Recensione a: Giulio Tatasciore, Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico, Viella, 2022, pp. 348, 29 euro (scheda libro)
Scritto da Ignazio Veca
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Il brigante italiano come tipo e come stereotipo
Nel 1833 il poligrafo e viaggiatore scozzese Charles MacFarlane pubblica a Londra una ponderosa opera in due volumi dal titolo altisonante: The Life and Exploits of Banditti and Robbers in all Parts of the World. Si tratta del primo compendio sistematico del brigantaggio, un’enciclopedia che raccoglie quanto la letteratura di viaggio, i romanzi, i giornali e le opere teatrali avevano affastellato nei quattro decenni precedenti intorno alla nuova figura del brigante. Quest’ultimo era diventato infatti un tipo sociale, un personaggio che si era incarnato in una presenza incombente sull’immaginario europeo agli albori della contemporaneità, in un ambiguo commercio tra realtà e finzione. Ma si trattava di una figura dai caratteri geograficamente ben definiti. Tra malcelata pseudo-erudizione e palese finalità d’intrattenimento, oltre la metà della corposa raccolta di MacFarlane era dedicata infatti alla penisola italiana e alle sue appendici insulari, con una predilezione insistita per il Meridione continentale.
Questo perché il Sud della penisola era considerato la «terra del brigantaggio per eccellenza». Era un paese fortemente orientalizzato, dove le condizioni politiche e sociali avevano prodotto un nuovo tipo di criminale, che proliferava ai margini e in costante negazione della civiltà europea. Il brigante, appunto. Alla complessa e affascinante genealogia di questo tipo sociale è dedicato Briganti d’Italia, il primo libro di Giulio Tatasciore, che negli ultimi anni ha percorso in lungo e in largo le peripezie del brigante italiano come figura polimorfa che ha colonizzato le menti degli uomini e delle donne dell’Ottocento.
Negli ultimi anni la storiografia italiana sul brigantaggio ha attraversato un momento di forte sviluppo e trasformazione. Abbandonata la lettura sociale del fenomeno che aveva contraddistinto le interpretazioni novecentesche, la nuova storia si è rivolta di più alla politica e alla cultura del XIX secolo, con risultati rilevanti non solo nel decostruire le narrative neoborboniche e i rigurgiti apologetici alimentati dalla saggistica più spregiudicata degli ultimi decenni, ma anche e soprattutto nell’approfondire la conoscenza di quel pezzo importante di passato. Di questo nutrito filone di studi il libro di Tatasciore è insieme parte integrante e intrigante diversione. Il lettore troverà infatti riferimenti precisi alla guerra del brigantaggio del 1860-70 e alle dinamiche politiche post-unitarie della penisola italiana solo nelle ultime pagine del volume. Il centro della ricostruzione tratta d’altro. All’autore non interessa il brigantaggio come fattore militare e politico nella genesi del nuovo Stato nazionale, e nemmeno – almeno in prima battuta – l’endemica formazione di bande armate come problema persistente del Mezzogiorno italiano. I briganti di cui è andato in cerca Tatasciore sono figure più evanescenti ma allo stesso tempo tremendamente ingombranti e palpabili. L’autore accompagna i suoi lettori in un’ampia esplorazione di quello che definisce un «immaginario romantico». Fin dall’inizio, il libro si propone infatti di indagare la costruzione culturale del brigante come tipo della classe criminale, e cioè le rappresentazioni multiformi che di questa figura sono state prodotte e offerte a un pubblico variegato.
Dichiaratamente ispirata ai maestri francesi della storia dell’immaginario (su tutti, il compianto Dominique Kalifa), questa ricerca sull’archeologia del tipo brigantesco procede in un felice andirivieni tra le pratiche di consumo culturale e quelle poliziesco-militari come poli che orientano genesi e utilizzo delle figure criminali nella sfera pubblica. E una prima acquisizione importante che questo metodo consente di fissare è proprio la ricollocazione della nascita degli schemi di lettura del brigantaggio a quel primo Ottocento che è stato momento di incubazione di molti prodotti culturali della contemporaneità. Briganti d’Italia propone una cronologia che parte dalla fine del Settecento per seguire le metamorfosi dei suoi protagonisti fino agli anni Settanta dell’Ottocento. Segue la genesi del tipo del brigante dalle ceneri della cultura moderna sei-settecentesca, di quel mondo criminale e misterioso che cultura alta e cultura bassa si rimpallarono per secoli, alla nuova configurazione che intellettuali e scrittori romantici diedero di una figura sociale apparentemente immobile ed eterna. E per capire come la figura del brigante si sia formata attraverso progressive stratificazioni, Tatasciore spazia al di fuori della penisola italiana, tra Parigi, Londra e Ginevra, a dimostrazione del fatto che ogni vera comprensione dei percorsi di definizione delle identità regionali – e in primis quella del Meridione d’Italia di cui il brigante diviene figura – passa necessariamente dal paziente districamento dei transfert culturali internazionali.
In principio fu Karl Moor. Il protagonista dei Masnadieri (Die Räuber), il dramma con cui Johann Friedrich Schiller esordì la sera del 13 gennaio 1782 al Nationaltheater di Mannheim, riscuotendo un clamoroso successo tra le generazioni che uscivano dall’Antico Regime. Estetica della violenza e immaginario della trasgressione si univano nel personaggio del bandito come metafora del dissidio tra libertà e costrizione in questo manifesto della sensibilità romantica. Ma la sua importanza non si limitò soltanto al mondo della letteratura: attraverso una lunga serie di adattamenti, traduzioni e riproposizioni Karl Moor generò una progenie di figure che tracimarono dalla carta stampata e dai palchi di teatro per invadere il mondo sociale dell’Ottocento. E ciò fu reso possibile grazie ad una affascinante e complessa catena di ibridazioni che si nutriva della dettagliata tassonomia della marginalità offerta dai repertori descrittivi della devianza di Antico Regime, degli ambienti misteriosi e intricati rinverditi dal romanzo gotico, dell’immaginario del pittoresco e del sublime prodotto da una reinterpretazione estremizzata dei quadri di Salvador Rosa, e non ultimi dei resoconti di viaggio ingrossati dal turismo intellettuale nel Sud di una penisola italiana descritta come terra selvaggia. Da questo intreccio venne fuori quel brigante sublime che rappresentava in inchiostro e carta il nesso tra violenza e libertà, insieme al fascino e all’inquietudine che sintetizzava.
Ora, precocemente – almeno a partire dai Mémoires secrets et critiques des principaux états de l’Italie (1793) dell’avventuriero Giuseppe Gorani e dal Rinaldo Rinaldini (1798) di Christian August Vulpius – questo complesso discorsivo comune alle diverse culture europee migra verso l’Italia. Come e perché la morfologia polisemica del brigante sublime finisca per ripiegarsi su un luogo geografico particolare – l’Italia appunto – non viene pienamente chiarito, mentre si esplora piuttosto il «guazzabuglio fatto di sangue, eroismo e dilettevole raccapriccio» (p. 65) della banditti mania del passaggio di secolo. Questo modo di procedere è proprio della critica tematica apertamente richiamata come modello analitico, interessata più alla presenza ricorrente di linguaggi, motivi e tipi, che a spiegare le ragioni della loro comparsa e trasformazione. Ma, a differenza di molti critici letterari, lo storico intesse qui opportunamente l’analisi della circolazione dei temi alle pratiche sociali e politiche che ne orientano gli usi e le trasformazioni.
I quattro capitoli del libro seguono infatti un andamento cronologico, focalizzando l’attenzione su altrettante sequenze tematiche alla luce del contesto tanto culturale quanto politico. Alla costruzione del registro romantico del brigante, proposta nel primo capitolo, segue la ricostruzione del progressivo delinearsi del paradigma della classe criminale a cavallo tra Rivoluzione e Restaurazione. Il nuovo tipo sociale si carica di una rinnovata valenza pittoresca che si sviluppa in una tensione tra interpretazioni in chiave eroica e folkloristica, un doppio registro che accompagnerà le successive metamorfosi della figura del brigante. A queste implicazioni è dedicato il terzo capitolo che abbraccia i densi anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, fino al crocevia delle rivoluzioni quarantottesche. Di contro, il quarto e ultimo capitolo segue il tema della rivolta popolare tra Risorgimento e anti-Risorgimento, un nodo che vede intrecciata questione criminale e questione politica, col corollario di una questione sociale che comincia a tratteggiarsi come ansia diffusa nel mondo post-unitario. In un epilogo che fa da conclusione all’esposizione della ricerca si porta il lettore a cogliere i segnali di una «agonia del brigante italiano» romantico, per usare una espressione del criminologo Scipio Sighele: un intero sistema di rappresentazioni – ambigue e pluriformi, oltre che pervasive – fino ad allora dominanti sembra crollare sotto i colpi della soluzione (precaria) del problema politico del brigantaggio e la sua medicalizzazione da parte della nuova antropologia criminale, come se gli elementi esterni che si erano nutriti della ricca affabulazione su queste figure misteriose venissero di colpo a mancare. Il tipo smise di produrre stereotipi funzionali. O meglio, la stereotipia seguirà altre strade, migrando verso altri referenti e altri contesti.
Il lettore rimane colpito dalla perdurante e ricorrente «vischiosità della categoria di brigante» (p. 104), quasi che – a dispetto dai tentativi dei contemporanei e degli storici dopo di loro – una definizione stabile di questa figura sociale fosse sempre scivolosa. Ciò è dovuto a una peculiarità che emerge a tratti molto chiaramente dal lungo percorso di formazione di questo tipo sociale: prima di essere una categoria o una figura dotata di referente, il brigante italiano fu un «atto linguistico intenzionale, dai fini connotativi, largamente radicato nella cultura politica ottocentesca» (p. 257). A ben vedere, la criminalizzazione del nemico tramite la categoria del brigante fu solo una delle ricadute semantiche di questi giochi linguistici a tratti contraddittori. Oltre a essere un tipo sociale, il brigante era un’accusa o – come direbbe John L. Austin – un atto perlocutorio, e cioè un enunciato performativo che mira ad ottenere sull’ascoltatore reazioni specifiche, siano esse di riprovazione e terrore o di adesione e fascino. E così questo immaginario potrà oscillare tra carattere protestatario e incubo reazionario, eroe rivoluzionario e icona controrivoluzionaria, vendetta degli oppressi e manovalanza degli oppressori: il brigante poteva essere tanto il difensore dei deboli quanto il bravaccio che li vessa, tutto dipendeva dalle intenzioni del locutore.
L’indeterminatezza denotativa era però accompagnata da una stabile connotazione, quella fissata dall’iconografia di cui il ricco apparato di immagini offre alcuni esemplari. Il brigante italiano si contraddistingue per una “divisa” caratteristica che ne accompagna le trasformazioni semantiche come un marcatore culturale di riconoscimento: il cappello “a punta”, il mantello e i nastri svolazzanti, immaginette votive appuntate al petto o alla cintura accanto a uno stiletto, fucile in mano e calzature fissate al polpaccio. Intorno a questi elementi, nota giustamente Tatasciore, si gioca la «partita della tipizzazione» (p. 122). Circolando nella letteratura da viaggio e saltando da una litografia all’altra grazie ai mezzi offerti dalle nuove tecniche di stampa, il tipo si fissa nella trama discorsiva, diventando una icona regionale riconoscibile. È l’abito a fare il brigante, dunque, ma le circostanze politiche ne modellano il senso.
Senza l’esperienza napoleonica e le insorgenze di inizio Ottocento, con il loro corollario di repressione poliziesca e sperimentazione della guerra per bande, il brigante sarebbe forse rimasto una figura esuberante destinata a popolare romanzi e diari di viaggi esotici, non diversamente dai Thugs e dai Mohicani di Fenimore Cooper. Ma il brigante italiano, questo selvaggio folklorizzato delle «Indie di quaggiù», si dimostra un battitore libero la cui presenza informa pratiche d’ordine pubblico e comunicazione politica, identità politiche e forme dell’espressione in pubblico. E così, il dispositivo romantico del brigante sublime subisce varie trasformazioni. Il tipo del brigante italiano si stabilizza come soggetto di un contro-mondo separato, una classe distinta della società tramite il riconoscimento di comportamenti tipizzati, con le sue regole, i suoi costumi e il suo sistema di parentela (compresa la femme du brigand).
Al parallelismo con le “classi pericolose” e la costruzione sociale del delinquente nel secolo del crimine per eccellenza, fa da pendant l’inserimento di questa figura nella lotta politica dell’età del Risorgimento. Seguendo gli studi sugli oggetti e la teatralizzazione della politica che si sono sviluppati negli ultimi anni, Tatasciore sottolinea l’uso che i patrioti italiani fecero della “divisa” del brigante. Ma il dato forse più interessante che emerge è che, rispetto alla parabola generale del tipo del brigante, quegli usi sono ricollocati in una stagione tutto sommato limitata del lungo Ottocento, frutto del parossismo teatralizzante degli anni Quaranta e dell’esplosione Quarantottesca. Il brigante come icona patriottica e sovversiva di ascendenza cospirativa comincerà infatti a ribaltarsi nel suo opposto fin dagli anni Cinquanta, in virtù di quel gioco perlocutorio che dall’esaltazione del ribelle porta alla criminalizzazione del nemico politico: segno del malgoverno borbonico e papalino, il brigante diventa devianza plebea destinata a scomparire con la lotta alla miseria e il buon governo; un vizio patologico da debellare. Al padre dell’antropologia criminale e medico militare nella campagna del brigantaggio degli anni Sessanta, spetterà travasare parte dell’immaginario romantico affastellato nei decenni precedenti nelle sue famigerate tipizzazioni antropometriche. Cesare Lombroso troverà nell’analisi frenologica del cranio del brigante Giuseppe Vilella la presunta base sperimentale della sua teoria dell’atavismo. E così, le origini culturali in senso lato della più controversa delle scienze positivistiche vengono giustamente riportate a quell’immaginario sociale che il romanzo, il teatro e la paraletteratura romantica avevano lasciato in dote all’età delle scienze sociali in formazione.