Scritto da Rudi Bogni, Lorenzo Benassi Roversi
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Assistiamo a quella che forse è la stretta dei tassi d’interesse più generalizzata e sincronizzata della storia, come l’ha recentemente definita, tra gli altri, Gian Maria Mossa, economista e amministratore delegato di Banca Generali. Ad esclusione della banca centrale del Giappone e di quella russa (che però applica tassi già molto elevati), tutte le principali banche centrali stanno alzando i tassi. Al punto in cui si è giunti, gli interventi restrittivi in fatto di politica monetaria si sono resi indispensabili al fine di disattivare la spirale inflattiva che era andata generandosi. Sentiamo dire, “che possono fare i banchieri centrali davanti all’esplodere dell’inflazione se non alzare i tassi?”. Incidere sulla massa di denaro circolante e raffreddare l’economia in tempi di inflazione a due cifre è la missione primaria delle banche centrali, non si discute. La pioggia di critiche piovute su Christine Lagarde – che ha il limite di non appartenere al mondo dei banchieri centrali e di non padroneggiarne il lessico – è più che altro un esercizio di stile, forse il bisogno di un capro espiatorio per esorcizzare gli eventi avversi. Se vogliamo essere razionali, dobbiamo riconoscere che al punto in cui siamo non ci sono alternative al rialzo dei tassi, se anche Mario Draghi si fosse trovato al posto di Christine Lagarde, non avrebbe potuto che adottare ricette simili. Ci sono due elementi in particolare che la presidente della BCE e il suo consiglio non possono ignorare: il tasso di inflazione e le scelte della Fed. Dato l’aumento dei prezzi in Europa e le scelte restrittive di politica monetaria in America, il rialzo dei tassi si è reso necessario. Il fatto che si sia proceduto ad un ulteriore rialzo di 50 punti base anche davanti alle instabilità dei mercati generate dalle crisi bancarie americane e di Credit Suisse dà la misura di quanto la via sia obbligata. La linea è quella dettata dalla Fed, che alza i tassi per abbassare l’inflazione, anche a costo di contribuire a determinare il doloroso credit crunch di cui abbiamo notizia (nell’ultima parte di marzo i prestiti delle banche commerciali statunitensi sono calati di 105 miliardi di dollari). È sufficiente guardare alle transazioni e agli investimenti fatti e denominati in dollari rispetto a quelli in euro per avere chiaro che il dollaro è la valuta di riferimento. Gli investimenti realizzati attraverso private debt, che ormai superano i prestiti erogati dalle banche, sono prevalentemente in dollari, così come gli investimenti di private equity. Nonostante il suo peso, l’economia europea a livello finanziario è decisamente ancora legata al dollaro, sia nel campo dell’energia, sia in quello della finanza. Lo yuan/renminbi fa passi avanti, ma è ancora moneta di transazione e non moneta di investimento. In Europa, una parte sostanziale del bilancio delle banche è denominata in dollari. Più le banche sono grandi, più questa parte si allarga e ciò significa che esse dipendono per la loro liquidità sia dall’accesso ai “repos” della Fed che dalle swap lines fra la Fed e la BCE.
Più che accanirsi su Lagarde allora, bisognerebbe chiedersi come siamo arrivati fin qui. I dati Istat ci mostrano come anche nel nostro Paese l’inflazione non sia semplicemente “importata”, generata cioè dagli aumenti delle materie prime e dei costi energetici, incorporati nei prezzi di beni e servizi. Le bollette dell’energia calano, eppure l’inflazione del carrello della spesa cresce ancora. C’è quindi una parte di inflazione che produciamo in casa, per così dire. Quali sono allora le responsabilità delle banche centrali? Nel periodo pandemico, abbiamo avuto un allineamento pressoché unanime e ubiquo tra politiche della spesa pubblica e politiche monetarie: si sono allargati senza pensieri i cordoni della borsa, con l’unico obiettivo di combattere il rischio di deflazione, senza badare al dopo, azzerando ogni riflessione sulle conseguenze di decisioni così radicali. Se mentre i governi di tutto il mondo adottavano politiche espansive, le banche centrali portavano i tassi in negativo, che altro poteva accadere ai primi segnali di ripresa se non un’ondata inflazionistica? Tassi troppo bassi e troppo prolungati hanno parte consistente in questi esiti. Alzare i tassi ora, è la conseguenza naturale delle scelte fatte negli scorsi anni e in particolare tra 2020 e 2021. Chi fa impresa ovviamente preferisce che i tassi siano bassi, così che il costo del denaro incida meno sui beni e i servizi prodotti. Nel nostro Paese le aziende più esposte agli svantaggi competitivi sono le imprese manifatturiere che, inserite nelle catene globali del valore, competono sui mercati mondiali. Perdere fette di mercato, se si è costretti ad alzare i prezzi perché il denaro costa di più, è un rischio concreto.
Per comprendere le dinamiche del rialzo dei tassi è necessario soffermarsi per qualche riga sul rapporto tra economia reale ed economia finanziaria, che è miope rappresentare come ambiti separati. Non ci sono cesure tra l’una e l’altra. Da decenni ormai, c’è una sola economia, che è andata sempre più finanziarizzandosi, in gran parte grazie a tassi d’interesse troppo bassi. Questo comporta che se si vuole minimizzare il rischio di bolle finanziarie, si finisce per impattare anche sulle società produttrici di beni e servizi. Viceversa, se si vuole spingere troppo sull’economia reale si finisce per creare le condizioni per il generarsi di bolle finanziarie. Il gioco dei tassi incide sempre su entrambi i fronti. Negli anni Ottanta, davanti alla necessità di reimpiegare la grande quantità dei petrodollari, il sistema bancario commise alcuni errori. Gran parte di queste risorse finì in crediti di Stato o in progetti di sviluppo in Paesi emergenti. Per la maggior parte tali investimenti finirono male e contribuirono a causare crisi del debito pubblico, pensiamo ad esempio all’America Latina. Molto spesso si verificano dinamiche di questo tipo, quando dietro ai progetti e agli investimenti non c’è una vera (e buona) idea di sviluppo, ma si è mossi solo dalla necessità di allocare risorse. In questo periodo si diffondevano i prodotti derivati e con essi i primi grandi fraintendimenti. Ricordiamo gli investimenti ben poco consapevoli di molti enti locali in Gran Bretagna, convinti di poter aggiustare i bilanci investendo in prodotti derivati. Finirono con perdite sostanziali. Non si comprendevano i rischi. Nonostante questi primi intoppi, il mercato dei prodotti derivati aumentò grandemente al punto che guardare alle borse azionarie oggi è come guardare alla punta dell’iceberg perché gran parte delle transazioni avvengono non sulle azioni, ma su derivati, attraverso i quali si scommette sugli andamenti delle azioni, sulle variazioni del loro valore. Le borse azionarie cash costituiscono parte limitata delle transazioni. In questo modo, si crea una leva finanziaria implicita attraverso i derivati, che si aggiunge a quella dei prestiti effettuati dalle banche. Quindi, una politica dei tassi bassi non significa solo che si possono erogare prestiti a tassi inferiori alle aziende dell’economia reale, ma anche che si creano condizioni di possibilità per operazioni speculative attraverso i derivati. L’opzionalità propria dei derivati incide sui mercati. Se acquisto un’opzione call, significa che pago un premio per riservarmi di fare o non fare un investimento nei prossimi tempi. Se acquisto un’opzione put, ottengo la facoltà di vendere un titolo ad un dato prezzo. E nonostante il fatto che, dopo la crisi del 2008, i derivati siano stati visti come una forma di “magia nera” dagli operatori dell’economia reale, ormai sono parte integrante dell’economia stessa. I derivati contribuiscono a determinare la disponibilità di capitali, influenzano la disponibilità e il costo del denaro e sono influenzati dai tassi di interesse applicati dalle banche centrali, così come lo sono gli investimenti nelle imprese produttrici di beni e servizi. Tanto che, non si possono contenere le operazioni sui derivati, senza deprimere l’economia reale. Alzare i tassi frena certe operazioni sui derivati, tanto quanto raffredda gli investimenti nell’economia reale. Quando si tocca la leva finanziaria, gli effetti si producono su entrambi i fronti, reale e finanziario.
Va detto che le operazioni sui derivati non sono solo speculative, anche se finora si sono descritte solo in questo senso. L’ondata dei rincari energetici ci ha mostrato con tutta evidenza come molte aziende, con buoni consulenti finanziari, abbiano potuto tutelarsi e spesso anche evitare il default, acquistando al momento giusto, un derivato sull’energia. Italia Zuccheri, grande azienda cooperativa bolognese – per sua natura non disponibile ad operazioni speculative – ha dichiarato di aver risparmiato nel solo 2022 oltre 31 milioni di euro di costi energetici proprio grazie alla sottoscrizione di un derivato a protezione dei propri consumi energetici. Se guardiamo alla Gran Bretagna, le società fornitrici di energia che non avevano fatto contratti a lungo termine, né operazioni di hedging con i derivati sono fallite o hanno rischiato di fallire. Uscendo dalla congiuntura dell’energia, possiamo pensare alle operazioni di investimento dei fondi pensione, che utilizzano anche i derivati, con l’obiettivo non di speculare, ma di garantire e tutelare gli investimenti sul lungo termine. Lo strumento del derivato oggi è centrale, anche per l’economia reale.
Stabilita questa relazione tra economia reale, finanza e tassi di riferimento, ritorniamo al tema: la politica monetaria. I momenti nella storia in cui le cose sono andate meglio sono sempre stati quelli in cui la politica monetaria delle banche centrali e la politica fiscale e di spesa pubblica dei governi hanno saputo coordinarsi. Negli anni precedenti al 2008 abbiamo visto uno sbilanciamento tra politica monetaria e politica fiscale. Nel 2020-2021, le due sono andate nella stessa direzione, ma in preda al panico e con misure di entità esagerata. Da una parte, tassi di interesse negativi; dall’altra denaro gettato con l’elicottero, senza distinzioni, ad imprese e famiglie. È sembrato che entrambe – le banche centrali e le istituzioni governative – sentissero il compito di salvare il mondo da soli. Così facendo si è ecceduto, non si sono considerate le conseguenze. E a partire dalla seconda metà del 2022 si è dovuta fare una rapida retromarcia, dolorosa.
Edward Chancellor, storico dei sistemi finanziari, combatte l’idea per cui l’unico compito delle banche centrali è tenere l’inflazione sotto il 2%. Tale mission deriva dall’equazione per cui la stabilità dei prezzi assicura una crescita stabile, senza crisi. In realtà, si sono avute bolle finanziarie anche in condizioni di stabilità dei prezzi. Si pensi, ad esempio, alla bolla delle Dot-com dei primi anni Duemila. Secondo Chancellor, invece di schiacciare a tutti i costi l’inflazione verso il basso, si dovrebbe fare attenzione al rapporto tra inflazione e livello di crescita dell’economia. Quando l’economia cresce velocemente, bisogna lasciare che il tasso di interesse cresca al suo livello “naturale” anche se esso causasse deviazioni temporanee dagli obiettivi inflazionistici o di piena occupazione. Ma cosa è successo oggi? Con le politiche dei tassi negativi, si è creata un’accentuata finanziarizzazione dell’economia, non necessaria. Questo stato di cose ha spinto l’inflazione molto sopra la crescita dell’economia e ha reso necessario intervenire con forza. In questo modo, si è lasciato che l’economia finanziaria, che per sua natura può approfittare in modo più tempestivo dei tassi bassi, finisse per pregiudicare l’economia reale, che ora deve fare i conti con un maggior costo del denaro. La grande disponibilità di denaro ha promosso l’ingegneria finanziaria, più che la produttività industriale. L’obiettivo delle banche centrali di mantenere la stabilità dei prezzi e dei costi di produzione, lasciando invece via libera all’inflazione dei valori mobiliari e immobiliari ha come conseguenza che appena il reddito da lavoro si alza, viene calmierato con tassi più alti, mentre non c’è alcun obbligo di calmierare i mercati (“l’esuberanza dei mercati”, secondo l’espressione di Alan Greenspan). Chancellor è molto critico di Greenspan e soprattutto di Bernanke. Alla guida della Fed, Ben Bernanke dal 2006 ha proseguito con una politica monetaria decisamente espansiva. Una lassità monetaria, in continuità con le ricette del suo predecessore, che esercitata per lunghi periodi ha finito per generare la bolla che conosciamo e la crisi conseguente, creando una sproporzione tra economia finanziaria ed economia reale. Pur in modo diverso, la bolla dell’inflazione è figlia non solo della scarsa avvedutezza delle politiche monetarie, ma anche del carente coordinamento con le politiche di spesa pubblica almeno fino alla crisi della pandemia.
Come è stato possibile nel 2020 e nel 2021 non considerare gli effetti di un lungo periodo di tassi negativi, commettendo un errore così generalizzato nelle proporzioni dell’intervento? Come si sono potuti sottovalutare gli effetti inflazionistici? La risposta è che all’inizio di questo biennio ci si è concentrati su un unico grande spettro, quello della deflazione. La violenza della crisi pandemica ha catalizzato l’attenzione e generato reazioni pensate per il brevissimo termine. Gli effetti dell’inversione di marcia emergono già. Una delle conseguenze di queste politiche è la rivincita dei trusts, in barba all’antitrust di matrice liberale. John D. Rockfeller senior probabilmente ne sorriderebbe. Se guardiamo al settore energetico ciò appare con evidenza, e ancor di più nel sistema bancario. La fase di imprevedibilità genera un bisogno di sicurezza a cui si risponde con scelte di concentrazione d’impresa, politiche di aggregazione (M&A) tra istituti che diminuiscono la concorrenza e aumentano il rischio di esposizione sistemica. Basti pensare al caso svizzero. L’acquisizione di Credit Suisse da parte di Ubs va in questa direzione. Sarebbe stato più saggio nazionalizzare l’istituto in crisi e riquotarlo più avanti, appena le acque si fossero calmate. Così si è fatto in Gran Bretagna con Royal Bank of Scotland e con Lloyds Bank negli anni della crisi finanziaria globale: nazionalizzazione temporanea attraverso una holding controllata e successivo refloating. È stato un errore non procedere in questo senso. Così si penalizza il personale (sarà necessario tagliare molti posti) e si pone in capo a Ubs un sostanziale rischio di transizione, creando un gruppo di dimensioni enormi, capace di generare un rischio sistemico per il Paese e per tutto il sistema bancario. Solo elemento che fa ben sperare, il fatto che a gestire la transizione sarà Sergio Ermotti, ceo storico di Ubs, richiamato in servizio, manager ben cosciente dei rischi che si corrono.
Il rialzo improvviso dei tassi ha fatto venire al pettine molti nodi nel sistema bancario, che ha reagito come ha potuto, cercando di limitare i danni. Certo non si poteva sottovalutare l’inflazione, la cui nocività non è solo una fissazione dei banchieri centrali, ma qualcosa di sperimentato e ben tangibile. Se l’inflazione supera il tasso di crescita dell’economia rischia di dare avvio ad una spirale incontenibile, capace di generare profonde fratture sociali. Gli esempi sono tanti, da Weimar, all’Argentina, alla Turchia. Ciò è particolarmente grave in un’economia come quella italiana che sconta salari bassi. La spirale inflazionistica si alimenta dell’attesa di nuova inflazione. Chi può alzare i prezzi li alza, mentre i redditi fissi subiscono, con sofferenze più accentuate per le fasce meno abbienti. In un quadro di forte inflazione, non si investe e non si risparmia in modo razionale. L’economia tende a sclerotizzarsi, si finisce in stagflazione. Sappiamo che la soluzione non può essere quella di indicizzare gli stipendi all’aumento dell’inflazione perché – come ebbe a dimostrare l’economista Ezio Tarantelli – ciò alimenta la spirale inflazionistica. In Italia, L’esperienza della scala mobile, poi abolita, lo attesta con chiarezza. Per porre rimedio e mettere sotto controllo l’inflazione, è necessario intervenire sui tassi.
Una recente ricostruzione di Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della BCE, mostra come alle fasi di inasprimento monetario sincronizzate, con interventi decisi sui tassi, abbiano fatto seguito periodi di recessione economica globale. Accadrà anche in questo caso? Si può supporre di sì. La vera domanda è: quanto sarà severa la recessione? Ora bisogna evitare di limitarsi all’unico obiettivo di frenare l’inflazione, così come negli scorsi anni avremmo dovuto evitare di concentrare tutte le energie solo ad espandere la quantità di denaro in circolazione. Altrimenti il rischio è quello di una recessione molto dura. Si tratta di una vera e propria battaglia psicologica sulle aspettative. Non bisogna portare i mercati mondiali ad attendersi la recessione, altrimenti questa finirà per arrivare con forza.
Nel nostro Paese non si è mai superato il divorzio tra Ministero del Tesoro e banca centrale (allora Banca d’Italia), voluto da Andreatta e da Ciampi nel 1981. Ancora oggi, l’indipendenza della banca centrale (garantita dal Trattato sul funzionamento dell’UE) spaventa o infastidisce molti, si vorrebbe un’istituzione più malleabile, se non asservita alle esigenze della politica. Non ricordiamo che proprio per evitare distorsioni quel divorzio fu consensuale: da entrambi le parti si riconobbe che il ruolo subalterno della banca centrale sospingeva dinamiche inflazionistiche (nel 1980 l’inflazione era al 20%) e deresponsabilizzava la politica. Ognuno deve fare il proprio mestiere, coordinandosi, ma con attribuzioni chiare. Il Governo fa politica fiscale e amministra la spesa pubblica, il Tesoro si occupa delle emissioni obbligazionarie dello Stato, la banca centrale decide la politica monetaria. Tanto più oggi che la politica si fa a suon di tweet, giorno per giorno, mentre le scelte in materia monetaria hanno bisogno di lunghe vedute e non possono rincorrere il consenso.
C’è chi si interroga sull’opportunità di invertire l’ordine delle priorità negli obiettivi della BCE, che oggi a livello statutario prevedono al primo posto il controllo dei prezzi (inflazione sotto il 2%) e in second’ordine la piena occupazione. Non sarebbe una buona idea. Già la politica tende ad espandere la spesa pubblica senza troppa attenzione all’andamento dei prezzi (basti pensare al Superbonus). Se il controllo dei prezzi passa in secondo piano anche per la BCE il rischio di non contenere più l’inflazione si espande. Tra l’altro, la piena occupazione è un obiettivo tendenziale, mai completamente raggiungibile. La BCE non controlla appieno né l’inflazione (la banca centrale non è l’unica responsabile della massa circolante, che dipende anche da altri fattori), né l’occupazione, che dipende da molti elementi. Basti pensare che c’è una parte della popolazione che decide di non lavorare.
Sarebbe opportuno piuttosto introdurre qualche flessibilità nelle politiche di controllo dell’inflazione, che negli anni scorsi sono divenute una religione – e non solo per la BCE –. Certo la stabilità dei prezzi agevola una crescita stabile e sostenibile, ma serve considerare anche altri parametri, tra questi gli effetti sull’occupazione. Ricordiamoci che se per spingere verso la piena occupazione, si negativizzano i tassi e si fa alzare l’inflazione, l’esito è quello di togliere potere d’acquisto proprio al lavoro salariato. Servirebbe una visione più olistica dell’economia e della società, una visione a lungo termine, che non si limiti a reagire alle emergenze (prima la pandemia, poi l’inflazione), ma sappia considerare la complessità del sistema economico continentale e il suo rapporto con le dinamiche economiche globali.