“L’ascesa della finanza internazionale” di Giuseppe Berta
- 08 Aprile 2019

“L’ascesa della finanza internazionale” di Giuseppe Berta

Recensione a: Giuseppe Berta, L’ascesa della finanza internazionale, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2013, pp. 256, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Andrea Raffaele Aquino

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Tutti conoscono, o hanno almeno sentito nominare, il libro più celebre di Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, pubblicato per la prima volta nel 1873, e il suo stravagante protagonista, Phileas Fogg, gentiluomo londinese che accetta di compiere il periplo del globo solo per scommessa. Dall’analisi di questo romanzo Giuseppe Berta, docente di storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano, trae lo spunto per accompagnare il lettore in un avvincente racconto che ha come oggetto il concetto di finanza internazionale, la sua nascita e il suo sviluppo fino ad oggi.

Phileas Fogg rappresenta in pieno il gentleman vittoriano, enigmatico e imperscrutabile, il cui valore principale è l’azzardo e che intende dimostrare di poter dominare lo spazio e il tempo attraverso il denaro. Fogg, infatti, non viaggia per il piacere di conoscere, non si ferma ad osservare monumenti, vestigia di antiche civiltà, ma ha costantemente fretta di prendere un nuovo mezzo di trasporto rapido, avendo “la sua bibbia nel Bradshaw’s, l’orario ferroviario, e nelle tabelle di viaggio dei grandi piroscafi”[1], per vincere la sua scommessa e guadagnare altro denaro, ma soprattutto alimentare il proprio prestigio.

Verne ci restituisce un mondo caratterizzato da una modernità incalzante, che si esplicita nell’accelerazione del trasporto e che ha come propria capitale Londra (non è un caso che lo scrittore, francese, caratterizzi come inglese il protagonista del proprio romanzo). Essa è presentata come una città contraddittoria, da un lato la più avanzata del mondo, come testimonia John Maynard Keynes nella sua celebre descrizione delle “comodità” del cittadino londinese della classe agiata prima dello scoppio della Grande Guerra[2], dall’altro la più degradata, tanto da far affermare al pittore Giuseppe De Nittis, che con tanta precisione ne dipinse gli aspetti più mondani: “Nessun paese come Londra mi ha mai svelato il sottosuolo di sfacelo e di degradazione della condizione umana”[3]. Con queste parole egli si riferiva alla condizione degli slums, periferie urbane in lacerante contrapposizione con la splendente prosperità che promanava dalla City, centro economico pulsante, non solo di Londra, ma del mondo intero. In questo contesto dicotomico la mobilità sociale diviene amplissima, emergere o inabissarsi arriva ad essere rapido attraverso un nuovo gioco d’azzardo in cui si vince e si perde con straordinaria facilità: lo Stock Exchange, la Borsa.

Due voci autorevoli sulla finanza

Il giudizio dei vittoriani sulla Borsa oscillava tra l’euforico e il critico. Taluni vedevano in essa lo specchio di una società potentissima, quella inglese, talaltri un motore sociale finalizzato ad allargare la forbice tra ricchezza e povertà. Esponente di rilievo di quest’ultima “scuola” è Anthony Trollope, autore di The Way We Live Now[4] (1875), una deprecatio temporum che ritraeva a tinte particolarmente fosche una società sempre più in mano ai cosiddetti “principi mercanti”, latori di ricchezze immense. A loro immagine viene creato il personaggio di Augustus Melmotte (forse ispirato ad Albert Grant) che, dopo “un torbido passato da avventuriero della finanza internazionale, giunge a godere, soltanto per effetto delle sue ricchezze eccezionali, di una rispettabilità sociale e di una visibilità inaccessibili in una società meno prosternata al culto del denaro”[5]. E la veracità di tale assunto risiede nel vero motivo del crollo sociale di Melmotte, culminato nel suicidio: la perdita del credito. In sintesi, Trollope vede nei principi mercanti non dei gentiluomini inglesi, ma degli spregiudicati affaristi che imperniano le proprie attività sulla frode e l’inganno, caratterizzati da tratti fisiognomici che secondo Berta “sembravano recare un’evidente impronta razziale”[6].

Il contraltare di Trollope è Walter Bagehot, direttore dell’Economist, con il suo Lombard Street[7] (1873). Assunto centrale di tale testo è la proporzionalità diretta tra ricchezza e potenza e quindi il dominio planetario del the great moneyed country, l’Inghilterra, la cui City di Londra custodiva in deposito 120 milioni di sterline, contro i 40 di New York e gli “appena” 13 di Parigi (affossata, quest’ultima, dal tracollo dell’impero di Napoleone III, nel 1870): una preminenza indiscutibile. La peculiarità del mercato londinese risiedeva nel suo bacino di utenza globale, come sottolinea Berta: “vi affluivano […] in primo luogo i governi dei paesi che volevano avviarsi sul cammino della civiltà, per quello che ciò significava allora, ossia la realizzazione di infrastrutture e anzitutto di linee ferroviarie”[8]. E, in effetti, la fetta più ricca dei prestiti che la City erogava (42%), finiva non in Inghilterra (33%), né nei territori imperiali d’oltremare (25%), ma nel resto del mondo. C’era inoltre un elemento chiave che garantiva a Londra lo status di capitale finanziaria del mondo: il gold standard, ovvero la convertibilità aurea della moneta forte, la sterlina.

Bagehot parla, più che di “principi mercanti”, di merchant bankers, intermediari tra potenze straniere e Borsa, che vantavano un credito “indiscutibile”. Si formarono, col passare del tempo (e grazie al principio legale della primogenitura vigente nell’Inghilterra vittoriana), diverse dinastie di merchant bankers, che in alcuni casi fungevano da vere e proprie potenze internazionali, come ricorda Berta a proposito del ruolo dei Rothschild in difesa dell’immagine dell’ebraismo mondiale (che essi incarnavano) mediante la filantropia.

Un sistema basato sulla fiducia

Ciò che emerge dalle speculazioni di Trollope e Bagehot è la percezione che la società aveva della finanza internazionale: una gallina dalle uova d’oro, da cui attingere tutti illimitatamente. Gli eventi occorsi nella seconda metà del secolo XIX incrinarono progressivamente tale convinzione, mettendo a nudo tutte le fragilità di un sistema complicato da controllare. Come Berta sintetizza efficacemente: “Era come se le dimensioni dell’attività economica avessero via via travalicato l’alveo naturale per proiettarsi verso ordini di grandezza incontrollabili, come incontrollabili erano le reazioni che continuamente generavano, sfuggendo non solo a una ben calcolata gestione del business, ma agli stessi criteri di comprensione e di giudizio che informavano la mentalità di mercato”[9].

Le stime del dealer George W. Medley del 1878 rivelarono come più della metà dei titoli esteri commerciati dal 1820 si fossero rivelati un pessimo affare per gli investitori, a causa dell’insolvenza totale o parziale di paesi instabili economicamente e politicamente, come l’Impero Ottomano, il Perù, il Messico di Massimiliano d’Austria e l’Egitto. Si pose come inevitabile una riflessione sul comportamento sconsiderato di molti privati che si rapportavano alla Borsa in maniera troppo elementare, finendo col perdere somme considerevoli. Già nel 1862 l’Economist elaborò un vero e proprio vademecum per gli investitori, con lo scopo di enunciare criteri-guida volti ad aiutare i lettori a prendere le proprie decisioni in Borsa. Il tutto può essere sintetizzato in un concetto tanto scontato, quanto poco compreso al tempo: l’affidabilità. Non importava per quale ragione un governo straniero richiedesse un prestito, ma era cruciale sapere se esso sarebbe stato in grado di restituire il denaro con l’interesse concordato e ciò dipendeva dalla condizione politica del Paese in questione, in primis. Quanti non si sentivano in grado di effettuare scelte rischiose, potevano affidarsi ai Consols, titoli di Stato inglesi, più sicuri, ma che consentivano un guadagno minore. L’Economist non faceva pubblicità ad alcuni titoli piuttosto che ad altri, ma si limitava ad avvertire dei pericoli nei quali il lettore poteva incorrere imbarcandosi in questo o in quel prestito. Il comportamento degli investitori oscillava tra quanti attendevano pazientemente il maturare delle cedole e coloro che preferivano immettersi nel complesso (e ancor più rischioso) circuito della speculazione, comprando e vendendo titoli cercando di ottenerne vantaggiose plusvalenze.

Tutto questo convulso sistema provocava spesso desideri di rivalsa, anche violenti, da parte di quanti avevano perso denaro, in linea con le politiche imperialiste del tempo. È quanto accadde nel biennio 1867-1868, quando i possessori di titoli del Venezuela chiesero al governo Disraeli di intervenire direttamente per riscuotere i capitali dati in prestito e George J. Goschen, rappresentante della City in Parlamento asserì pubblicamente che risultava “pericoloso lasciar progredire l’idea che quando un inglese presta il suo denaro a un governo straniero, crea un obbligo nazionale, garantito da tutta la potenza del governo inglese. Gli inglesi prestano denaro ai governi stranieri, ricevendone alti interessi, perché corrono un rischio”[10]. Il desiderio di molti esponenti della City era probabilmente quello di preservare la pace per incrementare gli affari, quello di molti investitori era di riavere indietro il proprio denaro, a qualunque costo.

Un giudizio libero da stereotipi

Berta conclude il suo saggio con una lunga disamina sui molteplici giudizi che vennero riservati al concetto di capitalismo e all’alta finanza, ripercorrendone le fasi storiche e passando, perciò, per la “translatio imperii” da Londra a New York dopo la Prima Guerra Mondiale, fino ad arrivare alla crisi del 2008. L’autore tuttavia non disdegna di fornire, egli stesso, un giudizio lucido e maturo, che può essere individuato tra le righe dell’intero saggio e che spetta al lettore ricomporre. Il capitalismo, secondo quanto afferma Berta alla luce delle proprie considerazioni, non avrebbe rappresentato una minaccia alla pace internazionale, come è stato detto e scritto fino a The Great Transformation[11] (1944) dell’economista ungherese Karl Polanyi, ma una forza che puntava alla tutela di essa. Tuttavia, famiglie come i Rothschild, tutt’altro che pacifiste, si erano trasformate nei guardiani della pace internazionale esclusivamente per tutelare i propri interessi, non certo per motivazioni che oggi chiameremmo “umanitarie”. In conclusione, concordando con Polanyi, Berta afferma che “l’arma migliore della Pax Britannica non furono i cannoni della marina, ma i fili dai quali era composta la rete monetaria internazionale”[12].

La piacevole sorpresa che questo saggio riserva risiede invero nella brillante leggerezza con cui Giuseppe Berta racconta un argomento lontano dalla sensibilità dei non addetti ai lavori. Il libro non si presenta come un manuale di economia zeppo di tecnicismi, ma si configura come un testo che ripercorre la storia contemporanea mediante una chiave interpretativa attuale: la finanza e i suoi effetti sulla società.

Lo stile di Berta risulta estremamente gradevole, grazie a uno sviluppo del testo che procede come una galleria dei ritratti di alcuni fra i più noti ed influenti economisti internazionali degli ultimi due secoli. Le descrizioni, i tranches de vie, le citazioni non annoiano, ma contribuiscono ad accrescere la curiosità del lettore verso il testo, come in un romanzo.


[1] Giuseppe Berta, L’ascesa della finanza internazionale, Milano, Feltrinelli, 2013, p.13.

[2] John Maynard Keynes Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007, pp-24-25.

[3] Giuseppe De Nittis Taccuino 1870-1884, Leonardo da Vinci, Bari, 1964, p. 140, cit. in Berta, 2013.

[4] Edizione italiana: La vita oggi, Sellerio, Palermo, 2010, 2 voll. cit. in Berta, 2013.

[5] Berta, 2013, pp. 48-49.

[6] Ivi, p. 51.

[7] Edizione italiana: Lombard Street. Il mercato monetario inglese, Cassa di Risparmio di Torino, Torino, 1986.

[8] Berta, 2013, p. 53.

[9] Ivi, p. 97.

[10] Mr Goschen and the Foreign Bondholders, in “The Economist”, 14 novembre 1868, pp. 1300-1301, cit. in Berta, 2013.

[11] Edizione italiana: La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, cit. in Berta, 2013.

[12] Berta, 2013, p. 189.

Scritto da
Andrea Raffaele Aquino

Dottorando in Storia, Antropologia, Religioni, curriculum medievistico, alla “Sapienza” Università di Roma. Si è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Roma. È inoltre membro della Consulta Giovanile del Pontificio Consiglio della Cultura.

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