“Atatürk addio. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia” di Marco Guidi
- 30 Maggio 2018

“Atatürk addio. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia” di Marco Guidi

Recensione a: Marco Guidi, Atatürk addio. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 160, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Federico Rossi

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Nel complesso scacchiere mediorientale una posizione di rilievo geopolitico è sicuramente assunta dalla Turchia, vero e proprio cardine attorno a cui ruotano i Balcani europei da un lato e il Vicino Oriente siriano-iracheno dall’altro.

Ma la posizione di Ankara non è ambigua solo da un punto di vista geografico: politicamente e culturalmente infatti l’Anatolia oscilla fra un’identità più antica e radicata, quella sunnita e mediorientale, e una più recente, risalente alla creazione dello Stato turco ad opera di Atatürk, che vede l’accento posto sull’identità autonoma del popolo turco e su un suo possibile avvicinamento all’Europa. Il conflitto fra queste due anime della Turchia non ha però forse mai raggiunto un momento di scontro e insieme amalgamazione tale come adesso, sotto l’ombra del potere di Recep Tayyip Erdoğan.

È da questo punto che prende avvio il lavoro di Marco Guidi Atatürk addio. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia, edito nel 2018 per i tipi de Il Mulino. Guidi è anzitutto un giornalista e si coglie fin da subito in questo libro, che più che una ricostruzione storiografica si propone piuttosto come un reportage sul presente della Turchia, riletto attraverso la lente del rapporto con un passato sempre più conflittuale. Al centro sta infatti la figura di Erdoğan, il presidente “sultano”, visto qui in particolare nel suo tentativo di proporsi come una sorta di nuovo padre della patria turco, un ruolo che tuttavia deve contendere a livello ideale con il vero fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk.

Il volume è costruito su una serie di confronti, in primo luogo quello fra Atatürk, sostenitore di un laicismo militante e convinto del posizionamento occidentale di Ankara, ed Erdoğan, convinto dell’identità sunnita della Turchia e del suo ruolo internazionale nel Medio Oriente e oltre.

Questa giustapposizione riflette però anche una serie di divisioni parallele nel paese: una religiosa innanzitutto, che fra musulmani praticanti e laici militanti offre nel mezzo numerose sfumature diverse, ma anche una politica, che vede la vecchia amministrazione di funzionari e militari kemalisti contrapporsi alle nuove leve fedeli al partito del presidente, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi – Partito per la Giustizia e lo Sviluppo).

 

Erdoğan dalla democrazia allo Stato autoritario

Nel tracciare questo quadro Guidi non usa un ordine strettamente cronologico, scegliendo di partire da due eventi recenti e fondamentali per capire la politica turca e l’assetto odierno: il tentato golpe del 15 luglio 2016 e le proteste di Gezi Parkı del maggio 2013. Con riguardo al primo punto viene innanzitutto liquidata la tesi dell’autogolpe, sostenendo al contrario che «il golpe c’è stato ed è stato fatto da una parte minoritaria delle forze armate e fatto male; le coincidenze ci sono forse perché, semplicemente, il presidente turco aveva già deciso arresti, epurazioni, processi […]» (p.12).

Il tentato golpe quindi come un’occasione d’oro per un regime che aveva già deciso la propria involuzione, ma anche come primo colpo di Stato fallito della storia turca dopo quelli del 1960, 1971, 1980 e il cosiddetto “golpe postmoderno” del 1997, cosa che ha in un certo senso permesso a Erdoğan di ritrarsi davvero come l’uomo della stabilità, quell’istikrar che era stata la parola chiave alla seconda tornata elettorale del 2015. L’occasione presentatasi ad Erdoğan è stata quindi duplice: da un lato eliminare quei funzionari kemalisti o vicini all’ex alleato Gülen, dall’altra realizzare il sogno dell’instaurazione di un sistema presidenziale, paventato fin dal 2005 dall’AKP.

Proprio il referendum costituzionale sulla riforma in senso presidenziale della Costituzione, tenutosi nell’aprile 2017, rappresenta un altro dei punti richiamati da Guidi per evidenziare la svolta verso l’autoritarismo del governo di Erdoğan. Le nuove prerogative dell’esecutivo svincolano infatti il governo dal controllo del parlamento, che non vota più la fiducia, e permettono al presidente un controllo pressoché totale sull’amministrazione e sulla giustizia costituzionale. Ma il referendum, vinto dal Sì alla riforma con il 51% dei voti, mostra anche ottimamente la spaccatura del paese così come l’autore la descriverà alla fine del volume: la distribuzione dei voti vede infatti il No vincente in tutte le regioni curde e in quelle più urbanizzate, come le aree di Ankara e Istanbul e della costa egea.

L’altro evento richiamato preliminarmente nel libro sono le proteste di Gezi Parkı, scoppiate nel 2013 inizialmente per difendere il Parco Gezi a Istanbul, ma poi dilagate in tutto il paese come espressione di un generale dissenso, soprattutto dopo la repressione violenta attuata da parte delle forze dell’ordine. Nella ricostruzione di Guidi quest’evento assume un’importanza particolare perché per certi versi rappresenta il momento di disvelamento definitivo del regime di Erdoğan, che nel 2011 aveva cercato anche di proporsi come il punto di riferimento per i paesi interessati dalle cosiddette primavere arabe.

Erdoğan, al tempo primo ministro, rifiutò qualsiasi forma di dialogo con i movimenti della società civile scesi in piazza, preferendo piuttosto la strada della repressione del dissenso e abbandonando quindi le vesti del politico moderato. Dalle elezioni successive, vinte sia a livello municipale che nazionale, la stretta sugli oppositori si è fatta sempre più asfissiante, in particolare per quanto riguarda la stampa, duramente repressa. Da giornalista, quindi interessato anche in prima persona, Guidi mette in evidenza particolare quest’opera di distruzione degli spazi del dissenso sui media e soprattutto gli arresti massivi di giornalisti e reporter che denunciavano la deriva del regime.

Conclusa la ricostruzione degli eventi recenti, viene poi ricostruita per contrapposizione la storia dello Stato turco fino al 2002, una storia che vede al centro proprio il mito del padre fondatore Atatürk, che nel 1924 aveva creato la repubblica sulle ceneri di un impero morente. A dominare la storia della Repubblica di Turchia dalla sua morte nel 1938 alla vittoria elettorale dell’AKP nel 2002 sono però i militari, che si affermano progressivamente come la vera forza deputata al mantenimento della stabilità politica. Il primo colpo di stato messo in atto dalle forze armate risale al 1960, durante il governo del Partito Democratico di Menderes, che nel 1950 aveva strappato il potere al CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito Popolare Repubblicano), il partito fondato da Atatürk e assestatosi oggi su posizioni di centrosinistra.

Nella ricostruzione storica Guidi punta l’accento sulla frattura fra le masse, soprattutto rurali, legate alla religione e alla tradizione, e la borghesia cittadina, spesso più cosmopolita e occidentalizzata, che trova impiego perlopiù nell’amministrazione pubblica e nell’esercito e che è fortemente attratta dalla carica laicizzante del kemalismo. Questa divisione emerge in particolare negli interventi “correttivi” dei militari, messi in atto ogni volta che un governo eletto aveva tentato di deviare dal percorso tracciato dal kemalismo.

La nascita dell’islamismo politico in Turchia avviene in questo clima, soprattutto a partire dal 1980, quando, dopo l’ennesimo golpe, i militari iniziarono ad accompagnare al culto idolatrico di Atatürk il recupero della religione come antidoto a una potenziale espansione del comunismo e, come sostiene Guidi, «così facendo, paradossalmente, sono proprio i golpisti a favorire la crescita e lo sviluppo di quegli ambienti che determineranno prima il successo di Necmettin Erbakan e poi il trionfo di Erdoğan» (p.57).

Proprio la figura di Erbakan occupa un ruolo particolare nella riflessione sulla creazione della futura base elettorale dell’AKP. Egli è stato infatti il fondatore del Refah Partisi (Partito del benessere), nelle cui file Erdoğan divenne nel 1993 sindaco di Istanbul. La risicata vittoria del Refah Partisi nel 1995 aveva poi dimostrato che un partito islamista poteva essere maggioritario in Turchia e i successi di Erdoğan come sindaco, che lo avevano reso di fatto il delfino di Erbakan, contribuirono ulteriormente alla crescita dei consensi. Nel 1997 tuttavia i militari tornarono di nuovo in scena con il cosiddetto “golpe postmoderno”: attraverso la semplice minaccia l’esercito spinse Erbakan alle dimissioni e mise poi fuorilegge il RP. Nello stesso tempo anche Erdoğan stesso fu costretto alle dimissioni forzate per aver citato un passo del pensatore islamista Ziya Gökalp, cosa che da sola gli era valso un processo con l’accusa di istigazione all’odio religioso.

Dopo questi eventi Erdoğan, assieme ad Abdullah Gül e altri ex esponenti del RP, fondò nel 2001 l’AKP con lo scopo di creare un partito di maggioranza che fosse in grado di raccogliere voti oltre quelli della comunità islamica. L’obiettivo fu centrato in pieno: come scrive Guidi, «l’AKP piacque subito alle masse con le sue richieste di efficienza, onestà, con il suo islamismo fervente ma al tempo stesso (coì parve allora) pieno di tolleranza e non alieno dai valori occidentali». (p.65)

Forte di questa collocazione l’AKP riuscì così a raccogliere voti in tutte le classi e a conquistare nel 2002 la maggioranza parlamentare, seguita poi nel 2007 dalla presidenza della repubblica, che andò ad Abdullah Gül. Dal ritratto che Guidi fa dell’AKP di questo periodo emerge un partito molto diverso da quello che conosciamo oggi, un partito capace di innescare riforme tali da spingere l’UE ad aprire nel 2004 i negoziati per l’entrata in Europa della Turchia e, allo stesso, di favorire una crescita economica capace di far fronte alle carenze industriali e occupazionali del paese. Soprattutto l’AKP si dimostrò però anche un partito capace di resistere alle ingerenze dei militari, che già nel 2007 vennero rimessi al loro posto dopo aver tentato nuovamente pressioni sul governo.

Parallelamente tuttavia l’AKP si preoccupò anche di smantellare parte dell’apparato giuridico-ideologico kemalista ancora presente. La laicità di stampo francese cedette lentamente il passo ad una riapertura verso la religione, contemporaneamente anche la Costituzione elaborata dai militari nel 1980 venne smantellata grazie a un primo referendum costituzionale tenutosi nel 2010. Guidi definisce a questo proposito il periodo fra il 2007 e il 2012, ricco di successi politici per Erdoğan e Gül, come «l’età d’oro dell’AKP» (p.80).

Se però sul piano politico la sfida con lo spettro di Atatürk fu vinta in modo relativamente facile, non fu lo stesso per quanto riguarda l’estromissione dall’amministrazione pubblica e dall’esercito del personale formatosi con l’impostazione kemalista. È nella persecuzione di quest’opera, complessa ma fondamentale, che emerge la figura di Fetullah Gülen, importante e influente predicatore la cui influenza si basava soprattutto su una rete di scuole preparatorie per non abbienti.

Dagli istituti di Gülen emergono quindi le nuove leve per gli apparati amministrativi della Turchia di Erdoğan, ma il rapporto fra il predicatore e l’allora primo ministro arrivò presto ad un punto di rottura dopo una serie di incidenti che portarono alla situazione che conosciamo adesso: Gülen autoesiliatosi negli Stati Uniti e il suo movimento, Hizmet, messo al bando con l’accusa di essere al soldo della CIA e di Israele. Il rapporto fra Erdoğan e Gülen rappresenta per Guidi l’ennesima occasione per mostrare la parabola del sultano, all’inizio considerato una nuova speranza, soprattutto per la popolazione islamica, dopo gli anni di strapotere dei militari eredi del kemalismo, ma poi rivelatosi in tutte le sue sfumature autoritarie.

 

Erdoğan e il fascino dell’impero

Una simile parabola la si ritrova anche nella politica estera dell’AKP, attraversata dalla meteora di Ahmet Davutoğlu, fidato collaboratore di Erdoğan e primo ministro fino al 2016. Guidi insiste in questa fase in un’analisi del pensiero politico sotteso all’azione di Davutoğlu, un pensiero sintetizzato nel suo libro Stratejik Derinlik (“Profondità strategica”). L’obiettivo perseguito da Davutoğlu era in definitiva quello di «svincolare la Turchia per motivi geografici, storici e culturali dall’alleanza con la NATO, l’America, l’UE e, in base alla sua forza economica, al suo essere un paese musulmano e democratico poter esercitare su una zona molto vasta una sorta di potere morbido, stabilendo una pax ottomanica grazie alla quale diventare la voce di tutta l’area e poter così assurgere a naturale interlocutore delle due potenze globali: USA e Cina» (p.91).

Dopo i successi iniziali però il degenerare della situazione in Siria, la rottura con Israele, lo scandalo dei foreign fighters e la ripresa della guerra con i curdi portarono al fallimento totale della politica di Davutoğlu, che venne defenestrato dallo stesso Erdoğan. Ciò che tuttavia non è stato abbandonato, forse anche perché già era presente, è la tensione al cosiddetto neo-ottomanesimo, il recupero dei fasti dell’antico Impero Ottomano sia sul piano esterno che su quello interno. Ed è proprio qui che emerge definitivamente lo scontro ideale fra Atatürk, la mitica figura della storia turca che aveva abbattuto l’Impero, ed Erdoğan, che invece di quell’Impero vorrebbe porsi come erede.

Guidi mostra l’intreccio fra questo tema e quello più tradizionale del nazionalismo turco, che permette di affiancare al neo-ottomanesimo il tema del panturanismo, la riunione di tutti i popoli turchi sotto la guida di Ankara. Ma se sul piano interno queste strategie trovano larga applicazione, su quello esterno ha fatto sì che la Turchia perdesse qualsiasi influenza sui paesi del Mašriq e su quelli dell’Asia centrale, dimostratisi impermeabili al panturanismo.

L’ultima parte del libro è dedicata agli oppositori del regime di Erdoğan, fra cui ritroviamo la classe media cittadina e occidentalizzata, i cosiddetti “turchi bianchi” che formano l’elettorato del CHP, ma soprattutto dalle minoranze più colpite dalle politiche dell’AKP, in particolare gli alevi e i curdi. I primi sono una corrente islamica vicina allo sciismo, fortemente discriminata in Turchia già sotto i governi laici, che non trova spazio neppure adesso di fronte alla prevalenza del sunnismo di cui l’AKP è espressione.

Per quanto riguarda i curdi, il cui rapporto con il potere centrale in Turchia attraversa trasversalmente tutto il volume, Guidi mette in evidenza come le politiche di Erdoğan, e soprattutto la repressione del HDP (Halkların Demokratik Partisi – Partito Democratico dei Popoli) dopo il suo exploit alle elezioni del 2015, abbiano favorito la ripresa della lotta armata e spinto molti a ritornare alla militanza nel PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan – Partito dei Lavoratori del Kurdistan). È interessante notare, come evidenzia Guidi, che tanto con gli alevi quanto coi curdi Erdoğan aveva inizialmente cercato una mediazione, salvo poi passare all’attacco dopo aver fallito nel tentare di portarli dalla sua parte.

In definitiva il libro proposto da Marco Guidi rappresenta una disamina molto approfondita di ciò che sta accadendo oggi in Turchia. In alcuni punti forse la ricostruzione risente dell’approccio più giornalistico che storiografico, soprattutto laddove ad esempio viene a mancare una problematizzazione di alcuni aspetti critici della figura di Atatürk e si incorre in un’equazione non scontata fra modernizzazione e occidentalizzazione, ma questo non fa perdere al libro la sua capacità analitica della Turchia contemporanea.

In particolare il merito principale è forse quello di dare complessità alla figura di Erdoğan e al suo rapporto con la Repubblica. Celebre fu la citazione del presidente, riportata anche nel libro, per cui la democrazia sarebbe stata come un autobus da cui si scende una volta arrivati, un approccio alla politica che Guidi ben riassume in una frase posta a chiusura del libro: «nella sua marcia verso il potere assoluto il reis ha una convinzione: lui non è il leader dei turchi perché vince le elezioni. Lui vince le elezioni perché è il leader dei turchi» (p.137).

Scritto da
Federico Rossi

Nato nel 1995, attualmente studente di Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna e di Governance delle Migrazioni presso l’Università di Pisa, dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche Internazionali nello stesso ateneo. Attivo in alcune associazioni di volontariato e sportello legale per le migrazioni, tiene una rubrica a tema immigrazione per la rivista online “Il Fuochista”.

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