“Caporetto. Storia e memoria di una disfatta” di Nicola Labanca
- 24 Ottobre 2017

“Caporetto. Storia e memoria di una disfatta” di Nicola Labanca

Recensione a: Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 240, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Ambrosino

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Le terre di confine tra Italia e Slovenia sono unanimemente considerate fra le più periferiche del Paese. Difficilmente al giorno d’oggi il grande pubblico riesce a collocare le località di Caporetto[1], Plezzo, Tolmino e Saga, a seguire precisamente il corso del fiume Isonzo o a definire correttamente la posizione del monte Nero. Eppure, cento anni fa quelle vallate remote finirono prepotentemente sulle prime pagine di tutti i giornali poiché teatro dell’evento chiave della Grande Guerra italiana[2].

All’alba del 24 ottobre 1917, un’armata congiunta austro-tedesca travolgeva le malpreparate trincee italiane nel settore dell’alto Isonzo, tra Plezzo e Tolmino, al centro dello schieramento della II Armata. Aiutati da una pioggia battente, da una perfetta conoscenza del terreno e dal cannoneggiamento mirato che nella notte aveva distrutto le linee di telecomunicazione italiane, alcuni reparti scelti, fra i quali quello del giovane tenente Erwin Rommel, avanzarono velocemente infiltrandosi in profondità lungo il fondovalle dell’Isonzo, attaccarono alle spalle le prime linee, proseguirono conquistando le vette lungo la sponda occidentale del fiume e aprirono la strada per la successiva avanzata austro-tedesca verso Cividale del Friuli, Udine e la pianura[3]. Il fronte italo-austriaco, nonostante numerosi tentativi di rallentare il nemico[4], si ritirò di oltre 150 km e precipitò sino al Piave, con un rischio enorme per la tenuta stessa dell’Italia liberale. Fu il caos.

In poco più di due settimane non solo l’Esercito Italiano aveva perso tutto quello che era faticosamente riuscito a conquistare in più di tre anni di guerra ma l’attacco aveva portato all’occupazione di tutto il Friuli e di parte del Veneto, alla completa dissoluzione di un’intera armata e alla generale rottura dei vincoli disciplinari con la conseguente dispersione di decine e decine di unità. Un terrificante bilancio di perdite: 10.000 kmq di territorio abbandonati, 40.000 fra morti e feriti, 300.000 prigionieri, un numero ancora maggiore di sbandati da recuperare e riequipaggiare, 600.000 profughi civili che intasarono le strade creando un’immensa carovana in fuga verso Ovest, quantità enormi di materiali perduti, compresa buona parte dell’artiglieria pesante[5], magazzini e case private saccheggiate. E su tutto la paura che le forze armate non fossero più in grado di combattere, una sorta di “sciopero militare” così grave che potesse aprire la strada a un esito rivoluzionario alla maniera russa, evento che contemporaneamente stava infiammando Mosca e San Pietroburgo.

Anche da un punto di vista geopolitico l’evento si stava delineando come una vera e propria minaccia per il giovane Stato unitario: fu necessario infatti sciogliere le camere e ricostruire il governo, mentre la tenuta dell’Intesa e il ruolo dell’Italia nelle relazioni internazionali ne risentirono profondamente. Solo il 9 novembre 1917, il generale Luigi Cadorna, dopo aver addossato la colpa di un tale sfacelo alle truppe e a quelli che considerava gli avversari interni: liberali, socialisti, cattolici e neutralisti, riuscì nel tentativo di schierare ciò che restava dell’esercito lungo il Piave e a recuperare la disciplina. Tuttavia, a manovra completata, viste le inequivocabili responsabilità della disfatta, fu costretto a ritirarsi e venne sostituito dal generale Armando Diaz. Si aprì così una nuova fase del conflitto che sarebbe proseguita fino a Vittorio Veneto.

Per tutta questa serie di motivi Caporetto è divenuto sinonimo di catastrofe, una bruciante sconfitta che si prestò fin da subito a strumentalizzazioni politiche, storiche e sociali volte a evidenziare vizi e problemi della Nazione. Un’onta che, pur sbiadita, è rimasta. In cento anni, attraverso questo singolo episodio, un Paese intero, con la sua società, i suoi intellettuali e addirittura il suo stesso esercito, si è autoprocessato e criticato in lungo e in largo, costruendo non solo una vera e propria «nebbia di guerra»[6] sull’evento, ma soprattutto uno scontro militare e politico che ancora oggi sembra lungi dall’essere consegnato alla storia.

Certamente, ridare oggettività storica all’accaduto realizzando una memoria condivisa non è impresa da poco, specialmente alla luce dell’eredità emotiva che il “disastro” ha lasciato lungo la Penisola. Eppure, il volumetto di Nicola Labanca, professore di storia contemporanea a Siena, rappresenta in questo senso un tentativo riuscito poiché connette con lucidità e sicurezza la storia militare con l’elemento politico, sia nei vari attori protagonisti della rotta, sia, soprattutto, nelle interpretazioni che ne sono state date da allora sino a oggi.

 

Il perché di Caporetto

Se di nebbia si tratta, dice Labanca, l’unico modo che lo storico ha per sollevarla è ripartire dalle voci dei combattenti, dal fante al generale, passare attraverso i risultati di cento anni di ricerche storiche e intrecciare tutte le varie prospettive ed esperienze avute dell’evento[7].

Capire Caporetto e confermarlo come «il nodo ineludibile e centrale della […] Grande Guerra italiana»[8] significa cioè non solo costruire un quadro complessivo di ciò che accadde fra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917 alla luce di un secolo di pubblicazioni, ma soprattutto tornare alle fonti dirette sull’accaduto e cogliere la soggettività degli attori che presero parte alla ritirata. Per giungere a questo risultato, secondo l’autore, bisognava fare riferimento all’unica voce ancora inascoltata poiché ignorata per decenni, ovvero quella della commissione d’inchiesta che, fra il marzo 1918 e i primi mesi del 1919, indagò sugli eventi della rottura del fronte e della rotta. Si trattò di un lavoro enorme, all’interno del quale centinaia di soldati, sottufficiali, ufficiali subalterni, ufficiali superiori e generali vennero interrogati per provare a capire quanto davvero fosse avvenuto.

Tali carte, frettolosamente archiviate in un clima politico che già iniziava a prestare Caporetto alla polemica e alla strumentalizzazione, all’analisi storica hanno invece mostrato un quadro estremamente complesso, nel quale si mescolano diversi livelli di percezione degli avvenimenti[9]. Ad esempio, la truppa e gli ufficiali di campo riferivano testimonianze simili, pur con differenze date dal grado e dalla diversa responsabilità avuta nella battaglia. Si concordava sul fattore sorpresa e sul fatto che l’attacco fosse avvenuto con tecniche realmente innovative, ma allo stesso tempo si lamentava la totale confusione derivata dalla mancanza di ordini dall’alto, ad ogni livello gerarchico. Scrive Labanca: «I soldati e gli ufficiali subalterni di Caporetto si erano sentiti accerchiati, avevano perso i contatti con i propri superiori e per evitare la prigionia avevano preso la strada delle retrovie»[10]. Se però questa è una spiegazione tecnico-militare, non va dimenticato che molti ammisero effettivamente di aver visto un gran numero di fucili buttati e non ripresi neanche sotto le minacce dei superiori, elemento che aggiunge una coloritura politica alla rotta. A ben guardare, un esercito battuto, inseguito dagli austro-tedeschi, senza armi e senza alcun vincolo gerarchico sin dalle unità minori costituisce un ritratto inquietante e secondo Labanca fu proprio questa immagine a dare origine al mito dello “sciopero militare” dei soldati italiani[11].

Tale interpretazione, infatti, è quella che traspare maggiormente dalle risposte degli alti ufficiali e del Comando Supremo. Molti degli intervistati che occupavano posizioni al vertice della struttura militare compresero fin da subito che Caporetto significava un’enorme disfatta e per questo motivo, nel segreto della Commissione, cercarono di addossare le responsabilità dell’accaduto ad altri corpi, ad altri reparti se non ad altri generali[12]. In questo contesto, dove comprendere le cause di Caporetto risultava ancora molto difficile, due apparivano essere i capri espiatori più logici poiché non necessitavano di profondi esami autocritici: da un lato il governo e i “nemici della guerra”, socialisti e neutralisti, ma soprattutto la truppa, giudicabile facilmente come indegna poiché costituita da contadini e specchio di un Paese ancora agricolo. Vi è però un altro dato importante che emerge dalle deposizioni degli alti graduati, ovvero una critica generale all’intero apparato militare e di conseguenza al governo che non lo sosteneva. Al terzo anno di guerra molti generali lamentavano che all’esercito «mancava tutto»[13]. Non si trattava solo di mancanze materiali, come i riservisti o le munizioni, ma di una complessiva e radicata assenza di comunicazione fra le varie articolazioni della macchina militare italiana. Recriminazioni di questo tipo, che andavano dalle accuse dirette a Cadorna alla descrizione della truppa come «orrenda folla ributtante»[14], passando per il disorientamento dato dal fallimento totale della guerra intesa come gerarchia rigidissima e rispetto, si intrecciarono insieme ad ulteriori dubbi, contraddizioni e vicendevoli accuse fra tutti i protagonisti della rotta, impedendone una comprensione a tutto tondo e infittendo la nebbia di guerra.

In una tale immagine di disordine e confusione, divengono chiare le difficoltà che da subito impedirono di trovare una spiegazione univoca di Caporetto. Labanca, tuttavia, colloca l’evento in un quadro più ampio ed aggiunge un fattore imprescindibile: la “stanchezza” dell’esercito italiano del 1917[15]. Per comprendere l’importanza di questo elemento, però, secondo l’autore le voci della battaglia non bastano più e alle carte d’archivio bisogna incorporare anche i risultati raggiunti in cento anni di dibattiti storici, i quali allargano la visuale su Caporetto inserendolo nella più ampia storia della Prima Guerra Mondiale.

Punto di partenza, però, resta la Commissione. Già allora i soldati denunciarono un diffuso malessere: turni notturni massacranti, l’estremo rigore della legge militare, periodi in prima linea di oltre sei mesi, mancanza di munizioni, di equipaggiamento e addirittura di opere di difesa adeguate[16]. All’occhio dello storico, e alla luce delle rielaborazioni storiografiche sviluppate in un secolo, secondo Labanca: «è impossibile non vedere in questo una presa di distanza dagli scopi della guerra, una critica ai propri comandi, una denuncia per essere stati lasciati a combattere addirittura affamati. […] La stanchezza era una forma di presa di distanza dall’esercito, dal governo e dallo Stato liberale che aveva trascinato quei soldati nel conflitto»[17]. Da un lato, dunque, un esercito anchilosato da anni di trincea, in cui i comandi scoraggiavano in ogni modo lo spirito d’iniziativa, dall’altro una forza mobile e fresca preparata appositamente per sfruttare la lentezza dell’avversario e che spingeva i sottoposti a prendersi responsabilità.

Di fronte a questa disparità la prima linea venne effettivamente schiacciata, ma furono le riserve, ammassate in trincee malsane, col morale a terra e di colpo separate dai comandi a sfogare la loro “stanchezza” e la loro irrequietezza ritirandosi verso la pianura. Non quindi cosciente ammutinamento né ignobile viltà, ma il crollo spontaneo di un esercito di massa tenuto insieme con la repressione, le cui unità si erano letteralmente stancate di combattere e di morire per uno Stato del quale ancora non si sentivano pienamente parte e che aveva partecipato ad una guerra di materiali senza esserne all’altezza. A questo si deve aggiungere non solo che l’esercito era ormai stremato da dieci “spallate” sull’Isonzo che avevano avuto scarsi risultati ma anche che a tutti i livelli della macchina militare italiana si iniziava a dubitare delle strategie di un Comando Supremo che percorreva sempre la solita strada dell’offensiva ad oltranza e pretendeva di applicare alla realtà le teorie apprese all’accademia. In una struttura militare dove tutti, dallo Stato Maggiore ai fanti, erano abituati all’obbedienza assoluta la rottura dei vincoli gerarchici fece il resto. Poi, dopo due settimane di sgomento, con un fronte più corto, una nuova classe di reclute, migliori condizioni in trincea e soprattutto con la possibilità di fare appello ad un sentimento nazionale per difendere la Patria invasa, le truppe tornarono ad obbedire lasciandosi organizzare dagli ufficiali. Il Piave e il Monte Grappa col tempo divennero mito, ma, come spiega l’autore: «per molti aspetti si trattava di un “altro” esercito che combatteva un’altra guerra»[18].

Vi è quindi un significato politico della disfatta che Labanca mette in luce. Caporetto, innanzi tutto, permise al nuovo governo un intervento più attivo nell’economia e di conseguenza nell’integrazione delle masse nello Stato. Inoltre avviò una serie di trasformazioni nella vita quotidiana dei soldati e del popolo che resero l’ultimo anno di guerra ben diverso da quelli precedenti. Il fronte interno si accorse di questo cambiamento ma il continuo peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, e soprattutto la presa di coscienza del fatto che Caporetto rappresentava il fallimento della guerra così com’era stata pensata da Salandra nel 1915, spinse operai e contadini ad un rifiuto verso gli scopi del conflitto voluto dalla classe dirigente e all’affermazione di uno stato d’animo diverso[19] che poi si sarebbe sfogato nel primo dopoguerra.

 

Cent’anni di Caporetto tra memoria e futuro della ricerca

Le conoscenze storiche sin qui tratteggiate sono state raggiunte non solo grazie allo studio delle fonti, ma anche facendo riferimento al risultato di un secolo di scritti e di interpretazioni. Di questo lungo e accidentato percorso Labanca è ben consapevole e forse la parte più interessante della sua opera è proprio l’approfondita storia della storiografia su Caporetto che egli delinea nella terza sezione del libro.

Vale qui la pena citare direttamente l’autore, che riassume le cinque fasi della pubblicistica che si sono susseguite: «Ci vollero dapprima le accese discussioni e le polemiche sulle risultanze della Commissione d’Inchiesta, poi le dispute fra militari e generali negli anni Venti e Trenta, in un contesto dove Caporetto era normalizzato e pacificato sotto l’egida fascista, ci volle il lavoro degli storici militari negli anni Cinquanta-Sessanta e poi quello degli storici più critici fra gli anni Settanta e Novanta, sino alle nuove ricerche degli ultimi quindici anni, verso il centenario e oltre»[20].

È dunque negli ultimi e convulsi anni dell’Italia liberale che vanno cercate le radici del dibattito storico-politico sull’evento. Con la Relazione della Commissione condizionata ed archiviata malamente si riaccesero le polemiche fra neutralisti ed interventisti, fra cadornisti e critici e fra sostenitori della guerra “imperialista” contro sostenitori della “guerra di redenzione nazionale”. Al fine di moderare le diatribe il governo espresse una linea patriottica, dove Caporetto veniva silenziata e allo stesso tempo sublimata in una gloriosa disfatta, utile alla Nazione per trovare la compattezza mancante verso la Vittoria. Il fascismo irrigidì questa retorica nell’ideologia nazionalistica, promuovendo le opere memorialistiche dei generali, riabilitando la gran parte dei protagonisti e offrendo agli italiani una memoria pubblica di regime. Vi era però una lettura politica dell’evento che non poteva essere taciuta. Sin dal 1919 si videro analisi e spiegazioni da più parti, anche da chi Caporetto non l’aveva mai vissuto. Spiega Labanca: «molti parlavano anche senza saperne molto […] giusto per intervenire nel dibattito del dopoguerra»[21]. Fra questi, la lettura di Curzio Malaparte che codificò la leggenda dei «santi maledetti» di Caporetto ebbe dominio pubblico e giocò un ruolo fondamentale nello rafforzare l’interpretazione dello “sciopero militare” come rivolta anarchica[22]. Inoltre, andò strutturandosi il livello della memoria dei soldati e del dolore, ma anche questa seconda linea venne considerata secondaria.

Anche nella neonata Repubblica si optò, inizialmente, per una memoria di stampo retorico e continuista. La Grande Guerra, vista come Quarta Guerra d’Indipendenza, stava ormai entrando nei libri di storia, fra l’altro in secondo piano rispetto alla Resistenza, sulla base della quale il nuovo Stato avrebbe basato molta della sua identità. In questa fase, dunque, come in quelle precedenti, fu il livello dell’analisi militare ad essere seguito e di conseguenza ricomposto dalle polemiche, mentre le memorie dei soldati continuarono ad essere sottovalutate o, quantomeno, inserite in una narrazione patriottica.

La questione cambiò con l’apertura degli archivi e con il clima di contestazione degli anni Settanta. Le due opere di Mario Isnenghi e Alberto Monticone, concentrate sulla repressione militare e sulle reali divisioni delle masse nel Paese, spostarono l’attenzione dai generali ai fanti e revisionarono profondamente l’interpretazione retorica e cadorniana[23] rendendola inservibile. Da quel momento le ricerche storiche su Caporetto consolidarono gli errori dei comandi inserendoli in un contesto più ampio, fatto di dissidi interni, di esperienza della guerra “dal basso” e di trasformazioni politiche e sociali molto complesse. In poche parole, la dimensione evento di Caporetto si era trasformata in analisi strutturale della Grande Guerra[24]. Questo significava anche una rivalutazione della memoria dei soldati, lo sviluppo degli studi storici sulla profuganza dei civili e delle fratture del fronte interno, così come uno spostamento generale «dal centro alla periferia» degli studi sulla guerra.

Tale trend si è intensificato negli ultimi quindici anni, parallelamente alla frantumazione delle grandi spiegazione contrapposte tipiche del periodo della Guerra Fredda, e ha permesso l’esplosione di mille nuove prospettive, spesso eccellenti come le riscoperte turistiche e narrative della Prima Guerra Mondiale ma a volte anche discutibili come i tentativi di redenzione dei generali o il recupero dello “sciopero militare”, che solo raramente si ricompongono con ordine. Nel clima di un centenario che ha posto l’accento sulla dimensione apocalittica del 1914 e sui soldati come “vittime” più che attori e protagonisti, si rischia di dimenticare le peculiarità storiche dell’Italia liberale e della politica internazionale che portò a Caporetto.

La conclusione, dice Labanca, è il concreto rischio di un ritorno della nebbia di guerra non solo sull’evento in sé, ma anche sull’esperienza dell’Italia nella Grande Guerra[25]. Se quindi non è ancora possibile relegare Caporetto alla storia, compito degli studiosi è conoscere ed utilizzare quanto è stato prodotto migliorandolo. In primis, non discutere più sulla spiegazione militare, intrecciando gli errori dei comandi e la pura spiegazione tecnica con l’elemento più politico della stanchezza, ma senza cadere nella retorica né dall’una né dall’altra parte. Secondariamente, colmare le lacune esplorando le nuove fonti documentarie e rendendo disponibili al grande pubblico le traduzioni delle opere tedesche ed austriache. Ma soprattutto, si tratta di illuminare Caporetto in un’ottica militare, internazionale e sociale di stampo multidisciplinare, che integri il consolidato elemento militare con le innovative dimensioni della ricerca più recente. Solo così Caporetto e tutti gli eventi ad esso collegati possono illuminare i molteplici aspetti della partecipazione dell’Italia al primo conflitto mondiale.


[1] Il paese di Caporetto stava e sta in terra slovena. Come quasi tutte le località a cavallo del confine, possiede tre ulteriori nomi: Kobarid in sloveno, Karfreit in tedesco e Cjaurêt in friulano. All’epoca della disfatta era nota a livello locale con il nome sloveno e friulano mentre nelle mappe austriache era indicata con il toponimo tedesco. Ma in Italia era già nota da tempo con il nome di Caporetto e come Caporetto è passata nella storiografia francese ed inglese. Vista questa diffusione internazionale, per convenzione e per rifiuto di qualsiasi forma di nazionalismo, si utilizzerà dunque questa dicitura e così varrà per tutti gli altri toponimi multilingue, (anche l’Isonzo, se si ragiona in questi termini, dovrebbe essere chiamato Soča-Sontig-Lusinç) pur tenendo ben presente tale realtà territoriale.

[2] Si veda, a titolo esemplificativo, autore ignoto, L’offensiva austro-tedesca incomincia: essa ci trova saldi e preparati, il Resto del Carlino, 25 ottobre 1917, p. 1, Autore Ignoto, L’offensiva austro-tedesca si delinea da Plezzo alla Bainsizza, Il Resto del Carlino, 26 ottobre 1917, p. 1, G. Piva, Il nemico tra Plezzo e Tolmino, Il Resto del Carlino, 26 ottobre 1917, p. 26. Autore Ignoto, Resistere, Corriere della Sera, 28 ottobre 1917. Senza trascurare le fonti di parte austro-tedesca, Autore ignoto, Die Offensive gegen Italien, Neues Wiener Tagblatt, 28 ottobre 1917 e Autore ignoto, Naši na italijanskih tleh (I nostri si trovano su suolo italiano), Slovenec, 27 ottobre 2017.

[3] Per una primissima contestualizzazione vale ancora la pena riferirsi a M. Isnenghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, Firenze, La Nuova Italia, 2000 e G. Rochat, Caporetto: le cause della sconfitta, in Kobarid-Caporetto-Karfreit 1917-1997, Kobarid, Kobariski Muzej, 1998, pp. 145-152.

[4] Chi più di tutti sostiene questa tesi, dimostrando che Caporetto non fu solo disfatta ma una serie di battaglie di ripiego è P. Gaspari, Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, Udine, Gaspari, 2011.

[5] A. Astorri, P. Salvadori, Storia illustrata della Prima Guerra Mondiale, Milano, Giunti, 1999, p. 125.

[6] J. Keegan, Il volto della battaglia, Milano, Mondadori, 1978, p. 44.

[7] N. Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 14-15.

[8] Ibidem, p. 17.

[9] Ibidem, p. 21 e segg.

[10] Ibidem, pp. 33-34. Corsivo mio.

[11] Ibidem, p. 92.

[12] Ibidem, p. 54.

[13] Ibidem, p. 59.

[14] Parole del Gen. Di Giorgio, Ibidem, p, 55.

[15] Ibidem, p. 27.

[16] Qualcuno dichiarò che «nemmeno le trincee potevano dirsi complete». Ibidem, p. 25.

[17] Ibidem, p. 27.

[18] Ibidem. P. 134.

[19] Nelle parole di Labanca: «miti e speranze di una totale trasformazione dello stato di cose esistente: […] l’attesa messianica della pace, la rivoluzione o altri radicali cambiamenti». Ibidem, p. 144.

[20] Ibidem, p. 80. Corsivo mio.

[21] Ibidem, p. 165.

[22] Ibidem, pp. 165 e segg. Si veda inoltre F. Montanari, Ripensare la Grande Guerra: ancora a proposito di “Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti” di Curzio Malaparte, in «Between» n. 10 (2015). http://www.Betweenjournal.it/

[23] Si parla di A. Monticone, Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, M. Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967 e Id. Il mito della Grande Guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970.

[24] N. Labanca, Caporetto, op. cit., p. 182.

[25] Ibidem, p. 191 e segg.

Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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