Scritto da Paolo Missiroli
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“Che cos’è l’Antropocene?” Questa domanda comincia a venire posta anche in Italia, e non solo all’interno delle accademie. Una parola nuova si aggira nelle menti di chi vuol capire qualcosa sul presente. Ad essa si accompagnano sentimenti e reazioni diverse. Vi è già chi la disgusta, chi la ritiene un’arma nelle mani dell’analisi critica del presente, chi non vi riesce a vedere nulla di politico (“ma questa è scienza, cosa c’entra con la lotta politica?”), chi si prepara a combatterla con ogni mezzo. Ma che cos’è l’Antropocene? E perché questo concetto sta scaldando gli animi, al di qua ed al di là dell’oceano Atlantico, sopra e sotto l’Equatore?
L’Antropocene, in effetti, non è. Esso è, potremmo dire, un “significante vuoto”. Si tratta di una parola che evoca qualcosa ed i cui vari significati hanno solo qualche sottile linea di congiunzione l’uno con l’altro. Proviamo a dirlo nel modo più generale possibile: l’Antropocene sarebbe l’epoca geologica attuale, cominciata in un momento imprecisato del passato, in cui l’uomo sarebbe il principale fattore “influenza” (ma cosa significa influenzare?) esistente nel pianeta Terra. Risulta molto chiaro come una simile definizione non serva né insegni nulla; e soprattutto, che bisogno c’era di inventare un termine del genere, o almeno, di donargli un valore politico? Non bastava forse parlare di “crisi ambientale”? Come mai ribolle, nel mondo accademico ed in quello della divulgazione, nella teoria critica e nel conservatorismo sociale più radicale, nell’ecologismo come nel movimento produttivista, un dibattito feroce su tale termine? Per capire questo, bisogna innanzitutto capire che ci sono almeno tre possibili modi di intendere l’Antropocene. Esso può essere buono, catastrofico o relazionale.
L’Antropocene “buono” è quello che si sta affacciando, secondo un composito insieme di scienziati e di autori, sul teatro della storia. L’essere umano (non altrimenti specificato) starebbe, dopo secoli di oppressione da parte della natura, ottenendo la possibilità reale di emanciparsi dalla sua condizione di costrizione. Egli avrebbe finalmente il potere di liberarsi dalla materialità della sua esistenza (questo, ad esempio, nelle teorie della singolarità) e di librarsi al di là degli estremi confini. L’uomo non è un animale come gli altri non perché si collochi alla cima di una qualche Creazione, ma perché è egli stesso il Creatore. In barba al secondo principio della termodinamica, l’Antropocene degli apprendisti stregoni è il termine finale di una strada gloriosa in cui l’uomo è il solo protagonista. In questi pensieri, non c’è nemmeno più un Dio che ponga l’uomo sulla strada di una storia della salvezza. L’uomo, come il barone di Munchausen, che si sollevava da solo dalla sua palude tirandosi per i capelli, può andare già da sempre al di là. L’uomo, qui, non ha un mondo. Egli può addirittura sfuggirne, come invocano Stephen Hawking e, a modo suo, Christopher Nolan nel suo Interstellar.
L’Antropocene “catastrofico” è quello che, all’interno di un vasto ambiente culturale e filosofico, identifica la nostra era come era della fine di ogni cosa. Facendosi forza anche di un certo atteggiamento di parte della teoria ecologica e del pensiero ambientalista da inizio Ottocento in poi secondo cui l’uomo sarebbe in sostanza il cancro del pianeta, questo tipo di atteggiamento vede l’Antropocene o come era ineludibile della catastrofe finale, cioè della fine di ogni mondo possibile (ribaltando l’antropocentrismo dei signori del mondo di cui parlavamo prima: non vi è mondo senza uomo), o come fine di ogni umanità possibile.
Mettendo da parte, per il momento, le possibilità effettive che queste visioni abbiano reale riscontro nella pratica e nella realtà (potremmo parlare a lungo della scarsa realizzabilità dei progetti geo-ingegneristici e dei sogni di gloria dell’emigrazione dal pianeta Terra, come della concreta impossibilità che si realizzi una effettiva estinzione di massa dell’uomo a causa del solo cambiamento climatico), vorrei far comprendere come, a livello concettuale ed anche metafisico queste due prospettive condividano almeno due prospettive decisive, quando si parla di crisi ecologica da un punto di vista filosofico: quella del tempo, e quella dell’uomo. Che tempi sono questi? Con questa domanda intendo chiedere: in che rapporto tra passato, presente e futuro si collocano questi due tipi di “ere” (cioè l’Antropocene “buono” e quello “catastrofico”)?
Il tempo che noi conosciamo, quello moderno, è stato descritto, proprio in questi termini, da Koselleck, nel libro Futuro passato. I moderni vivono in un tempo in cui l’orizzonte di aspettativa (quello che ci aspettiamo dal futuro) si allarga enormemente al di là dello spazio di esperienza (quello che sappiamo del nostro passato); un tempo che ad-viene sempre dopo una grande rivoluzione che ha sancito una distanza assoluta tra noi e gli altri. I moderni, inoltre, vivono in un tempo di cui essi stessi sono i produttori. Tutto, del loro mondo, è stato prodotto da loro. Certo, vi è una natura al di fuori di loro: ma su di essa questi curiosi uomini esercitano un controllo sempre più radicale e la rendono via via sempre più inessenziale. La natura, infatti, è per i moderni l’altro dall’uomo.
Se si fa attenzione, si vede come la visione del tempo dell’Antropocene buono è esattamente speculare a questa appena descritta da Koselleck. L’aspettativa è più vasta che mai: è il dominio stesso dell’universo. Noi siamo i facitores del mondo (geo-ingegneria). Il nostro tempo, inoltre, non solo viene dopo una grande rivoluzione (quella tecnico-scientifica degli ultimi secoli) ma è esso stesso una rivoluzione: quella della presa di potere finale dell’uomo. Tale visione, se ci si riflette attentamente, è spesso alla base di moltissimi discorsi che vengono fatti anche nel dibattito pubblico. Anche l’Antropocene “catastrofico” vive un tempo che è fino in fondo moderno: esso evidenzia il giungere di qualcosa di completamente diverso, qualcosa che non è mai successo, a causa di un uomo che è diverso da tutti gli altri uomini, perché è certamente cattivo, ma anche potente, più di ogni altro. Esso sta, esattamente come l’uomo del buon Antropocene, alla fine della storia, senza dubbio nel male, ma comunque nella potenza e nella solitudine, caratteristica principe dell’uomo moderno. I moderni sono il popolo più solo che sia mai esistito. Sono responsabili di tutto, nel bene e nel male, sono diversi da tutti, nel bene e nel male.
Ma di che uomo si parla, quindi? L’uomo responsabile dell’Antropocene, è, nei discorsi di cui abbiamo parlato, l’umanità intera. Ma cosa si intende per umanità? Per umanità, si intende l’uomo moderno. Un uomo che ha un rapporto determinato (di sfruttamento) con la natura, che punta sempre al superamento di ogni limite ed all’al di là rispetto alla sua condizione storica. Un uomo che viene spacciato come l’uomo vero, come la verità dell’uomo. Come tutta l’antropologia dagli anni ’50 in poi ci insegna che questo è del tutto falso, che l’uomo occidentale è uno dei tanti, che questa sua voracità (che andrebbe poi meglio spiegata) non è caratteristica della natura umana e che dunque l’uomo che fa parte sia della narrazione buona che quella catastrofista (allo stesso modo: l’uomo della potenza, da un lato, l’uomo locusta e distruttore dall’altro), è solo uno dei tanti. È un soggetto specifico e non necessario. Peraltro, molti dei discorsi sulla necessaria riduzione della popolazione mondiale (discorsi che hanno, peraltro, diverse ragioni) si appiattiscono su un’idea dell’uomo come sempre uguale a se stesso, come uomo moderno. L’uomo consumista è, per tutte questi ragionamenti, l’unico uomo possibile.
Queste due visioni, apparentemente opposte, condividono dunque una base teorico-metafisica fondamentale. Ma allora, si dirà, è giusto quanto veniva riportato all’inizio, cioè che è bene smettere di parlare di Antropocene? In realtà, c’è un altro campo di posizioni a questo riguardo. Tale campo non è in alcun modo riassumibile in poche parole, ma lo abbiamo definito “relazionale” perché ciò che accomuna una serie di posizioni sul significato di Antropocene è proprio l’idea che sia giunto il tempo in cui l’uomo impara a relazionarsi con il mondo. Naturalmente si tratta di un concetto profondamente differente dai due rapidamente esposti sopra, perché ha una forte carica prescrittiva che manca (direttamente) agli altri due (che sono solo indirettamente prescrittivi: abbiamo visto come parlare di uomo in assoluto significhi anche costruire un certo tipo di soggettività, faccia parte di un movimento di normalizzazione). Esso si fonda anche su una lettura profondamente differente del tempo, e risponde diversamente alla domanda “che cos’è l’uomo”?
Vi può essere un tempo che sta in una relativa differenza rispetto al passato, ma non è l’assoluto altro dal passato: è questo l’Antropocene dei geologi, un tempo diverso, certamente, ma interno alla deep history, uno dei tanti tempi. Non è un tempo ontologicamente diverso, non pone l’uomo al vertice della creazione: l’uomo ha semplicemente fatto sì che stratigraficamente fosse possibile marcare una differenza. Non si tratta dunque né del tempo medioevale, eternamente uguale a se stesso nell’attesa della salvazione finale; e nemmeno del tempo dei moderni, radicalmente altro dal passato. È un tempo che si colloca a cavallo tra queste due prospettive: inserito nella deep history, la storia geologica del pianeta, ed al contempo diverso da ogni tempo venuto prima, almeno quantitativamente. L’uomo, inoltre, non viene né considerato come una locusta mostruosa, né come un signore del pianeta; ma come un ente dotato di agency sul mondo, da cui è legato a doppio filo da una relazione di trasformazione costante ed allo stesso tempo di condizionamento. Non c’è uomo senza mondo; c’è mondo senza uomo. Eppure, un mondo diverso, un mondo cambiato dall’uomo: l’Antropocene durerà nei millenni, molto dopo la nostra scomparsa.
Si evita quindi anche un relativismo radicale, tipico di alcuni ragionamenti che leggono frettolosamente l’antropologia contemporanea: non è vero che ogni uomo è del tutto diverso dagli altri. Ogni uomo, possiamo dire, vive in una condizione di rapporto con la natura. La crisi climatica può distruggere molti habitat, anche quelli degli uomini che non sono responsabili della crisi in quanto tale. La crisi ecologica sta all’incrocio tra tre storie, come sostiene Chakrabarty: quella del pianeta, quella della vita e quella dell’industrializzazione. A partire dall’incrocio tra queste tre storie e da una contestualizzazione storica dell’emergere della crisi ecologica è forse possibile, secondo Chakrabarty, cominciare a parlare di specie.
In ultimo, una precisazione. Parlare di Antropocene può significare, certamente, parlare di un’epoca in assoluto, cioè di un tempo che sarebbe integralmente sottoposto, in ogni suo versante, alla potenza (buon Antropocene) o alla catastrofe. Molta dell’insofferenza a tale termine viene da questo: perché bisogna sottoporre un momento storico in realtà assolutamente complesso come il nostro ad un’unica parola e ad un unico concetto che lo determini in tutto e per tutto? Era, questa, una delle più grandi difficoltà che da molte parti veniva rivolta al concetto di “capitalismo” e viene rivolta oggi a quello di “neoliberismo”. Si parla di un momento storico (peraltro facendo spesso riferimento ad una dimensione globale) volendolo semplificare, sotto il paradigma di una “logica”, a determinate categorie concettuali. Non è forse la stessa operazione che si fa quando si parla di Antropocene? Non è forse, insomma, un concetto totalizzante?
In realtà, come hanno ben mostrato Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, è possibile concepire l’Antropocene come insieme di storie. Esso è l’incrocio tra la storia della modernità, ed anche quella di popoli non moderni (Chakrabarty ha mostrato come l’esplosione demografica non sia riconducibile al solo capitalismo, per quanto riguarda Cina ed India, ma come il capitalismo abbia piuttosto funzionato da attivatore di tendenze latenti). Antropocene non solo non prende il comando e la guida della storia, ma al contrario non è altro che un concetto che funziona come un insieme di altri concetti, è una storia che è un coacervo di storie. Non si può separare dalla storia del capitalismo, ma in un qualche modo la contiene, in quanto storia geologica del pianeta. Allo stesso modo, si capisce come non possa esserci storia della natura separata da quella dell’uomo, almeno fino a quando ci saranno uomini sul pianeta Terra. Ogni storia dovrà da ora in avanti confrontarsi con la dimensione biologica e geologica della vita.
Possibilità non così remota, se non si comincia a mettere in discussione alcuni dei miti dei moderni, anche attraverso il ripensamento del loro posto nella storia e nel mondo.
Possiamo così concludere: non bisogna chiedersi “che cos’è l’Antropocene” giacché esso non è mai davvero, non è mai fino in fondo. Questo concetto non può, per fortuna, essere chiuso in un solo significato. Bisogna piuttosto chiedersi “che cosa può fare il concetto di Antropocene”, a patto che venga collocato su specifici piani concettuali e posizionamenti politici, che rifiutino dogmi, miti e “soggettività” ancora molto radicati nella società occidentale contemporanea.