“Catilina. Una rivoluzione mancata” di Luciano Canfora
- 08 Febbraio 2024

“Catilina. Una rivoluzione mancata” di Luciano Canfora

Recensione a: Luciano Canfora, Catilina. Una rivoluzione mancata, Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 408, 25 euro (scheda libro)

Scritto da Niccolò Doni

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Ancora in età imperiale, storici come Dione Cassio continuavano a riflettere sugli eventi della Tarda Repubblica (133 – 31 a.C.), un’epoca rinomata per la sua profonda instabilità, le discordie civili, la costante infrazione della legalità tradizionale. In questi decenni, gravi crisi sociali scuotono le fondamenta di Roma, tra tutte il crescente indebitamento di molti cittadini e i dissidi intorno alla distribuzione dell’ager publicus[1]. Al contempo, sul piano politico, la nobilitas affronta la spaccatura tra la fazione dei populares, difensori delle classi meno abbienti; e quella degli optimates, volti a preservare l’egemonia dell’oligarchia senatoria[2]. Il quadro si complicherà ulteriormente, nel trentennio che intercorre tra il 70 e il 40 a.C., con l’esplosione della lotta per il potere tra i massimi esponenti della politica romana. Pompeo Magno, Marco Licinio Crasso, Gaio Giulio Cesare – e in parte Marco Tullio Cicerone – si sfidano, infatti, per conquistare una posizione di predominio personale all’interno dello Stato. Ciascun contendente aspira a prevaricare l’ordine costituito, per divenire infine leader indiscusso, princeps in re publica.

L’ultimo lavoro storiografico di Luciano Canfora, professore emerito di filologia greca e latina presso l’Università di Bari, raccoglie dunque l’interesse verso quest’ultima, travagliata, fase della Repubblica. L’autore decide di riesaminarne un evento cruciale, per restituire ai lettori specifiche e determinanti verità, finora tenute in secondo piano. La congiura ordita da Lucio Sergio Catilina negli anni 64 – 63 a.C. non rappresentò, infatti, l’estrema follia di un nobile decaduto e isolato, interdetta eroicamente da Cicerone. Come descritto all’interno delle quattro parti principali dell’opera, nel tumulto dell’epoca essa ricoprì un ruolo ben più complesso e radicale.

Assumiamo come dato iniziale – la questione non viene del tutto risolta – che già prima delle elezioni estive, del 64 a.C., Catilina riunisca un ristrettissimo gruppo di congiurati, deciso a conquistare il potere. All’interno della parte II vengono ripercorsi I fatti che, da questa cospirazione di intenti, condurranno al gennaio del 62 a.C., quando i ribelli troveranno la morte per mano dei legionari repubblicani. In prima battuta, l’analisi canforiana si affida al Bellum Catilinae, redatto da Gaio Sallustio Crispo[3], quale fonte di maggior rilievo nella ricostruzione degli eventi. Questo resoconto costituisce, intanto, la chiave per comprendere la reale estensione della cerchia catilinaria. Stupefacente, considerando che i legami con alcuni sostenitori giungono, addirittura, alle province della Spagna Citeriore e della Mauretania[4]. Al contempo, svela l’obiettivo centrale del programma rivoluzionario, quelle tabulae novae che avrebbero liberato molti cittadini dal giogo dei debiti.

Risulta facile intuire quale sia la seconda, fondamentale, fonte storiografica di riferimento. Si tratta di Cicerone, che sconfigge Catilina alle elezioni del 64 a.C. e che, da console in carica, ordirà la “strategia della tensione” del 63 a.C., precludendogli la vittoria nelle urne. Grazie alle rivelazioni delle sue spie, viene ben evidenziato il grave rischio corso dall’oligarchia senatoria. Non solo lo stesso Gaio Antonio, il secondo console designato, viene infatti annoverato tra i catilinari; ma si scoprirà che anche Giulio Cesare, pontifex maximus, così come Crasso, l’uomo più ricco della Repubblica, sono i sostenitori segreti, se non i mandanti, della congiura.

Vengono quindi ripercorse le tappe che condurranno alla Prima Catilinaria e, infine, al massacro di Pistoia. Comprese quelle trame segrete e quelle violazioni giuridiche che Cicerone si occuperà di ritoccare o di oscurare, nella composizione del Commentarius de consulato suo. Sebbene incompleto e falsato, tuttavia, il resoconto del console si affermerà come versione dei fatti dominante. Per questo motivo, la parte IV dell’opera (il De consulato suo come fonte) si dedica alla ricostruzione e alla valutazione del suo contenuto. L’autoesaltazione e la condotta dell’arpinate sono ridimensionate, soprattutto, grazie a un’altra tradizione di età repubblicana: quella catoniana. La linea “Catone il giovane – Munazio Rufo – Marco Giunio Bruto”, finora poco frequentata, diviene così il contraltare per reinterpretare alcuni passaggi, cruciali, dell’intera vicenda.

Canfora, d’altro canto, redige il suo lavoro non soltanto confrontandosi con le fonti classiche, ma anche dialogando (e polemizzando) con la produzione storiografica moderna. Con tutti quei contributi interpretativi, quindi, che dalla “scuola tedesca” di metà XIX secolo si dispiegano fino ai nostri giorni. Questo immenso sforzo, incentrato soprattutto su questioni di esegesi e di cronologia, costituisce un modello d’eccellenza per i classicisti rigorosi; ma anche una possibile sfida, per il grande pubblico. Se ne riscontrerà un chiaro esempio, quando si affronterà il dibattito intorno alla data delle Elezioni dell’anno 63 (parte III). Questa sezione dell’opera, destinata al vaglio critico delle diverse ipotesi cronologiche, si inoltra infatti all’interno di un’antica, quanto minuziosa, disputa accademica, proponendo spesso confronti tecnici di difficile comprensione.

Di questa monumentale impresa, inoltre, segnaliamo un mancato approfondimento sulla crisi dei debiti nella Tarda Repubblica. Nonostante le parole del console, che descrivendo il proprio mandato asserirà esplicitamente «mai ci fu, nella Repubblica, un maggiore indebitamento»[5]; e nonostante i riferimenti al «vasto mondo (interclassista) degli indebitati» (p. 36), l’opera non vi riserva alcuna trattazione specifica. Naturalmente, di nessuna produzione storiografica, si pretende una rendicontazione omnicomprensiva. Questo approfondimento, tuttavia, avrebbe forse chiarito al lettore l’entità di tale dramma sociale e, dunque, la rilevanza del programma politico rivoluzionario. Avrebbe poi costituito un’ottima premessa alla magistrale interpretazione della cospirazione, esposta nel Prologo; e alle riflessioni sul Cesarismo che seguiranno nella Parte I, denominata La posta in gioco.

Queste due sezioni, di fatto, rappresentano il fulcro dell’intero progetto, perché i nuclei teorici che vi sono collocati possiedono un rilievo di importanza capitale. Da un lato, ben si riconoscerà la valenza del materialismo storico marxista, nell’interpretazione della congiura quale riscossa di una precisa pars, sociale e politica, contro l’egemonia oligarchica. La terminologia che inquadra questo conflitto “a prospettiva catastrofica”, inaugurato già dall’assassinio di Tiberio Gracco[6], fa infatti riferimento ai testi di Karl Marx e di Antonio Gramsci (p. 16). Dato ovviamente non causale, se il lettore ricorda la lunga serie di studi canforiani dedicati al tema del comunismo. Tra i più recenti, La metamorfosi (Laterza 2021) e Marx e i suoi scolari (Stilo Editrice 2023), insieme a Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza 2019), incentrato sulla figura del noto latinista “catilinario”.

La trattazione dell’autocrazia imposta da Cesare, dall’altro lato, non soltanto connota in modo ineluttabile le sorti della libera res publica. Già Sallustio aveva capito che, anche se Catilina avesse trionfato, «gli eventuali vincitori non avrebbero potuto godere gran che della vittoria, non avrebbero potuto impedire che – nel fatale tracollo delle forze di entrambe le parti – uno ben più forte (qui plus posset, cioè militarmente) si impadronisse del potere e abrogasse la libertà politica»[7]. Questa stessa trattazione del Cesarismo suggerisce inoltre – e infine – l’elaborazione di una nuova riflessione critica. Un tentativo, per quanto incompleto e faticoso, di intessere un dialogo produttivo tra l’epoca classica e la modernità. Quale fenomeno storico, il Cesarismo verrà reinterpretato, principalmente, come «instaurazione di un regime politico autoritario, basato sul potere di un uomo “forte”, appoggiato dalle forze armate e dal consenso popolare, perché dotato di carisma e capace di porre fine a una situazione di disordine e di conflitto sociale e politico»[8].

L’ascesa del generale Napoleone Bonaparte, negli anni immediatamente successivi allo scoppio della Rivoluzione francese, ne costituisce l’esempio più calzante. Allo stesso modo l’Italia conoscerà, in seguito all’autunno caldo, strategie della tensione intenzionate a promuovere derive cesaristiche. Se questi sono i presupposti, sorge allora una domanda. In questo convulso periodo storico, quale prescrizione, comunemente condivisibile, deve adottare la nostra Repubblica, per tutelare il proprio statuto democratico? Senza cedere a tentazioni illiberali o, ancor peggio, a eventuali svolte autoritarie?

Una possibile, seppur parziale, risposta, la si può rintracciare nel pensiero del filosofo Massimo Cacciari, che si è recentemente espresso in merito alla crisi della nostra democrazia[9]. La chiave fornita indica la necessità di perpetuare, rigorosamente, il conflitto sociale e politico nel nostro Paese, ma mantenendolo sempre all’interno di un ordine. Un conflitto quindi condotto dentro un ethos comune, fondato sui valori della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza, quale possibile risposta alla nostalgia di modelli alternativi, a quello democratico. Naturalmente, sarà compito del lettore quello di accogliere o meno questa riflessione, oppure di esplorare, autonomamente, quali altre spunti possa suscitare l’opera di Luciano Canfora. La quale, ancora una volta, testimonia la capacità degli eventi passati di esercitare una straordinaria forza critica, nei confronti del nostro inquieto presente.


[1] In Roma antica, il territorio appartenente allo Stato, in gran parte frutto delle conquiste effettuate a danno delle popolazioni vinte. Fonte primaria di ricchezza, la sua suddivisione accese sempre aspri dibattiti e, in casi estremi, scontri armati.

[2] Con nobilitas, si intende la classe dirigente della Repubblica che aveva condotto e vinto le guerre imperialistiche nel Mediterraneo. A cominciare dal I secolo a.C., essa si divise nelle due fazioni citate e fu costretta a confrontarsi con l’ascesa di un nuovo ceto sociale, quello dei cavalieri (equites).

[3] Sallustio scrive il Bellum Catilinae nel 42 a.C., dopo la fine della “monarchia” di Cesare.

[4] La Spagna Citeriore corrispondeva all’area estesa dai Pirenei fino alla linea di Cartagena, la Mauretania all’odierno Marocco e a parte dell’Algeria.

[5] Così riportato in De officiis, II, 84.

[6] Tiberio, insieme al fratello Caio Gracco, costituiva una figura di riferimento fondamentale negli ambienti populares. Entrambi si erano battuti per un’equa redistribuzione della terra ed entrambi furono assassinati dall’oligarchia senatoria, tra il 133 e il 121 a.C.

[7] Così riportato in Bellum Catilinae, 39, 4.

[8] Definizione fornita dall’Enciclopedia Treccani.

[9] Si può accedere alla registrazione audio e video intervento di Cacciari Democrazia: quali valori?, compreso tra i contenuti digitali di Pandora Rivista, a questo link al canale YouTube di Pandora Rivista.

Scritto da
Niccolò Doni

Studia Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Si interessa di politica italiana e delle sue interpretazioni in chiave filosofica.

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