Recensione a: Sonia Lucarelli, Cala il sipario sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo, Vita&Pensiero – ASERI, Milano 2020, pp. 284, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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Il quesito che campeggia nel titolo di questo volume oggi più che mai viene riproposto dall’estendersi della pandemia e dalle sue potenziali e devastanti conseguenze economiche. Come in tutti i momenti di crisi non sono mancate le previsioni di esperti ed analisti: c’è chi prevede un radicale decoupling della globalizzazione, chi l’accelerazione di dinamiche antecedenti la pandemia, chi auspica la resilienza dell’ordine liberale, chi prevede l’ascesa della leadership della Cina e infine chi rimane più ottimista sulla preminenza degli Stati Uniti. Ad accomunare queste posizioni, alla luce della crisi sanitaria, la riflessione sul futuro della globalizzazione e dell’ordine a suo sostegno. Tuttavia, supporre che una nuova forma di governance emergerà per il fatto che la precedente ha fallito l’appuntamento con la storia è una falsa credenza. Leggere l’ultimo libro di Sonia Lucarelli, seppur uscito qualche mese prima lo scoppio della pandemia, ci può aiutare a capirne il motivo. L’ordine liberale internazionale non è stato un caso fortuito o congiunturale, ma il prodotto di oltre due secoli di germogliazione, riflessione e prassi del pensiero liberale. Da tempo questo sistema è indubitabilmente in crisi, e non sono mancate importanti riflessioni a riguardo anche nel panorama italiano, editoriale e dei think tank. Il covid-19 ha così esasperato tensioni laceranti, tra i suoi soggetti e dentro di essi, che questo volume ben evidenzia discutendo l’organicità dell’ordine liberale: come intimo riflesso delle aspirazioni e promesse della democrazia liberale di guidare il mondo verso un destino che sembra oggi sfuggirle di mano.
Un mondo perduto? Successi e utopie del liberalismo
Dopo una breve ma essenziale ricognizione dei classici del pensiero (Adam Smith, Immanuel Kant, Jeremy Bentham) e del loro contributo alla formulazione dei suoi principi cardine, il primo atto è dedicato alla genesi dell’ordine liberale. Le radici storiche che legano l’ascesa dell’Occidente e la progressiva formazione – intellettuale e poi materiale – dell’ordine liberale sono da ricondursi al successo di tre pilastri: il capitalismo, la costruzione dello Stato e l’ideologia del progresso. La progressiva affermazione di questo modello avrebbe creato disuguaglianze tra Paesi industrializzati e non; esteso al sistema internazionale l’organizzazione statuale come unità fondamentale; promosso ideologie (liberalismo, socialismo, nazionalismo e “razionalismo scientifico”) figlie dell’Illuminismo e fortemente accomunate da una convinzione: «la possibilità di costruzione di un ordine migliore» (p.38). Ed è di questa forte asimmetria – la supremazia politico-economica rispetto al resto del mondo – che si è nutrita l’autorappresentazione dell’Occidente: la sua capacità e volontà di esportare una narrazione, un modello di sviluppo e allo stesso tempo di legittimarli tramite la costruzione dell’ordine liberale. Questa riflessione rimane la tara essenziale per soppesare quanto la crisi dell’ordine liberale, oggi, sia in parte strutturale per la ridistribuzione del potere a livello mondiale. Ma ci torneremo dopo.
L’eurocentrismo che caratterizzò la politica internazionale sino alla Prima guerra mondiale (1776-1914), con l’imperialismo europeo a testimoniare la centralità del Vecchio Continente rispetto alle periferie coloniali, non produsse un superamento sostanziale dell’ordine vestfaliano. Solo a conclusione della Grande Guerra si sarebbe insinuato un discorso – quello della criminalizzazione della guerra e del disciplinamento della sovranità statuale – racchiuso nei 14 punti di Woodrow Wilson e nel Trattato di Versailles, con la creazione della Società delle Nazioni. Eppure, questo proto-ordine liberale («versione 1.0») non si sarebbe dimostrato all’altezza della storia: rimanendo fortemente «razzista e imperialista» e deficitario del suo ideatore (gli Stati Uniti) avrebbe fatto emergere a poco a poco, con la torsione del capitalismo industriale nei totalitarismi e nella guerra totale, quelle “ombre dell’Europa” a certificarne il declino morale e materiale.
A raccogliere lo scettro e il globo dalle macerie della Seconda guerra mondiale, dopo aver compiuto “un passo avanti per salvare e liberare il Vecchio Mondo”, gli Stati Uniti. L’ordine post-1945 trovò nella Carta Atlantica il testamento dei suoi padri fondatori, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt, e così il mondo si sarebbe dovuto plasmare ad immagine e somiglianza della rinnovata tradizione liberale per fuggire dagli orrori del passato. Tuttavia, l’ideologia liberale avrebbe trovato la sua nemesi poco più ad Est, la conferma che ancora una volta l’ordine liberale non coincideva con il sistema internazionale. Come scrive Lucarelli, «la Guerra fredda […] emergeva non tanto dalla meccanica conseguenza di una distribuzione bipolare del potere nel sistema internazionale, quanto da un processo di costruzione sociale della contrapposizione incentrato su una graduale definizione dell’identità delle due superpotenze» (p.43). Stati Uniti e Unione Sovietica avrebbero così accettato una “convivenza antagonistica” cercando ciascuna di legittimare il proprio “ordine” tramite un modello di sviluppo, istituzioni e narrazioni nei rispettivi blocchi. Nel frattempo, «l’ordine liberale 2.0» – di chiara matrice statunitense – veniva edificato a partire da quattro pilastri: democrazia, istituzioni internazionali (ONU, Banca Mondiale), sicurezza collettiva (NATO) ed economia internazionale aperta (GATT, Bretton Woods). Ciascuno di questi si sarebbe consolidato godendo della disponibilità materiale e della volontà politica degli USA – l’«egemone benevolo» – di garantire la produzione di “beni pubblici globali”, quali sicurezza e stabilità economica, a beneficio di quella particolare armonia realizzatasi tra liberalismo e intervento statale nelle democrazie occidentali – il «liberalismo imbrigliato» – che avrebbe raggiunto il suo zenit negli anni Settanta. Ed è in questa sintesi molto efficace che il lavoro di Sonia Lucarelli va particolarmente apprezzato, nel caratterizzare l’eccezionalità dell’ordine liberale sulla «continuità tra ordine interno e ordine internazionale, sulla superiorità della democrazia liberale […], sul multilateralismo, l’universalismo delle norme, la progressiva liberalizzazione dei mercati, e su un capitalismo stemperato dallo Stato sociale» (p.52).
Un successo, quello dell’ordine liberale – specialmente rispecchiatosi, secondo l’autrice, nel processo d’integrazione europea – che ha con il tempo scontato limiti e contraddizioni: il suo particolarismo geografico, incentrato in Occidente, le pratiche imperiali imposte dalla competizione bipolare e l’erosione progressiva di uno dei suoi fattori abilitanti: ben presto si sarebbe infatti fatto strada «un liberalismo senza vincoli», proclamatosi vincitore della Guerra fredda e dunque legittimato dalla pacifica risoluzione di quella lotta manichea – capitalismo vs. comunismo – ad abbracciare l’intero globo terrestre, a liberare la vocazione universalistica della “democrazia di mercato”. Perché la nuova ondata di democratizzazione sarebbe diventata la conditio sine qua non per accedere ai benefici di un’economia globalizzata, puntellata da nuove istituzioni come il WTO e dalla progressiva «legalizzazione delle relazioni internazionali» tramite sofisticate forme di governance regionale. Il declino generale della violenza interstatale sembrava certificare uno degli assunti principali dell’internazionalismo liberale, con l’impegno a perseguire la violazione dei diritti umani. Democrazia, benessere e sicurezza. Le promesse dell’ordine liberale 3.0, tuttavia, ancora una volta, sarebbero state sconfessate dall’urto della storia che ne avrebbe forzato le contraddizioni interne.
La sfida all’ordine liberale, secondo Sonia Lucarelli, ha assunto diverse forme. Tutte hanno fortemente minato la sua credibilità e legittimità. Dapprima l’emergere delle “guerre del quarto tipo” hanno mostrato, a dispetto della retorica umanitaria, l’incapacità dell’Occidente di farsi garante della pace, specialmente nelle sue periferie (Jugoslavia, Somalia). In seguito, lo shock dell’11 Settembre ha risvegliato gli antichi demoni del liberalismo, rompendo quel delicato equilibrio tra libertà e sicurezza. A livello domestico, con un sacrifico delle libertà individuali in nome della “guerra al terrorismo”. A livello internazionale, la crisi del multilateralismo e la reazione militarista dell’amministrazione Bush hanno inquinato l’immagine dell’ordine liberale: improvvisamente non più benevolo, bensì egemonico, pronto a cedere alle sue «pulsioni imperialiste» alla ricerca di “qualche mostro da distruggere”. Insomma, non un mondo più sicuro. Ed è in questa frattura che si insinua «l’idea che Europa e Stati Uniti […] incarnassero […] diverse visioni dell’ordine internazionale giusto» (p.67). Una convinzione che l’autrice ripropone spesso per invocare un ruolo più proattivo dell’Unione Europea in qualità di «potenza normativa».
Inoltre, la difficoltà ad esportare, quasi compulsivamente, la democrazia e impiantarla in «assetti culturali e sociali difficilmente compatibili con la centralità dell’individuo» ha finito per confermare le tesi delle potenze illiberali sull’infondata pretesa universalistica dell’ordine liberale. Non solo dal punto di vista ideologico. La crescita economica cinese e l’assertività della Russia avrebbero stimolato una nuova riflessione sulla paternità dell’ordine globale, sulla necessità di creare istituzioni internazionali alternative in grado di dare voce all’ascesa del resto del mondo – specialmente l’Asia-Pacifico. Ma è qui che la tesi del volume entra nel vivo. Se la narrativa dell’Occidente, sulla superiorità del modello democratico-capitalista come mezzo per raggiungere le nuove frontiere della modernità, è in crisi, argomenta l’autrice, allora i successi di Pechino e il rilancio di Mosca nel picconare l’ordine liberale non sarebbero stati così evidenti «se l’Occidente e l’ordine da questo sostenuto non fossero entrati in crisi dall’interno» (p.75).
Quali sono stati i sintomi? Dapprima un’insofferenza transnazionale, poi in seno alle nazioni occidentali, rispetto alle esternalità negative della globalizzazione neoliberista. Le profonde disuguaglianze interne ai singoli paesi; una crescita globale a scapito della tutela dell’ambiente e delle fasce più svantaggiate; la risposta poco efficace alla crisi finanziaria del 2007/08. Fenomeni che non rispecchiavano le promesse di un mondo più equo e giusto. Da qui la delegittimazione delle istituzioni internazionali e di quelle scelte di politica economica che hanno nutrito un fenomeno strisciante: il populismo nella sua incarnazione sovranista di destra e sinistra. L’autrice vi dedica un’ampia riflessione, cercando di presentare una “categoria” concettuale spesso abusata, guardando ai suoi caratteri distintivi: la centralità del popolo e del suo leader; l’atteggiamento anti-élite e anti-istituzioni; l’individuo-massa. Elementi che sono fortemente in antitesi con le fondamenta della democrazia liberale e che, a loro volta, vengono riflessi in un approccio in politica estera – «personalistico», «erratico» e «antiglobalista» – volto a massimizzare un non specificato «interesse nazionale». Tuttavia, prosegue l’autrice, questa crisi di rigetto, stando ai fatti, non avrebbe del tutto destabilizzato l’organismo liberale: tanto per la resistenza delle democrazie occidentali (in termini elettorali e valoriali) «all’urto del fronte populista», quanto per l’incapacità delle potenze autoritarie di tradurre il leverage economico in un «ordine realmente alternativo a quello liberale» in termini di «istituzioni e valori» (pp.94-95).
Ma questo è soltanto uno degli scenari che, come nota Lucarelli, sono stati in questi anni elaborati dai teorici delle relazioni internazionali. Una riflessione che ha portato a domandarsi come l’ordine liberale potrà resistere, ristrutturarsi o soccombere dinanzi al mutamento inarrestabile del sistema internazionale in termini geopolitici. In questo senso vi è una «una predominanza di attenzione rispetto alle sfide “esterne”» che sembra sottostimare l’impatto di trasformazioni epocali sulle nostre società e sui principi fondanti del liberalismo. Sono sfide “interne” che già stanno mettendo a dura prova la capacità della politica di rispondervi adeguatamente. E qui, a parere di chi scrive, si rileva l’altra chiave di lettura che costituisce un contributo essenziale nel dibattito sulla crisi della democrazia liberale: l’impatto della globalizzazione economica, della rivoluzione digitale e di una nuova stagione dei diritti nel riscrivere l’equilibrio tra politica ed economia nelle nostre società.
Governare l’entropia
Il secondo atto si presta a tutti gli effetti ad un’analisi della “complessità”. Perché questa è la realtà del XXI secolo. Quella delle profonde trasformazioni. Oggi, il numero di eventi (o fattori) a noi sconosciuti che potrebbero alterare il corso della storia è infinitamente più grande rispetto al passato. Questo ha enormi implicazioni sulla politica internazionale. Come ha scritto Randall L. Schweller, osserviamo come ci si stia muovendo «da un sistema ancorato a costanti relativamente prevedibili, ad un sistema che è, se non intrinsecamente sconosciuto, molto più erratico, incerto e privo di regolarità comportamentali. In termini geopolitici, ci stiamo spostando da un’età dell’ordine all’età dell’entropia». L’entropia è la misura scientifica del disordine: maggiore è l’entropia di un sistema, maggiore è il suo grado di disordine. Ma come si può misurare l’entropia di un sistema sociale? Uno dei principali ostacoli ad uno sguardo di questo tipo è una sorta di taboo cognitivo. Ogni ordine sociale pretende, per la sua stessa esistenza, che il suo schema di regole e convenzioni non vengano mai soppiantate. Tuttavia, la storia ci ha aiutato a riconoscere alcuni pattern del cambiamento. Qualsiasi turbolenza che abbia alterato le condizioni di vita degli individui ha prodotto, quasi inevitabilmente, decisive oscillazioni in quel sistema di valori e comportamenti per reagire al mutare di condizioni ritenute “familiari”. Di conseguenza, più un sistema è percepito essere vicino al collasso, più riluttanti saranno le persone a conformarsi alle sue regole, mentre qualsiasi organizzazione sociale tenderà a minimizzare le previsioni che anticipino il suo declino. Questa breve riflessione è necessaria per capire la stretta correlazione, come mostra Lucarelli, tra economia, tecnologia e diritti, di come l’ordine sociale delle democrazie occidentali abbia patito una cospicua regressione delle aspettative e condizioni di benessere, come l’avvento dell’era dell’informazione digitale abbia scosso le nostre abitudini sociali e come questo spaesamento si sia tradotto in un assalto frontale per richiedere e imporre nuovi diritti a tutela di un ordine sociale indebolito. E lo scarto tra percezione e realtà in questo meccanismo si è fatto enorme. A danno, soprattutto, della legittimità dell’ordine liberale.
Quest’ultimo ha cercato di istituzionalizzare – stabilendo regole e normative – un processo d’integrazione globale, su più livelli di connettività[1]. Se fino agli anni Settanta la liberalizzazione dei mercati era stata subordinata al successo delle politiche economiche degli Stati – piena occupazione, crescita e benessere – ben presto quell’«ordine economico liberale di impronta keynesiana entra in crisi». Il «disimpegno» statunitense dagli accordi di Bretton Woods, «il rallentamento della crescita economica» e la «crisi fiscale» dello Stato sociale incrinano la fiducia nelle politiche espansive dei decenni precedenti. Da quel momento, «il mercato acquisiva centralità rispetto alla politica» inaugurando un periodo di «deregolamentazione dei movimenti finanziari», di «frammentazione della produzione» in lunghe catene globali del valore soprattutto grazie alla rivoluzione informatica (pp.116-17). Dagli anni Novanta ad oggi l’interdipendenza economica globale ha prodotto risultati contrastanti: da un lato si è ridotta considerevolmente la disparità di reddito tra centro (Occidente) e periferia (resto del mondo), mentre la concorrenza internazionale incentivava a scalare le catene del valore: più efficienza, più specializzazione. Questo è stato chiaramente realizzabile grazie ad una precisa strategia: si trasferiva la produzione di beni a basso valore aggiunto per abbattere i costi del lavoro e per concentrare investimenti in settori più competitivi. Tuttavia, se l’ingresso nell’economia mondiale di paesi emergenti (BRICS) ha in parte realizzato quella “grande convergenza” con l’Occidente, gli effetti economici nel medio periodo hanno dimostrato che non tutti i Paesi e non tutte le classi sociali interne ad essi hanno beneficiato delle opportunità dischiuse dalla globalizzazione. Inoltre, una maggiore integrazione economica non ha implicato – come la teoria liberale auspicava – una progressiva democratizzazione dei regimi autoritari, che hanno saputo invece sfruttare tali aperture per legittimare un controllo autoritario ancor più ferreo e per partecipare – con un peso economico accresciuto – nei grandi consessi internazionali senza, in realtà, possedere le credenziali democratiche. Ma sono gli effetti domestici della globalizzazione economica a preoccupare maggiormente l’Autrice. Lo spostamento di specifiche produzioni, il rafforzamento di monopoli e colossi digitali, l’esclusività del know-how finanziario e informatico e l’incapacità di redistribuzione dei sistemi di welfare hanno contribuito ad una «polarizzazione geografica e sociale» delle opportunità, della mobilità e del benessere delle società occidentali. E così «la trasformazione del mercato del lavoro interno, la sua precarizzazione, la diffusione dell’economia digitale» hanno finito per indebolire il funzionamento dei «corpi intermedi» e diffondere una «sicurezza ontologica» al punto da corrodere il tessuto sociale delle democrazie rappresentative. L’ascesa di Donald Trump, emblematica seppur in un contesto socio-politico particolare come quello americano, ha dimostrato un «disagio […] radicato che tocca nel profondo i principi dell’ordine liberale dentro e fuori gli Stati Uniti» (p.145).
Se la regressione di fiducia che ha colpito la democrazia rappresentativa trae origine dallo shock economico, la rivoluzione digitale, «linfa vitale dei processi di globalizzazione», ha avuto effetti psicologici ed esistenziali tanto nell’alterare i rapporti interpersonali, quanto nel trasformare il funzionamento della «sfera pubblica». Questo è avvenuto su due piani. A livello “internazionale” perché l’innovazione digitale, seppur Lucarelli riporti alcuni timidi tentativi costruttivi, non è stata ancora affiancata da un robusto sistema di governance. Anzi, data la centralità futura del cyberspazio, oggi osserviamo come «la battaglia in corso per dati e privacy» sia la prova di una «tensione di fondo tra cosmopolitismo digitale e trinceramento degli Stati in nome della sicurezza nazionale; tra principio di libertà e necessità di controllo; tra fiducia nel progresso ed esigenza di porre dei limiti tra un Internet globale aperto e una pluralità di ‘Internet nazionali’» (p.159). Questa tendenza è in parte anche il portato di una crescente competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, forse le uniche vere superpotenze in questo campo – seppur l’autrice coltivi la speranza che l’Unione Europea riesca ad elevarsi come “campione normativo” al fine di prevenire scandali come quello di Cambridge Analytica o l’intrusione nelle vite dei cittadini di agenzie governative come nel caso delle rivelazioni di E. J. Snowden. Entrambi i casi hanno dimostrato l’estrema vulnerabilità dei cittadini e l’incapacità delle istituzioni dell’ordine liberale a tutelarne tanto la sicurezza quanto l’esposizione alla «fenotipizzazione digitale» a scopi commerciali. A livello domestico, invece, gli strumenti digitali sono diventati una pericolosa “arma a doppio taglio” a disposizione della politica e dell’opinione pubblica. Sonia Lucarelli, in questa direzione, individua con grande lucidità cinque effetti corrosivi per il corretto funzionamento della società liberal-democratica: la disintermediazione, la trasformazione dell’identità sociale, la crisi del politicamente corretto, il mutato rapporto con il tempo e la marginalizzazione digitale. Ne è conseguito una crisi della “competenza” e del sapere come fattore “legittimante” delle élite (oggi tema più che mai decisivo nella crisi sanitaria per la scienza), la tribalizzazione della sfera pubblica con un appiattimento del discorso pubblico e la sua astrazione dal contesto sociale di appartenenza dell’individuo, un’estremizzazione narcisistica della soggettività virtuale a scapito di quella sociale, una contrazione dei tempi della politica e della capacità di ascoltare, dibattere e confrontarsi: come sintetizza brillantemente l’autrice, «è la vittoria della libertà di espressione che supera il limite del rispetto della libertà (anche di essere) degli altri» e, last but non least, «la vittoria della negazione della complessità» (p.185). Il tutto cavalcato da partiti sovranisti assetati di questa rabbia sociale che, veicolata e strumentalizzata sul web, ha mostrato con ancor più drammaticità il rischio, per la sopravvivenza delle istituzioni dell’ordine liberale, della mancanza di quella «soggettività politica» che è il fondamento della democrazia liberale. Un utile anticorpo, è importante ricordarlo, anche per la crescente intrusione di quelle potenze illiberali che, tramite strumenti di propaganda 2.0, più che sperare in una degenerazione della democrazia, sfruttano le sue debolezze per delegittimare l’ordine liberale dal suo interno.
Le trasformazioni in atto avvengono ad una tale velocità che è particolarmente difficile, soprattutto «per una società che funziona [in queste] modalità», afflitta da tali lacerazioni, «produrre élite» in grado di affrontare lo stormo all’orizzonte. È un quesito molto significativo, questo, accennato da Sonia Lucarelli, che rilancia il dilemma sulla prontezza delle nostre società democratiche di affrontare sfide come il cambiamento climatico e le migrazioni, oltre a quelle delineate in precedenza. E sono sfide che sempre più si configureranno nella sfera dei diritti, per trovare un equilibrio politico-sociale in grado di soddisfare le esigenze individuali e delle numerose comunità dai tratti sempre meno “nazionali”. Già l’epoca del terrorismo islamico aveva messo a nudo una forte contraddizione nelle nostre democrazie: la capacità e volontà di riscrivere i perimetri della cittadinanza in società sempre più multiculturali. Oggi, la tensione insita nella riflessione liberale – tra «particolarismo» ed «universalismo» – esplode con l’aumento dell’entropia della realtà. Su più livelli. Lo scarto tra le promesse di benessere dell’ordine liberale e la relatività con cui queste sono state declinate o fallite. Tra la promessa di un’uguaglianza formale – l’individuo in quanto essere umano – e l’uguaglianza delle opportunità e condizioni (economiche e tecnologiche) che sfuggono al controllo dell’ordine sociale. Perché quanto più aumenta la complessità delle società, «tanto più il liberalismo fatica a trovare una soluzione coerente alla tensione tra diritti degli individui e diritti dei gruppi, tra diritti universalmente validi e diritti rivendicati da gruppi specifici» (p.198). E questo vuoto viene progressivamente riempito da chi sostiene una semplicistica contrapposizione identitaria, comunitaria tracciando un confine tra noi e loro con la pretesa di ridurre quella complessità in una ricetta semplice – sovranità, interesse nazionale – che sfrutta la mancanza di fiducia nei «principi dell’istituzionalismo liberale». Non è un caso, come ricorda l’autrice, che la gestione dei flussi migratori siano diventati il terreno di scontro prediletto e l’elemento più evidente della contraddizione mai risolta dell’ordine liberale: tra una «vocazione universalistica» con al centro l’individuo come essere umano, e una vocazione «liberal-comunitaria» che mira a mantenere stabile «l’ordine politico democratico dello Stato» (p.231). Anche tra sicurezza, riconoscimento politico e gestione di fenomeni globali si giocherà la capacità della democrazia liberale di non snaturarsi e così contribuire alla governance liberale.
“Goodbye, Liberal Order, Hello… What?”[2]
Individuo, Stato di diritto, progresso e libero commercio sono il corredo genetico dell’ordine liberale: ogni sua evoluzione ha visto una differente configurazione delle interrelazioni tra quest’ultimi sotto forma di governance interna e internazionale. Non è pertanto possibile soppesare la crisi dell’ordine liberale attraverso una sola lente d’analisi e sperare così di coglierne le criticità. Questo è la grande lezione di questo volume. Tuttavia, parafrasando Heisenberg, risulterà molto difficile intervenire contemporaneamente, e con estrema accuratezza, su tutte le proprietà che definiscono lo stato dell’ordine liberale senza mutare il sistema stesso. Sempre che sia uno “stato” – l’espressione di una stabilità relativa di potere – e non un movimento conflittuale in cui l’ordine è in continua contrattazione rispetto agli stimoli endogeni ed esogeni. Questa è, tra le righe, la conclusione dell’autrice, la cui fiducia più che nella “resilienza” dell’ordine esistente giace nell’auspicio che quest’ultimo possa adattarsi al mutare della marea. Ci riuscirà? Se guardiamo alla storia, che questo libro ben ricostruisce, delle risposte che l’ordine liberale ha elaborato per far fronte ai pericoli di una crescente interdipendenza, la crisi del coronavirus non rappresenta il primo “stress-test”. Tuttavia, non si può escludere che possa accelerare tendenze già preesistenti: il cosiddetto decoupling, una ritirata della globalizzazione, la creazione di pan-regioni ciascuna con diversi livelli d’integrazione politica, economica, e perché no digitale. Già, proprio la rivoluzione informatica, al pari di quella industriale otto-novecentesca e della stampa nel Cinquecento, costituisce la più grande sfida all’ordine costituito delle nostre società, dei nostri sistemi di pensiero, etico e morale, prima ancora che al sistema internazionale. E se l’attuale crisi sanitaria ci stesse preparando per un’esistenza totalmente diversa? Saprà il liberalismo affrontare questo cambiamento antropologico? Riuscirà ad imbrigliare il “capitalismo della sorveglianza”? Se questo non avverrà, forse sarà la fine dell’ordine liberale per come lo abbiamo conosciuto.
[1] Se immaginiamo il globo come un organismo, avremo il suo «apparato scheletrico» (i trasporti), il «sistema vascolare» (l’energia) e quello «nervoso» (le comunicazioni).
[2] Ho parafrasato un celebre articolo apparso sul «New York Times» del 1994 scritto da Nicholas Colchester. Anche allora l’autore si abbandonava alla previsione della fine dello stato-nazione prospettando un non specificato «governo mondiale».