque l’esito di un vero e proprio «compromesso costituente»[9] tra i maggiori partiti nazionali, che stemperarono posizioni molto divergenti fra loro: da quella liberale, già ricordata, che considerava l’accentramento decisionale quale unico presupposto per la sopravvivenza stessa dell’unità statale, fino a chi auspicava un “regionalismo forte” in senso federalista, con regioni dotate di finanza propria e potere legislativo. Anche la componente marxista considerava le regioni «una costruzione artificiosa»[10], la cui autonomia politica avrebbe riaperto le ferite del processo unitario, ma che, nella sapiente modulazione tattica dei discorsi in Assemblea, diventarono: «organi amministrativi di decentramento»[11]. Tale pragmatismo consentì di isolare il discorso politico da quello più squisitamente tecnico e dimostrò che non si voleva uno “Stato regionale” bensì una declinazione del principio di autonomia basato sull’elezione democratica di Comuni, Provincie e Regioni, in cui queste ultime altro non erano che enti di carattere precipuamente burocratico.

La genesi di queste “Regioni amministrative”, ricalcate precisamente sui comparti statistici ottocenteschi, rivelò nuovamente la mancata risoluzione della questione regionale: esse erano nate all’interno di un progetto partitico di respiro nazionale, che aveva creato incongruenze tra i ritagli costituzionali e la pulsante realtà territoriale[12]. Nelle parole del geografo Lucio Gambi, che dagli anni Sessanta iniziò una riflessione intorno a questi temi, si trattava di un’opera di “regionalizzazione senza regionalismo” in quanto: «la lunga e per molti versi matura discussione che portò alla formulazione degli articoli costituzionali […] non sviluppò l’indispensabile ricerca di quegli elementi che dovevano […] favorire il reale riconoscimento e la precisa individuazione delle entità umane che manifestano una fondata personalità di regione»[13]. Senza una seria discussione che affrontasse i nodi del problema territoriale e soprattutto che definisse chiaramente il concetto di regione, il percorso dell’autonomia si irrigidì e seguì in maniera meccanica, per effetto delle proiezioni nelle sedi parlamentari degli interessi rappresentati dai partiti, i movimenti di dislocazione del potere dal centro alla periferia. A questa impronta iniziale corrisposero i caratteri della vita pubblica delle istituzioni regionali, percepiti come enti asfittici e poco partecipati come luoghi di autogoverno e di espressione di vera autonomia rispetto, ad esempio, ai comuni.

 

L’attualità dell’articolo 5 a cavallo fra trasformazione dei partiti e riforme

La vicenda, tuttavia, si animò con la forte rottura corrispondente agli anni Novanta. La disintegrazione del sistema partitico della Prima Repubblica si accompagnò ad un clima ideologico che considerò: «la capacità di decisione efficace e rapida un valore preminente sulla rappresentatività dell’organo decidente»[14]. In altre parole, la generale sfiducia verso un’indistinta “classe politica”, unita al desiderio degli elettori di maggiore trasparenza, spinse il legislatore a risolvere frettolosamente la questione trasformando radicalmente il sistema elettivo. L’introduzione della designazione diretta del sindaco e del presidente della Provincia, definiti dalla legge 81/1993, segnò un profondo spartiacque che Staiano definisce: «la torsione monocratica del sistema»[15]. Si trattò, secondo l’autore, di uno scostamento dell’assetto autonomistico dalla prospettiva originaria della Costituzione, in cui si vagheggiava un modello plurale, alimentato dal carattere elettivo delle assemblee e funzionale ad obiettivi di democratizzazione[16]. Con la legge 81/1993 si puntò, al contrario, sull’attore, sindaco o governatore che fosse, e si proclamò una replicabilità del ruolo dominante della persona a tutti i livelli istituzionali, persino nel governo centrale, dove il Presidente poteva diventare: «Sindaco d’Italia»[17]. La torsione monocratica, secondo l’autore, ha poi una suo controparte partitica, che si è manifestata nella nascita ed evoluzione del partito personale.

Si è detto all’inizio, e Staiano lo ricorda ancora, che: «innovazione del sistema dei partiti e innovazione dell’ordinamento autonomistico sono fin dall’origine strettamente intrecciati, in un dinamismo tuttora aperto»[18]. Il partito personale, specie nel caso italiano, nasce intorno alla figura del leader carismatico ed ottiene largo consenso soprattutto nell’area di centrodestra, traendo linfa vitale proprio dall’ideologia dell’efficienza monocratica e proponendo slogan d’impatto contro cui i partiti tradizionali hanno molta difficoltà a competere. Il tema dell’autonomia, declinato in questa versione, diventa quindi slogan politico nella variante “macroregionale” del partito personale, che trasforma la vecchia “questione meridionale” in “questione settentrionale”, auspicando, se non proprio la secessione, una radicale riforma federalista dell’assetto repubblicano. I partiti tradizionali, trovandosi a dover contrastare l’attacco congiunto di due forze dirompenti e strategicamente alleate, per sopravvivere nel nuovo sistema non hanno avuto altra scelta che smussare il profilo ideologico e accogliere alcune delle istanze degli avversari. Ma la revisione del Titolo V che ne viene fuori è tutta ideologica, nonché il risultato di un clima divisivo[19]. Sarà la Corte costituzionale a dimostrarlo, leggendo nell’art.117 la: «non esaustività degli elenchi di competenza legislativa statale»[20]. Vale a dire, paradossalmente, che l’attuazione del federalismo si trasforma nel suo stesso, rapido, dissolvimento, a causa della debolezza del legislatore e della scarsa qualità della legislazione[21]. Stemperati nuovamente gli estremismi, resta però il concetto, al quale viene aggiunto l’aggettivo “fiscale”. Se non che quest’ultimo, secondo Staiano l’unico tipo di federalismo applicabile con relativo successo al caso italiano, deve fare i conti con una nuova, violenta, trasformazione degli equilibri economici. In un clima di spending review, la narrazione autonomistica della Repubblica arriva alla fase dei “tecnici”, inclini a trattare le autonomie territoriali come «dis-economie»[22] da razionalizzare.

In quest’ultimo contesto e oltre l’autore riconosce un ulteriore cambiamento nel sistema dei partiti: se fino all’esperienza dei governi tecnici era ancora possibile osservare un’alternanza tra partiti tradizionali e partiti personali, ora: «il partito personale diventa la forma, se non unica, dominante»[23]. Non solo, esso si evolve al suo interno e va a collocarsi nell’area di centro-sinistra formando la sua leadership proprio dal contesto locale, da territori regionali chiave fortemente caratterizzati da una specifica cultura politica[24].

Ed è quindi su questo sfondo che Staiano, nelle pagine conclusive, riunisce le due braccia del “canale lagunare”: il partito personale si origina in un contesto locale e si nutre di una cultura autonomista, ma per ragioni di sopravvivenza e per consolidarsi a livello nazionale è costretto a ridimensionare i ruoli degli attori locali, deprimendo così proprio il contesto autonomista nel quale era cresciuto. Nelle parole dell’autore, la torsione monocratica del sistema e la ristrutturazione in senso personalistico del sistema partitico, «retroagiscono»[25] sul principio di autonomia e legittimano una lettura dell’articolo 5 «idonea a mutare la valenza originaria di un principio inteso essenzialmente come motore di democratizzazione, che finisce per dare supporto ad assetti connotati in senso monocratico»[26].

Un libro imparziale e disincantato, da cui il lettore può senz’altro trarre strumenti utili a decifrare i processi politici del tempo presente, ispecie in un contesto di tentativi di sperimentazione da parte di alcune regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) volti a ottenere forme e condizioni particolari di autonomia[27]. Dimostrazione che i due temi principali attraversati dal volumetto, le asimmetrie territoriali ed economiche da governare e il grado di responsabilità dei territori rispetto alla gestione delle risorse, restano problemi aperti e di peculiare centralità.


[1] P. Costa, M. Salvati, Introduzione, in S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, Roma, Carocci, 2017, p. X.

[2] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 11.

[3] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, Roma, op. cit, quarta di copertina.

[4] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit.,, p. 3.

[5] G. Berti, sub. Art.5, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, il Mulino, 1975, p. 286.

[6] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, cit., p. 3.

[7] Da intendersi qui, lo riconosce anche Staiano, come questione unicamente relativa alle regioni ordinarie. La discussione sulle cinque regioni a statuto speciale non solo si rivelò laterale, ma esse stesse furono anche accettate come un fatto compiuto e costituzionalmente riconosciuto. Sull’origine delle regioni a statuto speciale si veda G. Nevola, Altre Italie. Identità nazionale e regioni a statuto speciale, Roma, Carocci, 2003.

[8] E. Rotelli (a cura di), Dal regionalismo alla regione, Bologna, il Mulino, 1973, p. 34.

[9] C. Acocella, L’autonomia scritta nella Costituzione? Non porta al “Sindaco d’Italia”, Ilsussidiario.net, 18 marzo 2018.

[10] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 19.

[11] Sono le parole dell’on. Grieco, citato in S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 20.

[12] Cfr. A. Treves, I confini non pensati. Un aspetto della question regionale in Italia, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», a. LVII(2004), pp. 243-264.

[13] L. Gambi, L’equivoco tra compartimenti e regioni costituzionali, Bologna, il Mulino, 1963, p. 156.

[14] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 62. Corsivo mio.

[15] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit.,, p. 60-61.

[16] Cfr. C. Acocella, Autonomia, partiti, ideologie nel recente volume di Sandro Staiano a commento dell’articolo 5 Cost., in «Osservatorio Costituzionale», anno VI (2018), p. 8.

[17] C. Acocella, L’autonomia scritta nella Costituzione? Non porta al “Sindaco d’Italia”, Ilsussidiario.net, 18 marzo 2018

[18] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 76.

[19] C. Acocella, L’autonomia scritta nella Costituzione? Non porta al “Sindaco d’Italia”, Ilsussidiario.net, 18 marzo 2018

[20] Ibid.

[21] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 102.

[22] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 110.

[23] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 118.

[24] Su questo tema si veda: M. Caciagli, Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, Roma, Carocci, 2017.

[25] S. Staiano, Costituzione italiana: articolo 5, op. cit., p. 120.

[26] C. Acocella, L’autonomia scritta nella Costituzione? Non porta al “Sindaco d’Italia”, Ilsussidiario.net, 18 marzo 2018

[27] P. Pombeni, La questione regionale, « Il Sole 24Ore », 6 sett. 2017.

Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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