Recensione a: Luigino Bruni, Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto, il Mulino, Bologna 2022, pp. 208, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Matteo Migliori
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In un mercato che opprime e silenzia l’anima di un mondo quasi perso, gli uomini, soffocati anche da un caldo estraneo, cercano un piccolo alito di vento che permetta loro di poter ricominciare a respirare davvero. La metafora non è casuale; essa riprende una stessa scelta dell’autore, Luigino Bruni, economista e saggista, attraverso la quale è possibile cogliere la direzione privilegiata di Capitalismo meridiano – edito da il Mulino – partendo da un semplice, ma non banale, assunto: «In un’economia senza lo spirito delle persone, lo spirito delle cose diventa il solo soffio che riusciamo a sentire nella nostra società di mercato» (p. 8).
In questo libro agile ma al contempo denso e profondo, Bruni ripercorre la nascita e la crescita di un capitalismo piuttosto diverso da quello del Nord Europa, notoriamente trattato nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, celebre lavoro di Max Weber. Si tratta, invece, di un capitalismo del Sud Europa, appunto un “capitalismo meridiano” – segnatamente sviluppatosi nel Centro Italia, soprattutto in Toscana –, nato da un dialogo improbabile tra i monaci francescani, che nemmeno potevano toccare con le mani il denaro perché cosa impura, e i mercanti che, al contrario, ottenevano con la loro intraprendenza lauti guadagni. L’analisi di questa prima forma di economia di mercato permette all’autore di riflettere a tutto campo, anche su spinose tematiche del capitalismo contemporaneo – in verità, come emerge dallo stesso studio condotto, nemmeno così estranee da quelle che caratterizzavano il capitalismo delle origini.
Frutto di un lavoro sulle origini dell’economia di mercato che segna, sin dal principio, gli interessi di ricerca di Bruni, nel libro il contatto con la genesi dello spirito mercantile meridiano porta il lettore a comprendere come il lato etico non possa, in nessun caso, essere messo da parte nell’attività economica. L’origine di questo lato risiede infatti in una certa attitudine che, inesorabilmente, incontra la stessa sfera morale nella vita quotidiana[1].
La molteplicità delle questioni trattate in questo libro, inserite in un arco temporale piuttosto corposo come quello che va dal Basso Medioevo agli inizi dell’età Moderna, è resa agevole con una disquisizione fluida e leggera ma molto attenta ad ogni tipo di dettaglio, pacata e allo stesso tempo ricca di particolarità avvincenti. Di testimonianze di vita e immagini che, tra l’arte e la letteratura, riescono a raccontare il tempo dei mercanti e dei monaci francescani, nell’istante quasi infinito che accompagna il colore dei chiostri e delle città, nelle quali, ancora oggi, continuiamo a camminare e vivere.
Bussola di viaggio nelle pagine di questo saggio è l’elemento dell’ambivalenza, la cui attitudine è ben riassunta nelle parole di Bruni: «Ambivalenza è l’altro nome dell’economia medievale, l’altro nome dell’economia meridiana. Forse il vero nome dell’economia» (p. 26). Ogni aspetto economico, e forse anche della vita umana, presenta una dualità, perché nelle dinamiche relazionali coesistono sempre due motivi diversi ma non necessariamente contrastanti, motori del gioco dell’universo.
Il primo polo d’azione del capitalismo meridiano, riporta Bruni, è costituito dai monasteri, veri e propri centri socioculturali del Medioevo, i quali, prodigiosamente, alimentavano un’autentica economia della fiducia, così necessaria anche nei giorni attuali[2]: la fides-fiducia religiosa diventava, in effetti, fiducia commerciale. I francescani, oltre a essere teologi, vivevano con incredibile istinto carismatico le pulsioni, i malumori e, in generale, la complessità della città, divenendo «prima compagni poi accompagnatori spirituali dei nuovi mercanti» (p. 15). Profondi spiriti innovatori, i francescani fin da subito capirono che il buon commercio, tenuto vivo da una certa fides, rendeva migliore l’intera comunità – anche i poveri, dato che nel Medioevo ciò che «era moralmente sbagliato lo era anche economicamente» (p. 65). I monasteri erano però anche luoghi in cui, al contrario, questa fiducia poteva essere anche spezzata, dando vita ad angoscianti forme di “economia del dolore”. È quello che accadeva, riporta Bruni con un certo trasporto d’animo, nei conventi femminili, dove le donne, al fine di preservare il patrimonio o la dignità della famiglia, venivano obbligate alla vita monacale senza alcuna possibilità di scelta. Logiche di potere patriarcale e di sottomissione delle donne che venivano giustificate anche teologicamente, attraverso il concetto di espiazione, che in seguito si trasformerà in una vera e propria turpe cultura: «Il dolore umano, femminile specialmente, diventava così la principale moneta per pagare i debiti/colpe proprie e degli altri» (p. 173).
L’avvento di quest’etica mercantile, coniugata al carisma dei francescani, cambiò radicalmente anche le logiche e gli usi del mercato, vero luogo di contatto di questo mondo nuovo. Grazie ai francescani, tra il Quattrocento e il Cinquecento, si iniziò a sperimentare un sistema creditizio alternativo, rivolto ai meno abbienti, che cercava di contrastare l’indecente pratica dell’usura. Nascono allora i Monti di Pietà – il primo è attestato nel 1458 ad Ascoli Piceno – che, applicando i meccanismi dell’istituto giuridico del pegno romano, rappresentavano non una mera forma assistenziale, ma un vero precipitato di quello spirito imprenditoriale che iniziava a pervadere il mondo dell’epoca. I Monti di Pietà, seppur gravemente segnati da una pesante genesi antisemita, sperimentavano, infatti, un prestito con una soglia bassissima di interessi, che scatenò un enorme dibattito in cui economia e teologia si intrecciano, si legittimano e si assicurano a vicenda, sperimentando una dimensione che agli occhi odierni può sembrare anche stravagante, rispetto all’immagine comune che si ha della cristianità. In verità, l’insegnamento che la storia porta, è sempre nella sua audace attualità. Come sottolinea Bruni, quei dibattiti di etica mercantile con i loro più disparati interpreti e temi – da Bernardino da Siena a Duns Scoto passando per Angelo da Chivasso – ci dicono tanto, e in particolare testimoniano che «le intenzioni contano, contano ancora in economia» (p. 100).
Muovendo tra il piano filosofico esistenziale e le trascendenze politico-economiche, Bruni tratta anche un tema molto trasversale, che è l’immagine del tempo che contraddistingueva l’età medievale. Il tempo era visto come un bene comune, donato da Dio agli uomini, come lo descriveva Guglielmo da Auxerre. Ma, al tempo stesso, in quegli anni così movimentati, gli uomini si riappropriano del tempo: nasce il purgatorio che rappresenta il modo, totalmente umano, che si ha per guadagnare tempo sulla terra per poter conquistare, in seguito, il cielo. Ma il tempo è anche qualcos’altro, è un dono che Dio riserva per tutti gli uomini, è un bene di tutti gli uomini, indivisibile. Ecco allora la rivoluzione francescana, che si lega straordinariamente ad un tema oggi cruciale[3]: ogni bene è un bene comune. Una fraternità cosmica che permette di sperimentare anche in economia un’impostazione comunitarista, che richiama anche gli insegnamenti dell’etica aristotelica, capace di liberarci – se adeguatamente attualizzata – da un inconsistente dominio neoliberista[4].
Il quadro storico in oggetto, ancor di più nel passaggio all’età dei Comuni, si intreccia in trame sempre più fitte e complicate, ma a rendere efficace la lettura è l’attento ricorso di Bruni alle immagini di due pilastri della letteratura italiana, Dante e Boccaccio, che incarnano pienamente i controversi significati racchiusi in questo grande cambiamento, dell’incontro-scontro tra mondo vecchio e mondo nuovo. Se Dante incarna il mondo vecchio che cerca di resistere a questo passaggio moralmente degenerante, aggrappandosi alla tradizione e agli insegnamenti tomisti, Boccaccio incarna completamente lo spirito mercantile, il mondo nuovo. Dante, su posizioni conservatrici e aristocratiche, relegherà all’inferno gli usurai, senza che possa essere prevista per loro alcuna scusa, che invece il tempo del purgatorio avrebbe dispensato. Boccaccio invece, superando l’impostazione classica, esalta i mercanti, che diventano i protagonisti dei suoi racconti. Boccaccio, rileva puntualmente Bruni, coglie appieno ciò che stava accadendo grazie all’economia di mercato che «ha saputo far incontrare persone e popoli che non si sarebbero mai visti senza interessi e merci» (p. 151). È nella «co-gestione del mondo condivisa tra Dio e l’uomo» (p. 157) la vera forza dell’umanesimo, con l’economia che diventa civile[5] soltanto se è relazione «generativa», ossia se si innalza a qualcosa che unisce le sue contraddizioni e ambivalenze. La condizione di fragilità dell’uomo è letta allora come uno slancio vitale, la fortuna è virtù, la fragilità è una qualità morale, perché non abbiamo nient’altro che un’effimera vita, ricca però di potenzialità da cogliere, da rincorrere. In uno dei tanti slanci poetici contenuti in questo libro, scrive Bruni: «capimmo che a fuori di muoverci per non perdere l’equilibrio sull’orlo del precipizio stavamo imparando a volare» (p. 153).
Per concludere, Capitalismo meridiano ci ricorda che nella storia dell’uomo non è esistito soltanto un capitalismo indirizzato alla sola felicità individuale. A latitudini più meridionali ne esisteva un altro, la cui base era costituita da quel patrimonio etico-filosofico della comunità, che lega indissolubilmente gli uomini tra loro. E sicuramente, per porre rimedio a diverse problematiche attuali, è quanto mai necessario ritornare a quell’imprescindibile dimensione etica, che sembra ormai così lontana dalle logiche del capitalismo contemporaneo. È questo il dato fondamentale, al di là delle rilevanze storiche, su cui il lavoro di Luigino Bruni porta il lettore a riflettere: l’attitudine etica, come quella che caratterizzava la vita francescana, è portatrice di una pura facoltà di discernimento del mondo, la sola che rende possibile l’autentica comprensione delle realtà complesse – complessità che caratterizzava la vita dei mercanti allora e, a maggior ragione, la società attuale. Alla fine, come insegnano i francescani, solo prendendo le distanze dal prezzo delle cose è possibile coglierne il valore, che resta lì, sempre in attesa di essere disvelato, come la verità dimenticata di un mondo complesso.
[1] Seppur con le dovute differenze teoretiche, le riflessioni di Bruni ben si sposerebbero con il legame tra attività economica e attività etica elaborato da Croce. Si veda, Benedetto Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Bibliopolis, Napoli 1997.
[2] Si veda Tommaso Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Laterza, Roma-Bari 2021 / 2022.
[3] Si veda Luigino Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Città Nuova, Roma 2012.
[4] Illuminante in tal senso Marco D’Eramo – Dominio: l’ascesa del neoliberismo, Videopodcast dei Dialoghi di Pandora Rivista – episodio 10.
[5] Si veda Luigino Bruni e Stefano Zamagni, L’economia civile, il Mulino, Bologna 2015. In aggiunta, si rimanda anche a Stefano Zamagni – Quale mercato? Economia civile e crisi, Videopodcast dei Dialoghi di Pandora Rivista – episodio 26.