Recensione a: Luca Tentoni, Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione 1946-2018, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 304, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Magni
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La storia dell’Italia repubblicana può essere raccontata in molti modi: la si può ripercorrere e illustrare attraverso la cronologia dei fatti più rilevanti, attraverso le biografie dei suoi protagonisti o attraverso una panoramica sulle istituzioni. Più raramente viene affrontato il tema utilizzando uno studio approfondito dei risultati e dei flussi elettorali succedutisi di elezione in elezione.
Quest’ultima prospettiva è quella scelta dall’editorialista politico e politologo Luca Tentoni che con il suo ultimo lavoro, Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione 1946-2018, offre uno strumento prezioso per comprendere non solo la storia politica ed elettorale dell’Italia degli ultimi settant’anni, ma anche gli aspetti sociali e in un certo qual modo umani che hanno caratterizzato il nostro Paese nei decenni repubblicani a partire dai legami tra città e Paese, tra realtà urbane e realtà nazionale.
Come parametro di riferimento non vengono presi solamente i risultati elettorali a livello nazionale delle singole forze politiche ma, soprattutto, i dati locali, rilevati in quelle che, come suggerito dal titolo stesso, Tentoni chiama con una brillante definizione “Capitali regionali”. Si tratta delle diciannove città capoluogo di regione più Trento e Bolzano. È una prospettiva che di elezione politica in elezione politica consente di raffrontare il dato nazionale a quello delle realtà locali dei maggiori centri urbani, crocevia della dicotomia centro/periferia che a fasi alterne ha pesato sulla forza, elettorale e non, dei singoli partiti.
Nel corso della lettura e della consultazione del libro ci si muove, dunque, in due direzioni, nel tempo e nello spazio. Per ogni tornata elettorale i risultati dei singoli partiti vengono spiegati e illustrati, zona per zona. A partire dai numeri si procede, poi, a una analisi della situazione contingente e delle strategie elettorali e comunicative.
Il sistema di calcolo che rende possibile l’analisi di Tentoni è quello che viene definito IDG – Indice di Disomogeneità Geopolitica. Si tratta di un coefficiente che consente di raffrontare con un semplice numero “la percentuale di voti ottenuta da ciascun partito nei capoluoghi di regione, confrontandola con quella di tutti gli altri comuni della regione” (pag. 11, nota 2). L’illustrato indice permette, altresì, di suddividere il Paese in macroaree e di osservare con semplicità e chiarezza le evoluzioni dei comportamenti elettorali nelle medesime zone (Nord Ovest, Nord Est, Zona Rossa, Centro, Sud, Isole e Roma e dintorni). Appare molto interessante, a tal proposito, come l’area della Capitale sia stata significativamente considerata in autonomia rispetto a quella del Centro Italia, avendo sin dal 1946 tenuto un comportamento elettorale peculiare e meritevole di particolare attenzione. I singoli risultati, infine, vengono raffrontati con i dati nazionali.
Rileva acutamente Tentoni che da un punto di vista sociale, culturale, economico e politico i capoluoghi di regione più che una élite rappresentino un diverso modo di essere rispetto al retroterra geografico. “Lo dimostra il fatto […] che la differenza di voto fra «piccole capitali» e altri comuni (Idg) è in media, fra il 1946 e il 2018, di poco superiore al 10% dei voti e che il dato, sebbene leggermente diminuito nel periodo 2001 – 13 […] ma in netta ripresa nel 2018 […] è rimasto costantemente alto durante tutta la storia repubblicana” (p. 11).
L’attenzione mostrata da Tentoni per il contesto politico e sociale in cui si è inserita ogni tornata di elezioni ci consegna una storia del Paese, in cui i risultati elettorali non appaiono come un mero susseguirsi di numeri astratti ma, al contrario, come l’epifenomeno di una serie di fenomeni che hanno mosso le coscienze individuali e collettive nel corso della storia repubblicana.
Già con il voto amministrativo del 1945-1946 e, soprattutto, con il referendum istituzionale del 2 giugno emergono in maniera molto chiara le difformità tra Nord e Sud, a segnare una profonda spaccatura cultura, sociale e, conseguentemente, politica del Paese che non verrà mai compiutamente sanata. Come a tal proposito ha avuto modo di rilevare Celso Ghini in una delle più note e importanti opere di analisi elettorali, “a differenza degli altri Paesi a regime democratico, che erano stati occupati dai nazisti, l’Italia arriva a tenere libere elezioni generali soltanto nel giugno 1946” (cfr. Celso Ghini – L’Italia che cambia. Il voto degli italiani 1946-1976. Ed. L’Unità – Editori Riuniti, 1976. P. 21). L’Italia arrivò al voto in una situazione particolare.
Rileva ancora Ghini che “il problema istituzionale era stato motivo di divisione tra i partiti del CLN. Nessuno dei sei partiti del CLN era pregiudizialmente monarchico, ma fra di essi vi erano partiti pregiudizialmente repubblicani e altri più o meno indifferenti, che col loro apparente agnosticismo coprivano una predilezione per la monarchia quale istituto di conservazione. Decisamente repubblicani erano il PCI, il PSIUP, il PRI, il Partito d’azione, il Partito democratico del lavoro; polivalenti erano i democratici cristiani e i liberali, anche se la loro posizione ufficiale non era favorevole alla monarchia” (ivi, p. 45).
Non appare allora così strano il fatto che il voto referendario risultò parzialmente diverso da quello politico. Come nota giustamente Tentoni, infatti, per quanto riguarda i comuni capoluogo “i voti alla Repubblica sono più di quelli ottenuti dai partiti che si sono schierati a favore di quella opzione. C’è una percentuale di voti, che oscilla tra il 6 % e il 9 % (in undici capoluoghi di regione) eccedente rispetto a quella del «fronte repubblicano» (e che, dunque, è forse frutto dell’apporto dell’elettorato democristiano); il surplus è meno marcato in molti capoluoghi” (p. 29).
Sin da queste prime analisi emerge in maniera chiara l’attenzione che Tentoni acutamente pone sulla progressiva volatilità che si rileva tanto tra blocchi politici e all’interno dei blocchi stessi quanto tra area del comune capoluogo e resto del territorio regionale e delle macro aree come innanzi descritte.
Già dai primi appuntamenti elettorali, pertanto, l’elettorato inizia una sua progressiva sensibilizzazione che, di elezione in elezione, si fa sempre più marcata e conduce dapprima a sempre più intensi flussi di voto e, ad oggi, a una vera e propria liquidità (sul punto, tra i tanti, si veda il recente lavoro di Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e Ilvo Diamanti, Le divergenze parallele L’Italia: dal voto devoto al voto liquido, Laterza 2018).
Gli italiani si spostavano ed emigravano con imponenti flussi interni e, con l’aumento delle vespe nelle strade e dei ballatoi nelle case di ringhiera delle grandi città del Nord, aumentavano anche la loro consapevolezza politica e la loro predisposizione ad essere meno devoti e più liquidi nelle scelte elettorali e politiche.
Attraverso un lento ma costante e continuo processo socio-politico che passa per le elezioni politiche del 1953, quando non scattò il premio di maggioranza della cosiddetta “legge truffa”, e per tutta la stagione del centro-sinistra, si arriva a quel momento chiave che sono gli anni Settanta, in modo particolare nella loro seconda metà.
Dapprima l’emergere sempre più forte di tensioni sociali nel Paese e, successivamente, i primi accenni di quello che poi verrà definito “riflusso” hanno una significativa spia nei comportamenti dell’elettorato. A tal proposito, degne di particolare interesse sono le notazioni e le riflessioni in merito all’emergere dell’astensione come fenomeno che inizia a palesarsi negli anni Settanta con sintomi all’epoca sottovalutati dai più. Come nota David Tuorto, però, “apparve ben chiaro a studiosi e commentatori che l’avanzata dell’astensionismo stava a indicare l’inizio di una nuova fase di instabilità politica, in cui i comportamenti degli elettori cominciavano a sbloccarsi” (pag. 95).
Ecco allora come, in un bilancio complessivo sugli affetti ed effetti elettorali nel corso della Prima Repubblica, ben può dirsi che “l’identificazione tra elettore e Partito si rivela però, nei capoluoghi, costantemente meno diffusa che negli altri centri. Nelle grandi città ha invece maggior peso che altrove il «voto d’opinione» legato a una progettualità politica e per questo in grado di spostarsi […]” (p. 141).
Il panorama cambia in modo radicale a partire dai primi anni Novanta. Il diverso comportamento elettorale è inevitabilmente figlio della nuova cornice all’interno della quale i cittadini sono chiamati a esprimere le proprie scelte. Crollano i partiti tradizionali, muta il contesto internazionale, cambiano la legge elettorale per l’elezione dei sindaci dei comuni medio grandi e quella per le elezioni politiche.
A ciò si aggiunga che nuove sensibilità politiche, già timidamente affacciatesi nel gorgo politico a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, si fanno sempre più diffuse ed elettoralmente attraenti, al punto che Milano e Roma, nel 1993, vedono trionfare candidati sindaci provenienti dall’esperienza della Lega Lombarda/Lega Nord (Marco Formentini) e dell’ambientalismo verde (Francesco Rutelli).
Dal quel 1993 inizia, dunque, il nuovo viaggio della Repubblica italiana, che alcuni Autori considerano concluso nel 2013, altri nel 2018 e altri ancora tuttora in corso. Tentoni, in effetti, sembra condividere quest’ultimo orientamento, inserendo le pagine di studio e approfondimento sulle elezioni politiche del 2013 e del 2018 all’interno dei capitoli dedicati alla cosiddetta Seconda Repubblica.
L’imponente avanzata del Movimento Cinque Stelle che a partire dal 2013 ha senz’altro rivoluzionato il panorama politico, riuscendo a costruire quel “terzo polo” di cui tanto si parlava tra la fine degli anni Novanta e la prima metà degli anni Zero del nuovo secolo, ha restituito soprattutto al Mezzogiorno una nuova centralità a lungo offuscata dal tradizionale predominio democristiano e dei partiti minori di destra e di un più massiccio ricorso al voto di scambio.
Particolarmente significativa tanto da un punto di vista numerico quanto politico è la tornata del 4 marzo 2018, ove i Cinque Stelle hanno raggiunto percentuali senza precedenti nella storia repubblicana, beneficiando principalmente delle perdite del PD e degli altri partiti del centro sinistra.
Come nota Rinaldo Vignati in uno scritto riportato nell’opera in commento “nella sua fase nascente il M5s ha attinto soprattutto dal repertorio della sinistra (soprattutto di quella «postmaterialista» […]) le proprie idee e i propri slogan. A questi si è poi aggiunto il tema del reddito di cittadinanza che, rivolgendosi soprattutto a settori sociali più marginali e che hanno subito le difficoltà della crisi economica, sfida la sinistra anche sul piano delle rivendicazioni e delle promesse «materiali»” (p. 233).
Le perdite del PD sono state, comunque, talmente consistenti dal fatto che “non è solo il M5s ad avvantaggiarsi delle sue perdite: anche l’astensione e la Lega ne traggono beneficio” (p. 234).
In questi massicci flussi elettorali, che hanno visto anche la Lega (non più nord) di Matteo Salvini crescere significativamente dal 4,09 del 2013 al 17,35 del 2018 (e ancor di più nei mesi successivi, stando a tutti i sondaggi più recenti), Tentoni segnala come “l’indice di bipartitismo resta stabile nei capoluoghi […] ma sale negli altri centri […] dove leghisti e cinque stelle ottengono risultati migliori […]. L’indice Idg di voto differenziato, invece, ci spiega che la distanza tra centro e periferia – in costante diminuzione dal 2001 al 2013 – aumenta bruscamente, riportandosi al 10,8 % (2013: 7,6%) […]” e che “l’indice di mutamento complessivo (volatilità) resta a livelli molto elevati: il 25.9 % nei capoluoghi, il 27,4 % negli altri comuni” (pp. 235 – 236).
Risulta chiaro, in un bilancio generale degli ultimi venticinque di storia elettorale del Paese, che non solo il tramonto delle culture e delle tradizioni politiche novecentesche (e della capacità di organizzazione e ramificazione territoriale dei relativi Partiti) ma anche l’introduzione quasi continua di nuovi sistemi elettorali abbiano radicalmente cambiato la natura della competizione politica e, conseguentemente, il comportamento di un elettorato, già molto più liquido che in passato.
Questa appare, in conclusione, la ragione principale per la quale Capitali regionali risulta essere una guida fondamentale per chi voglia interrogarsi e cercare di capire le ragioni profonde dei comportamenti elettorali degli italiani nel corso della recente storia del Paese. Oltre alla illustrata e preziosissima analisi dei contesti socio-economici e dei flussi elettorali, il volume è corredato da una conclusiva appendice composta da alcune tabelle riassuntive che consentono di apprezzare in modo rapido, intuitivo e facilmente consultabile la storia della mobilità degli italiani nelle urne.
Rimane, dunque, a termine della lettura, la sensazione di aver attraversato decenni di storia d’Italia da un punto di vista particolare e mai compiutamente esplorato con tale dinamicità, nonostante l’apparente natura statica dei numeri e delle cifre, grazie a uno strumento che, con la speranza di aggiornamenti futuri, rappresenta una tappa importante della letteratura politologica e la cui funzione non si esaurisce certo alla prima consultazione.