“Capitale e ideologia” di Thomas Piketty
- 11 Marzo 2021

“Capitale e ideologia” di Thomas Piketty

Recensione a: Thomas Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020, pp. 1200, 25 euro (scheda libro)

Scritto da Gabriele Palomba

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Nel 2007-2008 la crisi finanziaria ha aperto le prime crepe nel sistema in cui viviamo dagli anni Ottanta, definito “neoliberista” o “capitalismo globalizzato” e basato sulla totale liberalizzazione del commercio internazionale e dei movimenti di capitale, sulla deregolamentazione dei mercati (in particolar modo quello finanziario) e in generale sull’arretramento della presenza dello Stato nell’economia. Nel 2020 la crisi pandemica ha definitivamente trasformato queste crepe in voragini, costringendo il mondo intero a rivedere d’improvviso il suo assetto, al quale solo pochi anni fa sembrava “non ci fosse alternativa”.

Tuttavia, nonostante segnali di crisi sempre più evidenti, nel decennio che è intercorso fra questi due eventi epocali non è riuscita ad affermarsi una piattaforma ideologica alternativa e pochi sono stati i tentativi di costruirne una in maniera scientifica. Fra questi, quello dell’economista francese Thomas Piketty nella sua ultima opera Capitale e ideologia (La Nave di Teseo, 2020) va annoverato sicuramente fra quelli più completi. Qui infatti Piketty tratteggia i lineamenti di un nuovo sistema, volto a superare quello attuale e a correggerne le distorsioni più gravi, che l’autore definisce “socialismo partecipativo e federale”

A dire il vero, questa è solo una delle finalità di questo saggio, che sono molteplici: ricostruire la storia della distribuzione di reddito e ricchezza nel corso dei secoli e per varie società (dal Medioevo europeo ad oggi, passando per l’India pre-coloniale e la Cina comunista); evidenziare il ruolo delle ideologie nel giustificare il regime di distribuzione esistente e nel costruire le istituzioni a suo sostegno; analizzare il cambiamento nella composizione socio-economica dell’elettorato dei partiti di sinistra occidentali, un tempo scelti soprattutto da individui a reddito medio-basso e oggi preferiti da individui alti livelli di reddito e istruzione (tanto che Piketty parla di alternanza fra “sinistra intellettuale benestante” e “destra mercantile”, messa in discussione da un’ondata “social-nativista”). Piketty stesso sottolinea la diversità dei suoi scopi nelle conclusioni: riaffermare e riformulare il principio marxiano del materialismo storico per cui «la storia di ogni società è la storia della lotta delle ideologie e della ricerca di giustizia» (p. 1169); “de-occidentalizzare” la prospettiva nello studio della storia delle società; rivendicare il ruolo civile e politico delle scienze sociali e, da economista, “desacralizzare” la disciplina economica, criticando la «ricorrente tentazione [degli economisti] di arrogarsi una capacità analitica e un monopolio di competenza per il quale non hanno titolo» (p. 1175) e favorendo una maggiore integrazione con le scienze sociali ed umane.

Si tratta dunque di un saggio molto denso, realizzato consultando una quantità sterminata di fonti: dai dati fiscali amministrativi alle opere letterarie e filosofiche, passando per i discorsi parlamentari. Una recensione dell’opera nel suo complesso, oltre a correre il rischio di non rendergli giustizia, sarebbe pressoché impossibile, richiedendo praticamente lo spazio di un breve libro. È per questo che ci si concentrerà unicamente sulla parte di proposta politico-ideologica, aspetto particolarmente interessante nel “momento pandemico” in cui viviamo (ricordiamo che il libro è uscito nella versione originale a settembre 2019, dunque prima della pandemia, mentre la traduzione italiana, edita da La Nave di Teseo, è uscita a maggio 2020).

Piketty tratteggia gli elementi di un nuovo sistema politico-economico nell’ultimo capitolo del suo libro, in continuità con la sua ricerca storico-economica e la sua analisi delle disuguaglianze estreme dell’assetto attuale (da lui definito “neoproprietarista”[1]). Gli elementi fondamentali del suo socialismo partecipativo traggono spunto da quelle che furono a suo avviso le carenze più grandi delle società socialdemocratiche del secondo Novecento e che ne determinarono poi la crisi: le forme di condivisione della proprietà e del potere economico, l’accesso paritario a formazione e istruzione, la tassazione progressiva (soprattutto sulla proprietà) e il superamento dello Stato-nazione. Pertanto, in queste righe si partirà dall’analisi delle socialdemocrazie e della loro crisi che Piketty fa nel capitolo 11, per giungere poi alla sintesi delle sue proposte, presentate nel capitolo 17 del libro.

Thomas Piketty definisce “socialdemocratico” quel modello sociale affermatosi nel periodo 1950-1980 principalmente in Europa occidentale e negli Stati Uniti. Specifica che il concetto è da intendersi in senso ampio, per descrivere «un insieme di pratiche e di istituzioni politiche finalizzate all’integrazione sociale della proprietà privata e del capitalismo» (p. 556). Dunque Piketty considera “socialdemocratici” non solo i paesi in cui i partiti di sinistra hanno predominato nel corso dei decenni (come la Svezia, «paese simbolo della socialdemocrazia», p. 556) o i periodi in cui questi partiti hanno governato in altri paesi, ma fa riferimento a un vero e proprio modello di sviluppo, le cui caratteristiche sono riscontrabili in più stati, ovviamente con i dovuti distinguo, e alla cui costruzione hanno collaborato anche i partiti “borghesi”[2], a sottolineare come questo modello fosse frutto di un consenso ideologico piuttosto generalizzato. In questo senso, anche gli Stati Uniti del New Deal rooseveltiano e della Great Society johnsoniana sono da intendersi una società socialdemocratica, anche se «al ribasso» (p. 559), mancando al loro interno alcuni tratti specifici, sanità pubblica in primis. Di queste società Piketty investiga con il consueto scrupolo soprattutto i limiti, seguendo quattro assi: potere e proprietà, istruzione e formazione, progressività fiscale e sovranità nazionale e/o transnazionale.

Quanto alla questione della proprietà, Piketty individua tre modi di superare il sistema fondato sulla proprietà privata delle imprese: proprietà pubblica, che «modera il potere della proprietà privata tramite la proprietà dello Stato», proprietà sociale, che «distribuisce il potere e il controllo sui mezzi di produzione al livello delle singole imprese» e proprietà temporanea, che «mette in circolazione la proprietà privata e impedisce la persistenza nel tempo di patrimoni troppo ingenti» (p. 564).

«È il ricorso a una miscela» delle tre, scrive Piketty, «la scelta che consente di superare davvero, e in modo permanente, il capitalismo […] Le società socialdemocratiche hanno adottato soluzioni più equilibrate, basate in qualche modo su tutti e tre i paradigmi, ma ogni volta con scarsa convinzione e in modo non sistematico, specie nel caso della proprietà sociale e di quella temporanea […] In seguito, dopo la caduta del comunismo, questa opzione è stata abbandonata in modo definitivo, ma senza sostituirla con un programma alternativo degno di questo nome» (pp. 564-565).

Piketty dedica particolare attenzione alla proprietà sociale, dando ampio spazio all’evoluzione e alla lenta (e scarsa) diffusione dei modelli di cogestione aziendale germanico-scandinavi, in cui i lavoratori hanno diritto a una rappresentanza nei consigli di amministrazione delle grandi aziende. Soluzione il cui successo sarebbe testimoniato dalla contemporanea presenza di alti livelli di produttività e di contenute disuguaglianze economiche. Tuttavia, questo modello è rimasto sottovalutato e confinato nei paesi in cui ha avuto origine (anche per una iniziale preferenza per la proprietà pubblica, cioè per le nazionalizzazioni, da parte dei partiti socialisti del resto d’Europa). Anche in Germania e Svezia, a detta di Piketty, si è configurato più come un tentativo parziale che come una soluzione strutturale. Per questo quella della proprietà sociale viene definita come «una storia incompiuta».

Il tema dell’istruzione universale è cruciale all’interno del capitolo 11 e interrelato ad altri temi fondamentali come produttività del lavoro, sviluppo economico, trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze e mobilità sociale. La tesi di fondo di Piketty è la seguente: la diffusione dell’istruzione universale è uno dei determinanti, forse il più importante, della crescita della produttività del lavoro e di una distribuzione egualitaria dei redditi primari[3] allo stesso tempo. Questo legame fra istruzione universale e produttività del lavoro ha però anche un rovescio della medaglia: al crescere della produttività, il mercato del lavoro richiede un livello di istruzione sempre maggiore. Si spiega così l’avvento dell’istruzione universitaria di massa, in cui la percentuale di popolazione tra i 18 e i 21 anni iscritta all’università raggiunge o supera il 50% in gran parte dei paesi sviluppati. L’universalità dell’istruzione viene a questo punto a scontrarsi con un sistema universitario fortemente stratificato e non concepito per essere universale ed egualitario. Non solo dove il finanziamento delle università è prevalentemente privato, ma anche in paesi in cui il finanziamento è in prevalenza pubblico c’è forte disparità nell’accesso all’istruzione superiore, a causa della concentrazione di risorse in pochi percorsi elitari. Questo ha fatto sì che «gli studenti provenienti dalle fasce privilegiate si trovano spesso in una posizione migliore per accedere ai percorsi formativi più qualificanti» (p. 620). Una disuguaglianza che genera ulteriore disuguaglianza, dato che appunto l’istruzione impatta fortemente sulla distribuzione dei redditi primari.

Nello stesso tempo, con lo stallo dell’espansione della spesa pubblica totale dovuto alla “rivoluzione conservatrice”, le risorse pubbliche dedicate all’istruzione primaria e secondaria sono diminuite. Dunque, non solo le società socialdemocratiche non sono state in grado di garantire un accesso universale all’istruzione universitaria, ma anche la qualità e l’accesso all’istruzione di livello inferiore sono andati peggiorando. Questo ha rappresentato non solo un limite per il modello sociale socialdemocratico, ma anche uno dei motivi del crollo delle “coalizioni elettorali” che sostenevano i partiti socialdemocratici. Questo aspetto è però approfondito dall’autore nella Parte quarta del libro e non sarà dunque trattato in questa sede.

Tema altrettanto cruciale è quello del rapporto fra socialdemocrazia e Stato-nazione. Quello dell’internazionalismo è da sempre uno dei punti cardine dell’ideologia socialista. Tuttavia, Piketty rivolge ai socialdemocratici della seconda metà del Novecento e del primo ventennio del terzo millennio la stessa critica che Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951) rivolgeva a quelli di inizio Novecento: l’incapacità di superare i confini nazionali ha determinato sostanzialmente la crisi irreversibile delle costruzioni politiche socialdemocratiche, mentre le ideologie avverse riuscivano invece a stabilire delle forme sovra-nazionali, così come fatto dal neoliberalismo/neoproprietarismo con quelle istituzioni sovranazionali volte essenzialmente a garantire l’assoluta libertà di movimento di capitali. Infatti, non solo i socialdemocratici «hanno perseguito la costruzione di uno Stato fiscale e sociale nell’ambito ristretto dello Stato-nazione, riportando indubbi successi, ma senza sviluppare concretamente nuove forme politiche federali o transnazionali», contribuendo «a indebolire le strutture sviluppate a livello nazionale e a mettere a repentaglio la propria stessa base sociale e politica», ma addirittura è documentato «il ruolo centrale assunto dai socialdemocratici europei, e in particolare dai socialisti francesi, nell’impulso alla liberalizzazione dei flussi di capitale attuata, in Europa e nel mondo, a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento» (pp. 627-631). Quindi, istituzioni quali l’Unione Europea, al di là di alcuni indubbi successi, non solo hanno finora fallito nel portare oltre le frontiere nazionali le politiche fiscali e sociali, ma di fatto hanno anche amplificato l’aumento delle disuguaglianze. Contribuendo perciò all’erosione delle società socialdemocratiche. In particolare, Piketty, comunque ben lungi dall’essere antieuropeista, individua nella regola dell’unanimità il limite più grande della costruzione europea, impedendone i cambiamenti in senso federalista.

La questione della mancata realizzazione di una “globalizzazione sociale” si intreccia strettamente con l’ultima causa della caduta della società socialdemocratica: l’incompiutezza del sistema fiscale progressivo. Infatti, l’economista francese argomenta che il consenso all’ampio prelievo fiscale necessario al finanziamento dello Stato sociale è messo a dura prova dall’elevata complessità e dalla scarsa trasparenza di sistemi fiscali stratificatisi nel tempo senza una razionalità sistematica e, appunto, dall’esasperata concorrenza fiscale fra Stati in un contesto di elevata mobilità dei capitali. Mobilità che, data l’elevata concentrazione della proprietà dei capitali stessi (soprattutto finanziari) mina le fondamenta della progressività del sistema fiscale, in mancanza di scambio di informazioni e coordinamento a livello internazionale. In aggiunta a questo, le aliquote totali effettive per i redditi alti sono state diminuite, direttamente o indirettamente attraverso l’erosione della base imponibile.

Ma è soprattutto l’analisi dell’imposta sulla proprietà (comunemente nota in Italia come “patrimoniale”) che induce Piketty a parlare di realizzazione incompiuta. Questa analisi inizia ricostruendo la storia del dibattito politico ed economico in proposito, cominciato già con le rivoluzioni illuministe di fine XVIII secolo in Francia e in America. L’autore distingue due gruppi di paesi per tipologia di imposta sulla proprietà: da una parte i paesi in cui esiste una tassazione proporzionale sulla proprietà (come Francia, Stati Uniti e Regno Unito), dall’altra parte i paesi in cui esiste – o meglio esisteva, dato che in molti di questi è stata recentemente abolita – un’imposta progressiva annuale sul patrimonio (non a caso, sempre paesi dell’area germanico-scandinava). Dunque, i limiti del sistema fiscale socialdemocratico sono sorti perché si è scelto di non intervenire in senso progressivo, o di intervenire solo temporaneamente, sul regime di proprietà tramite un’imposta annuale, mentre il carattere progressivo di altre imposte, in primis quella sul reddito, è stato progressivamente diluito.

Sono stati questi limiti, secondo Piketty, insieme all’assenza o all’inadeguatezza delle risposte alle altre sfide poste dalle questioni della proprietà, dell’istruzione universale e del superamento dello Stato-nazione a determinare la crisi e il crollo del sistema socialdemocratico (forse sottostimando il ruolo di congiunture storiche quali la stagflazione degli anni Settanta, cui in ogni caso non si è saputo rispondere “da sinistra”), in favore di un regime sorretto da un’ideologia neoproprietarista ed “ipermeritocratica”[4].

Dunque, se si vuole rimettere in moto la marcia delle ideologie e riaprire il dibattito sul superamento del capitalismo, che già la Guerra Fredda aveva raffreddato e che la sua fine aveva definitivamente congelato, è da qui che bisogna ripartire per immaginare un possibile futuro sistema alternativo a quello attuale. Ed è questo che Piketty fa col “manifesto” contenuto nel capitolo conclusivo di Capitale e ideologia.

Il capitolo inizia con la dichiarazione degli intenti, delle ispirazioni e delle definizioni alla sua base. L’intento è, come già detto, di delineare i contorni di un nuovo socialismo partecipativo, non con l’intenzione di fornire soluzioni già perfette e compiute, ma di trarre delle lezioni dalla storia recente, tenendo bene in conto il ruolo delle mobilitazioni sociali e del dibattito pubblico nel passare dai principi generali alla realtà dei fatti. L’autore definisce poi l’obiettivo ultimo delle sue proposte: una “società giusta”. Una definizione che per Piketty stesso ricorda molto da vicino quella di John Rawls in Una teoria della giustizia (1971). È infatti “giusta” quella società che «organizza i rapporti socioeconomici, la proprietà e la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, allo scopo di permettere ai membri meno privilegiati di beneficiare delle condizioni di vita migliori possibili», che non implica uguaglianza assoluta, che giustifica entro certi limiti la disuguaglianza, ma solo «nella misura in cui è il risultato di aspirazioni diverse e di distinte scelte esistenziali» (p. 1093) e in cui il processo decisionale, al tempo stesso un fine e un mezzo, è quello della deliberazione collettiva.

Il “socialismo partecipativo” di Piketty prende inoltre ispirazione dalla tradizione del socialismo democratico, con particolare riferimento alle idee di Léon Bourgeois, Emile Durkheim e James Meade, ed è così definito «per sottolineare gli obiettivi della partecipazione e del decentramento, e per distinguere chiaramente questo progetto dal socialismo Stato-centrico» (p. 1097) tipico dei regimi comunisti.

Una società giusta è anzitutto basata su un regime di proprietà “giusto”. Per raggiungerlo, Piketty propone di seguire le due linee già sperimentate: proprietà sociale e proprietà temporanea. Si tratta, in sostanza, di intervenire sia in senso predistributivo, operando tramite il sistema giuridico e sociale per istituire «una vera proprietà sociale del capitale grazie a una maggiore condivisione del potere nelle imprese» (p. 1098), che in senso redistributivo, attraverso un sistema di imposte su redditi, proprietà ed eredità fortemente progressivo che permetta al contempo la circolazione permanente del capitale e il finanziamento di un sistema di welfare universale.

Quindi, da una parte Piketty propone di adottare il sistema di cogestione scandinavo-tedesco, riservando la metà dei diritti di voto nei consigli di amministrazione a rappresentanti dei dipendenti. Inoltre, per evitare che gli azionisti abbiano comunque l’ultima parola, propone per le imprese di grandi dimensioni di assegnare ai contributi in conto capitale superiori al 10% del capitale totale (cioè agli azionisti di maggioranza) diritti di voto pari a un terzo del loro importo, mentre ai contributi minori (gli azionisti di minoranza) verrebbero aumentati di un terzo. In alternativa o in aggiunta, Piketty fa sua anche l’idea di riservare il diritto di elezione di alcuni amministratori ad assemblee miste di dipendenti ed azionisti.

Dall’altra parte, il sistema fiscale dovrebbe garantire il principio di temporaneità della proprietà privata del capitale, basandosi su tre grandi imposte progressive: un’imposta annuale sulla proprietà, una sulle successioni e una sul reddito. Da notare bene come Piketty non preveda alcun tipo di imposizione indiretta (quale è ad esempio l’Iva), data la loro natura regressiva.

I proventi del “blocco patrimoniale” (imposta sulla proprietà e imposta sulle successioni) sarebbero utilizzati interamente per finanziare una “eredita universale”, ispirata dal compianto Anthony Atkinson, per cui ogni cittadino riceverebbe una dotazione di capitale pari al 60% del patrimonio medio pro capite al compimento dei 25 anni. L’imposta sul reddito sarebbe finalizzata invece a finanziare il sistema di welfare (sanità, istruzione, pensioni, ecc.) e una forma di reddito di base universale.

Anche se meno consistente nel gettito totale, l’imposta annuale progressiva sulla proprietà è intesa da Piketty come architrave della proposta. Anzitutto, sottolinea come il passaggio da un’imposta proporzionale a una progressiva comporterebbe una sostanziale riduzione delle tasse per la quasi totalità della popolazione, consentendole quindi un maggior accesso alla proprietà e risultando in un aumento del carico fiscale solamente per il 10% più ricco.

Il vero scopo di questa imposta, combinata all’eredità universale per i giovani, non è però quello di redistribuire ricchezza, ma quello di garantire una maggiore circolazione del capitale e un forte ringiovanimento dei suoi detentori, permettendo così anche una condivisione del potere economico e una dinamica sociale ed economica più attiva. Ci sarebbe, in sintesi, anche un “effetto predistributivo della redistribuzione”.

Inoltre, Piketty suggerisce non solo di adottare nelle Costituzioni un principio di giustizia fiscale esplicitamente progressivo (come già previsto dall’articolo 53 della nostra Costituzione), ma anche l’obbligo di pubblicazione annuale di una stima delle imposte effettivamente versate dalle diverse classi di reddito e patrimonio. Sempre a proposito di trasparenza fiscale, l’autore riconosce come sia fondamentale la cooperazione internazionale, rimandando per questo all’ultima delle sue proposte, tuttavia ritiene che anche nell’ambito degli Stati-nazioni ci sia ancora un certo margine di manovra.

Piketty affronta poi i temi riguardanti la garanzia di un’istruzione equa e universale, la trasformazione della democrazia rappresentativa in senso partecipativo ed egualitario e l’istituzione di una sorta di democrazia transnazionale di stampo “social-federalista”. Le proposte al riguardo sono a dire il vero meno definite delle precedenti e, per quanto riguarda l’ambito transnazionale, dichiaratamente animate da un certo spirito utopico. Per questo, ma soprattutto per mancanza di spazio, non verranno approfondite nel dettaglio.

Sicuramente, quelle elaborate da Piketty sono proposte di non immediata applicazione, sui cui è necessario affrontare una grande discussione pubblica e che, soprattutto nel caso della “democrazia transnazionale”, sono appena delineate. L’autore stesso ne è perfettamente conscio ed anzi insiste in più punti su questo. Tuttavia, in Capitale e ideologia è insito un apprezzabile tentativo di “tornare a pensare l’alternativa”, che ha pochi paragoni negli ultimi anni a parere di chi scrive. Se le analisi della crisi e delle storture dello status quo sono ormai numerose, in pochi da trenta anni a questa parte hanno provato a pensare in maniera sistematica un sistema alternativo a quello attuale. Qualcosa di simile è stato fatto in Italia con le “15 proposte per la giustizia sociale” del Forum Disuguaglianze Diversità, che non a caso hanno molti punti di contatto con le proposte di Piketty e con le quali condividono diverse ispirazioni. Si tratta di tentativi senza dubbio ancora parziali, ma sempre più necessari in un mondo in cui il sistema egemone si sta lentamente disgregando e in cui la grande incertezza sul futuro richiede di immaginare la costruzione di un diverso stato di cose.

L’altro grande pregio di Capitale e ideologia è quello di decostruire tramite solide argomentazioni e una profonda analisi storica il falso mito della morte delle ideologie, che in realtà nasconde l’egemonia totale di un’ideologia specifica. Per questo, le disuguaglianze economiche, il contesto istituzionale, la globalizzazione, insomma lo stato delle cose nel loro insieme, sono fatti tutt’altro che “neutri” e “naturali”, ma sono il frutto di scelte politiche e di biforcazioni storiche, a loro volta frutto delle idee e delle ideologie seguite dagli esseri umani in un dato momento storico. Le ideologie, dice dunque Piketty, contano ancora, non hanno mai smesso di contare, e quindi vanno prese assolutamente sul serio. Non solo per capire meglio il presente, ma soprattutto per «immaginare e strutturare mondi nuovi e società diverse» (p. 20).


[1] Piketty definisce «il proprietarismo come l’ideologia politica basata sulla difesa assoluta della proprietà privata, e il capitalismo come l’estensione del proprietarismo all’era della grande industria, della finanza internazionale e, oggi, dell’economia digitale» che «ha il suo fondamento nella concentrazione del potere economico tra i soli proprietari di un capitale» (p. 1097).

[2] Piketty considera l’esempio tedesco, dove nonostante la presenza discontinua al governo la SPD ha comunque influito considerevolmente sullo Stato sociale, «tanto che l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) […] ha adottato come disciplina ufficiale “l’economia sociale di mercato”, che implica il riconoscimento del ruolo centrale della previdenza sociale e della partecipazione alla gestione aziendale dei rappresentati dei lavoratori».

[3] Vale a dire quelli che si formano sui mercati del lavoro e del capitale, prima dell’intervento fiscale e redistributivo dello Stato.

[4] Piketty è piuttosto critico nei confronti del concetto di “meritocrazia” e dell’esaltazione acritica del “merito” (spesso identificato con la ricchezza stessa) già nell’Introduzione al libro.

Scritto da
Gabriele Palomba

Dottorando alla Scuola di Dottorato in Economia dell’Università La Sapienza di Roma, laureato in Economia politica presso la stessa università. Studia le disuguaglianze e la distribuzione del reddito. Ha conseguito il diploma triennale della Scuola Superiore di Studi Avanzati Sapienza (SSAS). Membro della rete italiana di Rethinking Economics.

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