Scritto da Alessandro Venieri
10 minuti di lettura
«Debere» in latino significa “dovere, essere debitore, essere costretto”, ma anche «essere tenuto per legge di natura”. «Debitus», il participio perfetto del verbo da cui il nostro sostantivo debito, può pertanto indicare ciò che è dovuto – il debito propriamente detto – ma anche ciò che è destinato o riservato, o ancora quel che è doveroso.
Sin dal principio, il debito non è stato unicamente inteso in senso economico, ma anche come un’istituzione sociale dai profondi risvolti morali. Il vincitore ha il dovere di risparmiare la vita al vinto, lo sconfitto a sua volta è in debito con il vincitore: gli deve la vita.
Non sorprende pertanto che attraverso il debito i grandi classici vogliano talvolta scandagliare i riflessi più profondi dell’animo umano. La prima delle novelle di Boccaccio, quella di Ser Cepparello, è incentrata su debiti, debitori e usurai, mentre Il mercante di Venezia di Shakespeare riporta il debito alla propria radice più viscerale, al di là dei legami sociali, dove Shylock va ad ipostatizzare l’immagine dello strozzino in maniera tanto efficace da diventare un nome comune ancora oggi utilizzato nella lingua inglese.
Il dibattito contemporaneo è sommerso di riflessioni sul debito e sugli indebitamenti. Su tutte spicca la fatica storico-antropologica di David Graeber, prematuramente scomparso a Venezia proprio poche settimane fa. In Debito. I primi 5000 anni, l’antropologo statunitense arriva a sostenere che «il debito è diventato la questione centrale della politica internazionale», andandone a snocciolare l’origine e l’evoluzione attraverso continenti e culture distantissime tra loro, fino ad arrivare alle evidenze più recenti di un’economia mondo che si regge sul deficit[1].
In particolare si parla sempre più di debito pubblico, ovvero lo stock dei deficit accumulati da un ente pubblico nel corso del tempo, il cui titolo di proprietà appartiene a coloro che ne detengono le obbligazioni e che percepiscono pertanto un interesse fino alla data di scadenza delle stesse. Graeber stesso, nel suo volume, assegna alle formazioni politiche un ruolo di primissimo piano nello sviluppo del concetto contemporaneo di indebitamento. Le riflessioni sono particolarmente accese in Italia, dove il debito pubblico ammonta a più del 130% del PIL ed è in crescita più o meno costante dallo scoppio della crisi del 2007-2008[2].
Mentre anche altri paesi europei vedono gonfiarsi i propri deficit, gli economisti hanno generalmente suonato l’allarme ed evidenziato come il crescente indebitamento di alcuni paesi dell’unione monetaria sia una delle più preoccupanti pietre di inciampo lungo il percorso di convergenza macroeconomica all’interno dell’Eurozona. La mutualizzazione del debito, come anche l’emissione di titoli di debito comune all’interno dell’Unione, sono stati visti spesso come due possibili strumenti per porre un freno alle asimmetrie macroeconomiche e per affiancare all’unione monetaria un’effettiva unione fiscale[3].
La decisione presa dal Consiglio Europeo di dare il via libera ad una emissione massiva di titoli di debito comune (chiamati, nella vulgata, “Eurobond”) rappresenta, pertanto, un passo decisivo verso la ripresa del processo di integrazione, verso una «ever closer Union», secondo quanto nel 1981 affermato nella dichiarazione solenne sull’Unione Europea.
Molta attenzione è stata dedicata – giustamente – ai dettagli tecnici dell’accordo, un compromesso tra stati frugali e coloro che hanno sposato le proposte della Commissione in seguito all’accordo franco-tedesco. Relativamente meno rappresentata nel dibattito è una posizione che interroghi gli aspetti funzionalisti – o meglio, neo-funzionalisti – della questione, che si ponga ovvero il tema dei possibili spillover istituzionali ed economici derivanti dalla decisione di una ‘creazione’ di debito sovrano. A titolo esemplificativo delle conseguenze dirette e indirette dell’istituzione di un debito pubblico, conviene rivolgersi ad un caso storico specifico, collocato alle origini stesse dell’indebitamento pubblico.
La capacità fiscale dello Stato concepita in maniera moderna, e cioè tale da permettere alle finanze pubbliche di contrarre prestiti garantiti da entrate future, si sviluppa e prende forma nella penisola italiana tra Duecento e Quattrocento. Affinché si arrivasse all’elaborazione di un debito comune occorreva la presenza di un tessuto finanziario e commerciale diffuso, composto da un numero limitato di famiglie abituate ad intrattenere rapporti correnti le une con le altre, dotate di enormi somme liquide e capaci di dominare o fortemente influenzare le istituzioni cittadine.
Un ulteriore fattore determinante è la presenza di istituzioni rappresentative a livello cittadino, oltre che le possibilità di controllo e di gestione del territorio possibili in un ambito ristretto come quello di un comune medioevale italiano (al riguardo interessanti le ricerche di David Stasavage[4]).
In questo contesto, gli esperimenti di indebitamento pubblico più avanzati furono rispettivamente quelli di Genova e Firenze, già giunti a maturazione in pieno XIV secolo. Proprio il caso fiorentino è destinato a far scuola, innestandosi su una tradizione di avventurieri finanziari abituati già da tempo a prestare denaro sul breve termine alle maggiori monarchie europee. Fece clamore il fallimento del Banco dei Bardi e di quello dei Peruzzi del 1346 per la mancata restituzione di lire sterline 125.000 da parte del re plantageneto Edoardo III impegnato nelle sue guerre dinastiche in terra francese, una disavventura finanziaria agilmente narrata da Carlo Cipolla in Tre storie extra vaganti[5].
Occorre tuttavia fare attenzione alla sottile distinzione che intercorre tra questo tipo di debiti, contratti da re e principi avendo come garanzia le proprie sostanze e gli eventuali bottini di guerra, e i debiti pubblici, che vengono contrattati a nome della collettività e quindi anche delle entrate pubbliche.
In maniera analoga ai grandi sovrani d’oltralpe, la contrazione di debiti a livello cittadino era dovuta perlopiù ai dissesti finanziari lasciati dalle frequenti guerre con città e signorie vicine. Tali conflitti, spesso non risolutivi, venivano combattuti in maniera crescente attraverso l’impiego di mercenari e compagnie di ventura piuttosto che tramite l’arruolamento coatto e le perquisizioni in natura.
È la circostanza tanto di Genova, che contrae il primo debito pubblico addirittura nel XII secolo, per poter pagare i noli per la spedizione spagnola contro le città di Tortosa e Almeria, quanto di Firenze, la quale si trova costretta a contrarre debito per affrontare le mire di Mastino della Scala, signore di Verona, e nel 1345 gravata da un passivo di 450.000 fiorini. Non riuscendo a garantire il pagamento del debito secondo i termini precedentemente negoziati con membri del popolo grasso – i quali erano parte integrante dell’apparato politico comunale – la repubblica fiorentina decise la formazione di un Monte comune.
In tale accezione, il “monte” semplicemente assumeva il significato di somma accantonata da un insieme di persone per un determinato scopo, fosse esso commerciale o di utilità comune (oggi persiste traccia nell’espressione “monte ingaggi” riferito a società sportive). Il Monte comune di Firenze, simile in quanto a struttura al banco di San Giorgio di Genova, trasformò le vecchie prestanze in titoli di rendita perpetua ad un tasso del 5%, esentato da qualsiasi forma di tassazione e permutabile senza limiti[6].
Il servizio del debito veniva garantito dalle entrate del Comune, attraverso un insieme di prelievi i quali non possedevano all’epoca un’identificazione unitaria come oggi vengono intesi i moderni sistemi fiscali[7]. La creazione del Monte fu un escamotage finanziario che all’epoca non venne visto come un passo decisivo verso la creazione di un debito pubblico stabile e duraturo. Esso rappresentò piuttosto un sotterfugio per affrontare una situazione di insolvenza determinata da una improvvisa impennata del “deficit”. D’altro canto, gli esponenti del popolo grasso trovarono conveniente trasformare i propri prestiti a breve scadenza in obbligazioni perpetue capaci di fruttar loro un ben maggiore introito sul lungo periodo. Il tutto avvenne in un clima di a-sistematicità ed improvvisazione.
Ad esempio, solo a distanza di circa un quarantennio fu avvertita la necessità da parte di Lionardo di Niccolò di Beccanugi, nel 1383, di avviare la contabilizzazione delle sostanze pubbliche, dei flussi di cassa così come degli stock di capitali[8].
Come sostiene Anthony Molho, sembra che lo sforzo di Beccanugi fosse un’iniziativa del tutto privata, un miglioramento apportato per aiutare in primis se stesso nella propria attività di provveditore della Camera dei provveditori e dei massai[9]. Prima di questo momento, non esisteva a Firenze un sistema che registrasse tutte le rendite, i ricavi e le spese, tanto più che spesso diverse camere e organismi ricevevano in appalto il compito di esigere tributi e prelievi.
Siamo in un periodo – occorre precisarlo – in cui ancora non erano diffuse delle tecniche contabili standardizzate (la partita doppia, che comincia a farsi largo nel Trecento e a conquistare popolarità solo nel Quattrocento, venne perfezionata da Fra Luca Bartolomeo de Pacioli, un collaboratore e amico di Leonardo, con il suo Tractatus de computis et scripturis, contenuto nel più ampio Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proportionalità, del 1494[10]). Il processo di sistematizzazione e contabilità procedette spedito nei decenni successivi, raggiungendo il proprio apice negli anni Venti.
Un effetto indiretto della sistematizzazione ed espansione del debito pubblico furono le imprese territoriali della Repubblica Fiorentina, la quale raddoppiò l’estensione dei propri domini in un arco di cinquant’anni. A ciò si accompagnò una concentrazione delle ricchezze, secondo lo schema tristemente noto di “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite”, a vantaggio della stessa compagine socio-economica che aveva nelle proprie mani le redini del potere e le obbligazioni del debito pubblico e che si rafforzò dopo la repressione dei Ciompi.
In breve tempo il Monte «si evolse in un organo effettivo dello Stato in via di modernizzazione, guidato da un’oligarchia che era totalmente radicata a seguito della reazione alla rivolta dei Ciompi» e, oltre alla raccolta delle tasse ordinarie, «gli Ufficiali del Monte […] ottennero il controllo dell’amministrazione delle tasse indirette, della supervisione delle spese statali, e dell’amministrazione di quasi tutte le attività fiscali, incluse le sanzioni per i criminali»[11].
Come risultato di questa concentrazione, la Firenze del Rinascimento sulla quale cominciava a svettare la cupola del Brunelleschi era una delle entità sociali più diseguali – in termini economici – del proprio tempo. È possibile risalire, come ha fatto Scheidel nel suo The Great Leveler, ad un indice di Gini di 0.79 (e addirittura dello 0.85, visto che non sono rappresentati i nullatenenti) prendendo in esame il catasto della Repubblica Fiorentina, che viene introdotto nel 1427 su forte spinta di Giovanni di Bicci de’ Medici (bisnonno di Lorenzo il Magnifico) ed è mirato a ripartire in maniera più equa la tassazione dopo che le tensioni in seno alla popolazione si erano fatte esplosive, con nuovi moti durante gli anni Venti[12]. Il dato è particolarmente sorprendente se confrontato con i paesi oggi più ineguali al mondo (il Sud Africa è fermo a 0.63) ma rilevante anche se paragonato alle realtà del tempo, ovvero le ricche e popolose città della Francia, delle Fiandre e della Germania, dove difficilmente si arrivava oltre lo 0.75[13].
Con il catasto, determinato da un’esplosione del debito pubblico in seguito all’ennesima guerra contro i Visconti, arriviamo al termine del processo di sistematizzazione e contabilizzazione dell’economia della Repubblica, un processo che sul lato fiscale troverà espressione in un tassazione rinnovata in senso proporzionale, mantenuta anche dai Medici una volta assunto il comando della Repubblica sotto Cosimo il Vecchio.
La parabola fiorentina del debito pubblico è istruttiva secondo diverse prospettive. Innanzitutto ci parla di alcune costanti storiche che sembrano ripetersi: nuovi strumenti di indebitamento collettivo vengono solitamente adottati in seguito a shock finanziari esterni (guerre, pandemie) o domestici (fallimento dei banchi dei Bardi e dei Peruzzi, tumulti). In ogni caso, per far fronte a situazioni di eccezione tali da mettere a rischio l’ordine sociale.
Questi strumenti vengono creati innovando esperienze pregresse in maniera però spesso incompleta. Tale incompletezza di solito fa sorgere ex post il problema di generare un flusso di cassa continuo nel tempo, tale da permettere una gestione bilanciata degli interessi sul lungo periodo, per cui l’evidenza storica ci confronta con un’inversione dei nessi causali intuitivi secondo cui il sistema fiscale nasce prima della contrazione di debito pubblico. Il tema si ripropone anche con l’emissione degli Eurobond: con un budget comunitario in via di approvazione sostanzialmente invariato rispetto a quello precedente, e considerando la natura di finanziamenti a fondo perduto di più della metà del recovery fund, in molti (tra cui l’ex primo ministro Monti) danno per scontata l’introduzione di nuove imposte comunitarie[14].
A Firenze la quadra venne trovata con una pressione fiscale maggiore e sempre più sistematica che gravava in maniera sproporzionata sui ceti più poveri e meno rappresentati a livello cittadino. Ciò andò ad accelerare una dinamica di crescente disuguaglianza che negli anni Venti aveva raggiunto connotati inquietanti, erodendo il “consenso fiscale” sul quale poggiava la comunità fiorentina.
Tenendo a mente le esperienze pregresse e i casi della storia, l’Unione può approfittare della finestra di opportunità che le si concede in un momento di crisi come questo per armonizzare le imposte su capitali, redditi elevati e imprese a livello comunitario, unico modo per andare a tamponare la problematica dello shopping fiscale. Potrebbe fare ciò andando contestualmente a rimodulare le imposte sui consumi da cui trae a tutt’oggi una parte non trascurabile del proprio bilancio, essendo queste ultime delle imposte regressive per definizione e particolarmente deleterie in un periodo di acuta contrazione economica come l’attuale.
D’altro canto, le necessità finanziarie dell’indebitamento pubblico possono portare ad un’inedita capacità esplorativa di quelle che sono le sperequazioni economiche in una società. Come sostiene Piketty, «è importante capire bene che l’imposta in sé non è mai solo un’imposta: è sempre un modo di irrobustire definizioni e categorie, produrre norme»[15].
Un esempio di ciò è proprio il catasto fiorentino del 1427, un esperimento di localizzazione ed estimo dei patrimoni ed immobili che per l’epoca fu rivoluzionario e che venne elevato a modello in tutto il continente europeo. Svestito della propria usuale aura di neutralità, occorre riconoscere che dietro il discorso dell’indebitamento pubblico dovrebbe sussistere una visione ancor prima che economica anche etica e sociale. Tale visione trova supporto in un sapere che il potere politico deve avere il coraggio di produrre, riconoscendo che la crisi contingente ha portato alla luce dinamiche e difficoltà strutturali più profonde, ovvero la crescita preoccupante delle sperequazioni sia a livello domestico che comunitario.
[1] Graeber D., Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano 2012, p. 9.
[2] Marzinotto B., Italy grapples with its public debt: a dog chasing its tail, in Contemporary Italian Politics 2, vol. 12 (2020); pp. 200-213. Per una traiettoria del debito pubblico italiano si rimanda al sito dell’Eurostat.
[3] De Grauwe P. e Moesen W., Gains for all: a proposal for a common Eurobond, in CEPS, Policy Brief (2009).
[4] Stasavage D., States of Credit: Size, Power, and the Development of European Polities, Princeton University Press, Princeton 2011.
[5] Cipolla C. M., Tre storie extra vaganti, il Mulino, Bologna 1994.
[6] Villani G., Nuova Cronica, 1348, edizione critica a cura di Giovanni Porta, 3 voll., Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda Editore in Parma (1991), Libro Tredecimo; consultabile a questo indirizzo.
[7] Ibidem: «E nel detto mese di febraio per lo Comune si fece ordine che qualunque cittadino dovesse avere dal Comune per le prestanze fatte al tempo di XX, come adietro facemmo menzione, che·ssi trovaro più di DLXXm di fiorini d’oro, sanza il debito di meser Mastino della Scala, ch’erano presso di Cm fiorini d’oro, si mettessono in uno ligistro ordinatamente; e dare il Comune ogni anno per provisione e usufrutto a ragione di V per centinaio l’anno, dando ogni mese la paga per rata di mese; e diputossi a fornire il detto guiderdone parte della gabella delle porti e d’altre gabelle, la qual montava l’anno da fiorini XXVm d’oro, ov’erano asegnate le paghe a meser Mastino; e pagato lui, fossero diputate alla detta sodisfazione; il qual meser Mastino fu pagato del mese di dicembre per lo modo diremo inanzi. E cominciossi la paga della detta provisione del mese d’ottobre MCCCXLV».
[8] Molho A., Lo Stato e la finanza pubblica: Un’ipotesi basata sulla storia tardomedioevale di Firenze in Origini dello Stato: Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, ed. Giorgio Chittolini, Anthony Molho, and Pierangelo Schiera, Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico vol. 39, il Mulino, Bologna 1994.
[9] Ibidem.
[10] Pacioli L., Su[m]ma de arithmetica geometria proportioni [et] proportionalita, Venezia: Paganinus de Paganinis (1494). Consultabile a questo indirizzo.
[11] Goldthwaite R. A., The Economy of Renaissance Florence, The Johns Hopkins University Press, Baltimora 2009, p. 501 (traduzione dell’autore).
[12] Scheidel W., The Great Leveler. Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2018, p. 93 e seguenti. Traduzione italiana: La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, il Mulino, Bologna 2019.
[13] Ibidem.
[14] The EU’s recovery fund revives a debate on common taxes, «The Economist», 01/08/2020.
[15] Piketty T., Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014, p. 873.