Scritto da Giacomo Bottos
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Nel dibattito pubblico degli ultimi anni è possibile cogliere una crescente attenzione verso l’insieme di pratiche e soluzioni che vanno sotto il nome di “innovazione sociale”, una delle parole chiave alla base del lavoro sociale contemporaneo. Questa intervista a Tiziana Ciampolini prova a riflettere sulle caratteristiche e sul ruolo dell’innovazione sociale, anche in rapporto alle esigenze di rinnovamento del welfare e al legame con i territori. Tiziana Ciampolini dirige S-nodi, agenzia di sviluppo torinese per l’innovazione contro la povertà nell’ambito del programma Azioni di Sistema di Caritas Italiana, e fa parte dell’Assemblea del Forum Disuguaglianze Diversità.
Che cosa si intende per innovazione sociale?
Tiziana Ciampolini: L’innovazione sociale è una discontinuità con il passato: discontinuità negli stili di vita, nelle relazioni, nella produzione, nel consumo, nei bisogni sociali, nella partecipazione al governo, nei modelli di organizzazione del lavoro e della vita sociale, in quel senso comune che chiamiamo benessere. La Commissione europea definisce innovazione sociale lo sviluppo e l’implementazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli), in grado di rispondere ai bisogni sociali e di creare nuove relazioni sociali e collaborazioni. Si tratta di nuove risposte a istanze sociali particolarmente urgenti in grado di influenzare i processi di interazione sociale. L’innovazione sociale ha l’obiettivo di accrescere il benessere sociale. Questo tipo di innovazioni sono “sociali” sia nei fini che nei mezzi. Intorno all’innovazione sono riposte molte speranze di realizzazione di soluzioni per il benessere di un numero maggiore di persone, in particolare quelle più fragili. Questa definizione mostra l’affermarsi a livello europeo di approcci e strumenti innovativi che stanno contribuendo a realizzare un passaggio, nelle politiche sociali, da un approccio assistenzialistico e welfaristico a uno basato su investimento sociale e integrazione tra politiche diverse. Secondo questo approccio la società civile, le imprese sociali, le parti sociali, le imprese tradizionali, le istituzioni finanziarie, le comunità locali e gli utenti stessi dei servizi fungono da complemento al ruolo, pur sempre centrale, dell’ente pubblico. Personalmente, mi occupo di innovazione che nasce nelle comunità locali e che si pone un obiettivo di impatto rispetto a processi di inclusione e coesione, che utilizza strumenti tecnologici, finanziari, di leadership, di management e di governance nuovi, che sviluppa innovazioni radicali che non avrebbero potuto neanche essere immaginate “in vitro”. La sfida dell’innovazione inclusiva – che si propone di includere i cittadini più fragili nei processi produttivi e di garantire un welfare più capacitante, democratico e con più alti livelli qualitativi – richiede un grande impegno per essere “cucita addosso” ai processi di welfare tradizionale che si misurano con una lunga stagione di austerità, con problemi sempre più emergenziali e con il crescere del numero di persone in situazione di bisogno. Questo tipo di innovazione è lunga e profonda, richiede tempo e dura nel tempo, si sviluppa in modo coerente con l’organizzazione, la storia e il contesto di riferimento. Si implementa attraverso processi di rispetto, reciprocità, corresponsabilità e riflessività.
Qual è il ruolo dell’innovazione nei sistemi sociali?
Tiziana Ciampolini: Possiamo dire che i sistemi sociali usino l’innovazione sociale per accrescere la loro resilienza. In contesti di austerità permanente e di crisi dello Stato sociale, i Paesi hanno bisogno di idee innovative e che tengano conto della complessità dei problemi, e quindi promuovano soluzioni che permettano ai sistemi di welfare di apprendere, adattarsi e occasionalmente trasformarsi senza collassare e di rafforzare la loro capacità di trovare in modo continuativo soluzioni efficaci. Secondo questa prospettiva è cruciale incoraggiare il coinvolgimento degli stakeholder in modo che elementi differenti e interessi diversi si contaminino e traggano mutuo beneficio. Gli studi sulla resilienza hanno individuato i fattori che favoriscono l’innovazione sociale: un sistema di governo improntato alla partecipazione e al coinvolgimento dei diversi stakeholder, una elevata capacità di risposta e reazione ai cambiamenti, un alto grado di flessibilità in caso di rischi, l’enfasi sull’apprendimento e la collaborazione, ampio spazio sulle sperimentazioni, investimenti in capitale sociale e in attori caratterizzati da affidabilità, leadership e capacità relazionali. Per realizzare questo processo occorre una leadership capace di supportare l’identificazione della “teoria del cambiamento” di un contesto territoriale, far lavorare insieme intelligenze diverse, elaborare proposte in grado di aggregare consenso.
Che cosa succede ai territori quando l’innovazione sociale non è anche profonda?
Tiziana Ciampolini: L’esame degli approcci usati in Italia e in Europa negli ultimi decenni per innovare i contesti territoriali, rileva la ricorrenza di due caratteristiche nelle politiche di sostegno all’innovazione: la pressoché totale assenza di coinvolgimento delle comunità locali e la predilezione per un approccio di interlocuzione con pochi grandi stakeholder territoriali. Questo indirizzo ha prodotto, come principale effetto collaterale, la riduzione della resilienza del tessuto produttivo e, a corollario, una riduzione della densità relazionale e diversità dello stesso. Una strategia imperniata su pochi interlocutori di grandi dimensioni, infatti, ha fatto sì che le comunità locali riorganizzassero l’intero sistema delle competenze, della formazione, della produzione intorno alle necessità degli stakeholder principali i quali sono stati investiti, per la funzione strategica ricoperta, di grande potere contrattuale presso i decisori politici e le istituzioni. Questo comporta un fenomeno insidioso: il depauperamento del know-how in termini di qualità e, soprattutto, di eterogeneità dei soggetti presenti su un territorio: in questo modo il tessuto locale si impoverisce e si rarefà, sia a livello economico, sia a livello di competenze diffuse, sia, infine, a livello sociale.
In che modo, secondo questa logica, vengono ri-definite e ripensate le istituzioni e il loro ruolo nei processi di innovazione locale?
Tiziana Ciampolini: Il tema dell’innovazione nei contesti territoriali conosce nuova fortuna nell’Europa della crisi, assumendo diverse colorazioni a seconda del contesto. Questo tema ha invece una storia meno recente nella letteratura d’oltreoceano, in particolare quella americana, che guarda più da vicino al modo in cui sono selezionate e implementate le soluzioni che nascono dal basso, secondo una prospettiva di policy che si forma in modo naturale, per prove ed errori. La letteratura neoistituzionalista americana osserva con più attenzione i fatti naturali, direbbe Elinor Ostrom, vale a dire ciò che accade in modo spontaneo nelle comunità locali quando queste si trovano a risolvere problemi. Secondo questo approccio, ciò che deve irrobustirsi è la capacità delle istituzioni di supportare le comunità nelle fluttuazioni e nei cambiamenti. Per superare gli shock che sempre si manifesteranno nei contesti di vita delle persone – dice Ostrom – è vitale la presenza di sistemi istituzionali capaci di promuovere la cooperazione e l’apprendimento delle persone e delle organizzazioni che intendono avere cura dei contesti locali. Esiste un capitale territoriale legato ai luoghi su cui le politiche pubbliche possono indirizzare i processi di sviluppo socio-economico e i loro effetti redistributivi. Quando si ragiona in termini di sviluppo, di capacità delle persone e dei loro contesti di vita, è essenziale considerare che i territori hanno una dotazione di risorse e delle potenzialità – tanto sul piano materiale tanto su quello immateriale, come per il capitale sociale e il capitale comunitario – che permette loro di disegnare uno sviluppo specifico, a misura di luogo. Per lo sviluppo, sono necessari degli interventi place-based, che valorizzino il capitale territoriale dei luoghi. Questo approccio nasce dall’intuizione di Fabrizio Barca, Philip McCann e Andrés Rodríguez-Pose, che hanno studiato la necessità di superare le strategie di sviluppo one-size-fits-all in favore di un approccio di policy place-based, su misura per i territori e per le comunità che li abitano, capace di individuare e valorizzare le energie locali per promuovere strategie politiche innovative attraverso l’interazione tra la conoscenza locale e generale e tra attori locali ed esogeni. Questa logica supera l’approccio compensativo-assistenzialistico e si muove per scatenare conoscenze, per rimuovere ostacoli all’innovazione, per favorire il confronto vivo tra conoscenza locale e conoscenza globale.
Quali nessi si possono rintracciare tra nuove forme di povertà, esigenze di rinnovamento del welfare e innovazione sociale?
Tiziana Ciampolini: Il welfare non ha avuto in Europa un’evoluzione lineare. Per gli inglesi, che hanno inventato il Welfare State, se una persona sta “on welfare” significa che è povera e riceve un sostegno economico dal governo, ma il significato della parola non è lo stesso ovunque. Dove la miseria è nera, un piatto di minestra e un lavoro precario possono rappresentare un aumento del benessere, ma una volta superata l’indigenza questi interventi non bastano più, e accanto a misure che riguardano il reddito, i consumi, la salute e le aspettative di vita, occorre mettere a punto strategie più complesse che si rifanno a una concezione più articolata di benessere. Martha Nussbaum e Amartya Sen ci hanno dimostrato con le loro ricerche che alle persone non basta l’accesso a mense e dormitori per non essere più povere: le persone stanno bene quando si trovano nella condizione di poter compiere delle scelte, quando possono esercitare la propria libertà sostanziale, quando possono realizzare ciò a cui danno valore, quando possono esprimere le proprie potenzialità, quando si sentono incluse nella società, quando hanno fiducia nelle istituzioni, quando si sentono supportate in momenti di difficoltà e, infine, quando possono esprimersi con generosità. Ciò comporta un cambio di prospettiva nel modo di intendere il valore sociale generato da una società capacitante. A partire da questo concetto ha preso spazio un’interpretazione del welfare che pone l’attenzione sulle strategie attraverso cui abilitare le capacità individuali e collettive dei soggetti che abitano un territorio. A seguito delle crisi globali, uno dei nodi critici per l’Europa – e in particolare per l’Italia – oggi è la questione lavoro: la mancanza di lavoro è corrosiva per il sistema di vita di cui è fondamento, per l’attivazione dei processi di sviluppo e dei processi di rigenerazione identitaria delle persone e dei territori. Il lavoro è fondamento della vita sociale e volano dello sviluppo. Dal lavoro dipende la possibilità di essere liberi e responsabili gli uni verso gli altri, di rigenerare i legami di gratuità e di co-obbligazione. L’aumento della disoccupazione e la notevole riduzione dei redditi individuali e familiari rafforzano la disuguaglianze e la frammentazione, che si manifestano in molte forme. Il disagio diventa pervasivo e generalizzato, rendendo chiunque a rischio povertà. Alcuni dati recenti mostrano come la povertà riguardi oggi soprattutto la sfera del lavoro, le donne e i giovani. Può essere utile soffermarsi su alcuni esempi. Secondo il Rapporto 2021 delle Nazioni Unite Sustainable Development Goals, in un solo anno, 25 milioni di persone in più sono diventate disoccupate – nel Rapporto precedente le persone disoccupate nel mondo erano 188 milioni, nel 2021 sono salite a 213 milioni. Durante la pandemia, tra luglio e settembre 2021, solo negli Stati Uniti 12,7 milioni di lavoratori hanno lasciato il proprio impiego perché non produceva reddito tale da dare senso allo sforzo richiesto: alcuni sono riusciti ad andare in pensione, altri si sono licenziati, alcuni hanno fatto scelte di vita diverse. Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2021 682.000 persone hanno perso il lavoro, e di queste il 55% è costituito da giovani tra i 15 e i 34 anni. Nello stesso anno si è registrato un netto peggioramento delle condizioni di vita delle persone occupate, per le quali l’incidenza della povertà è salita dal 5,5% al 7,3%, con evidenti differenze in base alla posizione ricoperta: per le famiglie nelle quali la persona di riferimento è inquadrata come operaio o assimilato, la povertà incide per il 13,2%. Sempre in Italia, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano – i cosiddetti NEET – sono più di 2 milioni. Per il 2021, l’OCSE, a seguito di una survey internazionale che ha coinvolto novanta organizzazioni giovanili provenienti da 48 Paesi diversi, ha poi parlato di una vera e propria asimmetria generazionale dell’impatto economico e sociale della pandemia, evidenziando chiaramente che saranno i giovani a pagare in futuro il prezzo economico e sociale più alto della pandemia. Gli ambiti nei quali cogliere questa asimmetria sono almeno tre: l’interruzione e l’alterazione del processo educativo; la frammentazione e la compressione del mercato del lavoro; l’interruzione di percorsi professionalizzanti con ripercussioni sulle future carriere e sull’indipendenza economia e abitativa. Oggi, infatti, la spesa sociale pubblica italiana (29,9%) continua a essere sostanzialmente in linea con la media UE (29,2%), ma continua anche a essere al suo interno fortemente squilibrata: a fronte di una spesa pensionistica fagocitante, intorno al 16,5% del PIL, si registrano scarsi investimenti nelle politiche del “nuovo welfare” – disabilità, disoccupazione, giovani, donne, famiglia, politiche abitative e inclusione sociale presentano tutti una spesa inferiore al 2%. Il nostro sistema di welfare si trova da anni in una condizione di crescente difficoltà che lo rende incapace di rispondere a molti bisogni sociali, vecchi e nuovi. È in questo scenario di sfide e trasformazioni che è andata delineandosi la necessità di individuare un “nuovo” modello di welfare, che permetta di rispondere in modo più efficace a domande di tutela sociale sempre più differenziate e complesse e, nel contempo, consenta di tenere sotto controllo i costi crescenti della spesa sociale.
Quali competenze sono necessarie per implementare innovazione profonda nei territori?
Tiziana Ciampolini: Per implementare un’innovazione radicata nelle comunità, non bastano sistemi di welfare in grado di fornire l’accesso ai diritti fondamentali (come il lavoro, i servizi abitativi, i servizi per la salute), lo sviluppo di politiche economiche volte a rinvigorire la crescita e a restituire opportunità ai singoli. Servono persone con nuovi sguardi e nuove competenze per contribuire in modo efficace alle grandi necessità di cambiamento. Oltre ad una forte intenzionalità delle istituzioni e della cittadinanza locali nell’essere protagonisti dello sviluppo, occorrono professionisti preparati ad accompagnare i processi dell’innovazione profonda incardinata nei territori. I professionisti coinvolti devono innanzitutto essere in grado di utilizzare metodi di facilitazione per il coinvolgimento di tutti gli attori dei processi di trasformazione locale, per dare loro la possibilità di conoscere e contribuire all’implementazione delle strategie di sviluppo sostenibile adottate nei territori, con particolare attenzione al coinvolgimento delle nuove generazioni. In secondo luogo, devono poter sviluppare processi partecipativi in cui la visione dello sviluppo e della sostenibilità sia radicata sui territori così come collocata in un’ottica globale, e condurre ricerche qualitative e quantitative rigorose, coinvolgendo stakeholder ed esperti provenienti da diverse discipline, confrontandosi con contesti diversi, nazionali e internazionali. A queste figure è richiesto di contribuire alla definizione di obiettivi su misura e contestualizzati nei territori, per permettere alla cittadinanza di comprendere l’importanza e il valore degli obiettivi di sviluppo sostenibile. È necessario inoltre elaborare rapporti di monitoraggio e di avanzamento periodici, che includano indicatori aggiornati, politiche intraprese e risultati raggiunti, e al contempo rendere fruibile l’uso dei rapporti di monitoraggio sia per l’analisi, la comunicazione e la trasparenza dei progressi della strategia, sia per influenzare il processo decisionale sulla scelta di nuove priorità, politiche e budget. Infine, in quest’ottica, è essenziale utilizzare strumenti di comunicazione strutturata, efficace e innovativa per coinvolgere tutta la comunità locale nella definizione, l’implementazione e l’avanzamento della strategia locale per lo sviluppo sostenibile. Ricerca, progettazione, partecipazione, comunicazione, relazione sembrano dunque le aree centrali in cui indirizzare le azioni professionali per un buon funzionamento della comunità, non solo per la risoluzione dei problemi comuni, ma anche per la creazione di nuove modalità sostenibili di abitare la propria comunità e, in prospettiva multilivello, il pianeta che abitiamo.
In che modo può venire in aiuto il PNRR, in particolare per quanto riguarda la misura 5 che riguarda il welfare?
Tiziana Ciampolini: Il PNRR, in teoria, porta con sé l’idea che l’investimento in welfare, il rafforzamento delle infrastrutture sociali e dei servizi costituiscano il presupposto – e non l’esito – dello sviluppo del nostro Paese. Questo intento deve essere vero per forza, perché i numeri della povertà sono tali da non poter essere derubricati a un problema “dei margini”, affrontato da chi di margini si occupa, ossia la schiera dei lavoratori sociali. La difesa dei diritti delle persone in situazione di marginalità è un problema dell’intera collettività. Se il welfare è un investimento economico, deve essere chiaro, evidente, intellegibile a tutti che l’inserimento di un minore in un servizio di educativa territoriale costa meno del suo mantenimento in un circuito penale. Il modello economico e finanziario neoliberista, in auge negli ultimi decenni, ha tolto ogni speranza al lavoro sociale e a chi è escluso: ha impoverito il lavoro sociale rendendolo riduttivo e meccanico. Se è vero che durante la pandemia è stato chiaro a tutti che i lavoratori sociali e sanitari sono stati la colonna portante del Paese, allora il comparto non può più essere in sofferenza per carenza di personale, stipendi da fame e basso livello di reputazione. Occorre rendere evidente che il benessere economico di un territorio è correlato al suo grado di coesione, al livello e al flusso del capitale sociale presente, alle libertà personali che si riescono a realizzare. Questo significa che, in primo luogo, occorre lavorare per tutta la comunità e contemporaneamente per i più fragili; in secondo luogo, serve costruire una nuova narrazione e una nuova capacità di resoconto della propria azione per chi lavora nel sociale, che intrecci la promozione dei diritti con la sostenibilità economica delle scelte, basate su evidenze empiriche. Infine, chi lavora nel sociale ha l’impegno di ristabilire in maniera intenzionale qual è la prospettiva e la ragione ultima del lavoro sociale: lavorare per la cura dei disagi delle persone e soprattutto per restituire riconoscimento alle aspirazioni delle comunità che si sentono private del futuro e della cittadinanza.
La fase che stiamo vivendo è segnata da sconvolgimenti intensi. La pandemia, la guerra, le trasformazioni globali sono fattori che generano inquietudine e incertezza e, al tempo stesso, catalizzano cambiamenti. Come questo insieme di eventi e processi influenza la logica che abbiamo descritto?
Tiziana Ciampolini: L’evento pandemico ci ha fatto scoprire che la competenza di generare coesione e comunità non può essere solo degli operatori sociali. La pandemia ci ha insegnato che il lavoro di cura e di relazione deve imporsi nei paradigmi di tutto il lavoro e di tutti i lavori. È una funzione trasversale alle professioni e non un compito da mettere in campo per un solo professionista (assistente sociale, educatore, psicologo di comunità). A tutti coloro che in qualche modo lavorano per lo sviluppo locale, in senso lato, è richiesto di investire nella conoscenza dei contesti, di integrare le risorse professionali con quelle racchiuse negli spazi di vita delle persone, di interagire con i luoghi che le comunità abitano e in cui si esprimono.
Che ruolo ha il femminile in tutto questo discorso sull’innovazione sociale?
Tiziana Ciampolini: Cito due ricerche particolarmente esplicative in tal senso. Secondo l’ultimo rapporto del Word Economic Forum, il Global Gender Gap Report 2021, la crisi sanitaria ha di fatto fortemente rallentato a livello globale i progressi verso l’uguaglianza tra uomini e donne: si allungano così i tempi stimati per il raggiungimento della parità a livello mondiale. Per colmare i divari uomo-donna serviranno ancora 135,6 anni, a fronte dei 99,5 previsti solo un anno fa. Questa evoluzione si inserisce in un quadro, citando un rapporto del 2015 dell’Istituto McKinsey, per cui se nel 2025 la partecipazione femminile all’economia raggiungesse la parità con quella maschile, l’economia globale crescerebbe di 28.000 miliardi di dollari. Occorre parità di genere perché le donne slatentizzino le proprie possibilità di guidare il cambiamento. Per costruire un futuro giusto è necessario mettere in campo una leadership tipicamente femminile, quel sapere in grado di elaborare proposte capaci di aggregare consenso, creare una visione condivisa, di portare alla luce e mettere in discussione modelli mentali consolidati e incoraggiare nuovi paradigmi di pensiero e di organizzazione. Una leadership che si basa su una tensione creativa che alterna visione e concretezza: leadership generative, autorevoli e generose, che immaginano il potere come possibilità di agire non per sé ma per altri, capaci di guidare trasformazioni, di far evolvere il conflitto in confronto, di ricucire strappi e disconnessioni. Con queste modalità, molte donne stanno cambiando il mondo pezzo per pezzo.
Per concludere, alla luce delle considerazioni emerse fin qui, quale idea di futuro è possibile delineare a partire dalla prospettiva dell’innovazione sociale e del terzo settore?
Tiziana Ciampolini: Il futuro non è segnato, dipende dalle nostre scelte di oggi. Va sostenuta intensamente l’intelligenza civica presente nei territori. L’intelligenza civica, per poter crescere, ha bisogno di buona politica e istituzioni autorevoli, perché ordinative e ordinanti, capaci di guardare i problemi e le soluzioni in modo sistemico, di offrire cornici di prospettiva che definiscano una strategia di cambiamento che, con capacità amministrativa, sia traducibile in risultati. In questo momento la cornice non è difficile da trovare, dato che in tutto il mondo abbiamo un unico compito: ciascuno deve contribuire a costruire le condizioni per realizzare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, a misura del proprio territorio. Ci sono alcuni macro obiettivi da realizzare, non negoziabili. L’economista Jeffrey Sachs, nel saggio L’era dello sviluppo sostenibile, afferma che ci sono prove schiaccianti del fatto che abbiamo meno di trent’anni per mettere in salvo la Terra e la vita degli esseri umani. Gli eventi catastrofici sono in aumento: gli effetti del cambiamento climatico sono sotto gli occhi di tutti, le temperature estive a cui siamo sottoposti non sono un incidente di percorso, da adesso in poi potranno solo aumentare. Se i principi di giustizia sociale e giustizia ambientale guideranno lo sviluppo economico, possiamo vincere le passioni tristi che ci attraversano e trovare soluzioni giuste ed efficaci per salvare il pianeta. Rimarremo tristi se metteremo il mercato, il profitto e la tecnica, da soli, alla guida dello sviluppo. Il mercato e la tecnica sono regolati da una razionalità rigorosa finalizzata a raggiungere gli obiettivi con il minimo delle risorse. Passione sociale, competenza civica, visione, creatività vengono messe in un angolo. Se invertiremo gli addendi, se cioè il benessere sociale e ambientale guideranno l’economia, la finanza e la tecnica, sarà possibile – con intelligenza civica e autorevolezza istituzionale – comprendere come sviluppare tutto ciò di cui l’umanità ha bisogno per prosperare.