Recensione a: Borut Klabjan e Gorazd Bajc, Battesimo di fuoco. L’incendio del Narodni Dom di Trieste e l’Europa adriatica nel XX secolo. Storia e Memoria, il Mulino, Bologna 2023, pp. 416, 32 euro (scheda libro)
Scritto da Alessandro Ambrosino
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Non fa sconti il nuovo libro di Borut Klabjan e Gorazd Bajc Battesimo di fuoco. L’incendio del Narodni Dom di Trieste e l’Europa adriatica nel XX secolo, edizione aggiornata dell’originale sloveno Ogenj, ki je zajel Evropo (“Le fiamme che divorarono l’Europa”). Sin dalle prime pagine, il lettore è messo di fronte alla scomoda storia del rogo dell’elegante palazzo liberty che, a inizio Novecento, era la sede delle attività culturali slovene a Trieste. Inaugurato in pieno centro cittadino nel 1904, l’edificio polifunzionale era la «trasposizione in pietra e mattoni» (p. 17) delle istanze nazionali della comunità triestina di lingua slovena, nonché il simbolo dell’emancipazione della sua borghesia. Al suo interno si tenevano conferenze, balli e concerti in tutte le lingue dell’Impero. Inoltre, vi trovavano spazio l’Hotel Balkan, studi legali e numerose associazioni slovene, ceche e croate che ben rendono l’idea dell’esuberanza culturale dei “gran signori” mitteleuropei.
Affermare che la Trieste asburgica fosse un crocevia mondiale di commerci e vantasse una popolazione cosmopolita non è di per sé una novità. Ma considerare che un terzo degli abitanti dell’epoca fossero sloveni e che ciò, in numeri assoluti, rendeva Trieste la città slovena più popolosa – il doppio rispetto a Lubiana – permette di fare delle riflessioni più articolate sui concetti di “Stato” e “nazione”. Nel corso del XX secolo i due termini sono stati usati in maniera pressoché intercambiabile. Tuttavia, le nuove linee della ricerca storica, a cui questo libro offre un contributo fondamentale, li distinguono nettamente e pongono l’accento sulle identificazioni ibride, specialmente in quei contesti che hanno alle spalle «continue alternanze di confini – politici, amministrativi e simbolici» (p. 15).
Non la pensava così la classe dirigente italiana della città, che manifestava una totale intolleranza alla presenza slovena nel centro. Osteggiato dagli irredentisti, il Narodni Dom divenne per loro «un fastidioso corpo estraneo» (p. 53) che negava l’esclusività italiana dello spazio triestino. Proprio questo punto – sostengono gli autori – divenne il cardine della narrazione nazionalista che descriveva Trieste come vittima di una “invasione slava”, di cui il Narodni Dom sarebbe stato il centro logistico principale. Il crescendo di tensioni raggiunse il culmine alla fine della Prima guerra mondiale, quando Trieste fu annessa al Regno d’Italia. In un contesto di catastrofica crisi economica e sociale, dovuta alla miseria in cui versava la città e all’incertezza della situazione amministrativa, l’odiato palazzo venne incendiato dai fascisti triestini la sera del 13 luglio 1920 e non si riprese mai più dalla devastazione. Quell’evento, che secondo Renzo De Felice rappresentò «il battesimo dello squadrismo organizzato»[1], contrassegnò una svolta nello sviluppo della violenza fascista e aprì la strada ai totalitarismi del «secolo pieno di ombre»[2] – come Mark Mazower ha definito il Novecento europeo.
In questi cento anni il Narodni Dom è divenuto al tempo stesso «luogo della memoria» e «luogo dell’oblio», nella misura in cui doveva «sparire dall’orizzonte urbano […] ed eclissare l’immagine della Trieste multietnica» (p. 15). Per questa ragione – dicono Borut Klabjan e Gorazd Bajc – l’edificio e la sua eredità fino ad oggi vanno considerate alla luce di «molteplici aspetti intangibili che concorrono […] a creare e ad alimentare l’immaginario collettivo» (p. 15). Klabjan e Bajc si sono dunque cimentati in un affresco storico di lungo periodo che, dalla descrizione delle dinamiche sociali nei decenni antecedenti all’incendio, tratteggia poi le sue conseguenze a lungo termine[3]. Le finestre in fiamme del Narodni Dom diventano pertanto una prospettiva unica per osservare processi di costruzione identitaria collettiva, creazione di miti storici e trasformazioni della memoria fino al presente. Con un approccio che ricorda la microstoria di Carlo Ginzburg[4], gli autori rileggono le vicende delle borderlands adriatiche e dell’Europa intera attraverso un evento cardine, ponendo «grandi domande in piccoli luoghi»[5]. Come ha inciso il Narodni Dom sui sentimenti collettivi di appartenenza? Che collocazione ha avuto il concetto di Narodni Dom nell’evoluzione dello spazio? Del Narodni Dom si può parlare solo in termini nazionali?
L’ambizione di rispondere in maniera compiuta a questi e ad altri quesiti si riflette nella ricchezza delle fonti: sono ben diciannove gli archivi consultati, con documenti in sette lingue, a cui si aggiungono interviste, materiali fotografici, stampe varie e una vasta bibliografia che copre sia la prospettiva locale italo-jugoslava – oggi slovena, croata e serba – che quella internazionale. L’opera non ambisce a colmare lacune relative ai fatti che scandirono la dinamica dell’incendio ma si propone piuttosto di integrare il quadro di analisi con nuove prospettive di tipo transnazionale e comparativo. In questo modo, il libro offre ai lettori un vero e proprio «caleidoscopio di sfumature interpretative» (p. 19), che spaziano dal punto di vista delle autorità a quello dei dipendenti dell’hotel, passando per le nuove scoperte documentarie che gettano luce su alcuni passaggi oscuri del destino del Narodni Dom nei decenni post-1945, come i veti delle amministrazioni cittadine e delle autorità centrali perché l’edificio non finisse in mani slovene. La restituzione del palazzo agli sloveni nel 2020 offre infine l’occasione per riflettere sull’uso della memoria dall’una e dall’altra parte e per un discorso di più ampia portata sulla capacità di confrontarsi con “l’Altro”[6]. L’opera dell’architetto Max Fabiani diventa quindi specchio del «livello di democraticità della società italiana – e più in generale di quella europea – rispetto alle proprie intrinseche diversità» (p. 19).
Le diverse competenze dei due autori, esperti rispettivamente della transizione post-asburgica e di storia politica dell’area altoadriatica, hanno determinato la struttura del libro. In esso si equilibrano otto capitoli di differente lunghezza, che legano la pluralità di nessi tra territorio, società e istituzioni. Se nel primo e nel secondo leggiamo dello sviluppo di Trieste e della lotta per lo spazio pubblico tra gruppi nazionali, nel terzo i punti nodali sono il caos amministrativo e la crescente intolleranza che seguì il collasso dell’Austria-Ungheria a Trieste, una situazione comune a molti altri contesti centroeuropei. Nel quarto capitolo, invece, entriamo nel cuore del libro. Con uno stile che si fa quasi poliziesco, gli autori ricostruiscono nel dettaglio il contesto di odio e violenza che sfociò nell’incendio, le dinamiche dello stesso, le diverse percezioni che ne ebbero i contemporanei e «l’insabbiamento delle responsabilità» (p. 182).
Tale dovizia di dettagli permette agli autori di confutare alcune tesi della “versione ufficiale” – poi ripresa senza tanti preamboli anche a Roma. Ad esempio, il fatto che l’assalto al Narodni Dom fosse stato giustificato dai “fatti di Spalato”, ovvero la morte di due marinai regi e un croato negli scontri tra le due fazioni l’11 luglio 1920 nella città dalmata. Oppure che l’incendio fosse stato la conseguenza di non meglio precisate provocazioni slovene. O ancora, che l’incendio fosse stato causato dall’esplosione di armi presenti dentro l’edificio, una tesi allora sostenuta con forza dalla stampa italiana. Nulla di tutto ciò ha trovato riscontro nelle fonti. Anzi, l’incrocio delle diverse prospettive – tra cui spiccano i rapporti consolari di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Cecoslovacchia e i racconti degli inquilini dell’hotel – mette a nudo le connivenze di militari, forze di polizia e addirittura dei pompieri con i fascisti, nonché il loro coinvolgimento nell’intera vicenda, ponendo il dubbio che si trattasse di un evento organizzato a tavolino. D’altra parte, l’incendio del Narodni Dom fu solo l’inizio di una serie di violenze che colpirono tutte le province recentemente annesse, in modalità simili e senza epiloghi giudiziari.
I capitoli successivi raccontano il destino del palazzo dopo il disastroso rogo e il suo complesso rapporto con la società triestina. L’incendio assestò un trauma fatale agli sloveni della regione, che se ne andarono a decine di migliaia o “diventarono” italiani. Di grande fascino sono qui le storie dei singoli, forse la maggioranza, che rimasero “indifferenti”[7] alle cause nazionali ma si adattarono alla nuova situazione praticamente per sopravvivenza. Parallelamente, la stretta fascista sulle minoranze impedì la ricostruzione dell’edificio carbonizzato, il quale venne venduto ad un prezzo irrisorio nel 1924 e trasformato nell’Hotel Regina. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Governo militare alleato ne fece un circolo ufficiali fino al 1954, anno in cui Trieste ritornò all’Italia. L’Hotel Regina rimase attivo fino al 1976, anno in cui fece da tetto a molti friulani sfollati dal terremoto. Qualche anno più tardi, l’edificio fu ceduto gratuitamente all’Università di Trieste, che nel 1997 vi collocò la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori.
In tutto questo tempo, la comunità slovena ha cercato più volte di rientrare in possesso del suo centro polifunzionale ma, tra intoppi burocratici, veti incrociati e difficoltà finanziarie dovute alla dissoluzione della Jugoslavia, ogni tentativo si era risolto in un nulla di fatto. Infine, la Legge 23 febbraio 2001, n. 38, “Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia”, ha riconosciuto, tra le altre cose, anche il diritto degli sloveni di Udine, Gorizia e Trieste, di usufruire della loro «casa di cultura»,[8] che è stata simbolicamente restituita il 13 luglio 2020. Nell’attesa del trasferimento della Scuola interpreti e confidando nella rapidità dell’iter di restituzione (sic!) il cerchio si sta gradualmente chiudendo, sebbene le polemiche a livello locale rischino ancora di sabotare la ricerca di una soluzione condivisa. Comunque, sostengono gli autori in conclusione, tali temi esulano dalla storiografia. Ma senza considerare le dinamiche storiche degli ultimi cento e più anni, «qualsiasi tentativo di trovare un punto d’incontro sul futuro del Narodni Dom, della città di Trieste e dei rapporti italo-sloveni sarà destinato a rimanere precario» (p. 315).
Alla fine della lettura, balza agli occhi la precisione della ricerca storica e la capacità dei due autori di trarre conclusioni generali a partire da un singolo caso. In ciò, Klabjan e Bajc rispondono egregiamente alle critiche di chi, tra gli addetti ai lavori, sottolinea i limiti degli approcci metodologici che prendono “una parte per il tutto”. Esulando invece dal piano specialistico, ciò che rimane al lettore – che, non va dimenticato, legge l’edizione italiana – è un certo senso di inquietudine nel trovarsi davanti alla prova manifesta del favoreggiamento alla violenza fascista da parte delle autorità locali, alle quali si aggiunse la “benedizione” delle massime istituzioni dello Stato e addirittura il giubilo di una buona fetta di triestini. Ancor più disturbante è poi la presa di coscienza della continuità di questa connivenza nei decenni successivi al 1945, che discriminò (e in parte continua a farlo) la comunità slovena secondo la concezione tipicamente razzista per cui la cultura “slava” sia di rango inferiore. Si tratta di un triste capitolo della storia recente di tutta l’area del confine, in cui non furono circoli locali sovversivi e/o violenti ad avere le maggiori responsabilità, ma gli apparati statali dell’Italia democratica.
In un’intervista, Gorazd Bajc ha affermato: «Il libro è scritto in maniera storica e non politically correct, che è ciò di cui l’Europa ha bisogno»[9]. Per questo motivo, il volume va consigliato soprattutto al pubblico italiano, di modo che possa confrontarsi con i danni fatti dall’omologazione nazionalista nelle aree di frontiera e con il proprio passato fascista. Inoltre, se è vero che il fuoco del Narodni Dom è stato il battesimo dell’intolleranza, è importante far proprie le parole del grande scrittore triestino Boris Pahor, recentemente scomparso, e far leggere il libro «a tutti coloro che si sentono europei, perché in esso c’è l’inizio della loro storia contemporanea e tutta la complessità della nascita delle dittature».
[1] Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965 / 2019, p. 624. Citato in Borut Klabjan e Gorazd Bajc, Battesimo di fuoco, op. cit., p. 116. Cfr. Federico Tenca Montini, recensione di Ogenj, ki je zajel Evropo. Narodni dom v Trstu 1920–2020, di Borut Klabjan e Gorazd Bajc, «Geschichte und Region/Storia e Regione», 31, n. 2 (2022), pp. 222–224.
[2] Mark Mazower, Le ombre d’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2019. Citato in Borut Klabjan e Gorazd Bajc, Battesimo di fuoco, op. cit., p. 15.
[3] Federico Tenca Montini, recensione di Ogenj, ki je zajel Evropo, p. 223.
[4] Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1976 / 2009.
[5] Charles Joyner, Shared Traditions. Southern History and Folk Culture, University of Illinois Press, Urbana 1999, p. 1.
[6] Cfr. Barbara Costamagna, La storia del Narodni Dom ora anche in italiano, «Radio Capodistria», 16 luglio 2023.
[7] Tara Zahra, Imagined Noncommunities. National Indifference as a Category of Analysis, «Slavic Review», 69, no. 1 (2010), pp. 93-119.
[8] Legge 23 febbraio 2001, n. 38, Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia.
[9] N. Š., Ogenj, ki je zajel Evropo: “Še pred fašizmom so bile te iskre, ki so vžgale dom”, «RTV SLO», 26 agosto 2021.