Che cosa dicono i populisti: dal libro di Jan-Werner Müller
- 02 Marzo 2023

Che cosa dicono i populisti: dal libro di Jan-Werner Müller

Scritto da Jan-Werner Müller

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Chiunque critichi le élite al potere dovrebbe essere definito populista? Qual è la differenza tra populismo di destra e di sinistra? Il populismo avvicina il governo al popolo o costituisce una minaccia per la democrazia? Jan-Werner Müller, Professore di Social Sciences e Politics presso la Princeton University, ha affrontato queste domande in Che cos’è il populismo? uscito in Italia nel 2017 e diventato ben presto un classico tra gli studi contemporanei sul populismo, una categoria che il libro di Müller ha contribuito a rendere meno aleatoria. Il volume è oggi riproposto da Egea Editore con una nuova prefazione dell’autore e un saggio di Nadia Urbinati, ne pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.


«Uno spettro s’aggira per il mondo: il populismo»[1]. Così scrissero Ghiță Ionescu ed Ernest Gellner nell’introduzione a un volume sull’argomento pubblicato nel 1969. Il libro si basava sui documenti diffusi durante una grande conferenza tenutasi alla London School of Economics nel 1967 con lo scopo di «definire il populismo». Alla fine, i numerosi partecipanti non arrivarono a concordare una definizione. Ciononostante, può tuttora essere istruttivo leggere gli atti del convegno. Non si può fare a meno di pensare che, allora come oggi, nelle discussioni sul «populismo» viene espresso ogni tipo di ansia politica – laddove il termine è usato per indicare molti fenomeni politici che a prima vista appaiono reciprocamente esclusivi. Poiché anche oggi sembra che non siamo in grado di concordare su una definizione, potremmo essere tentati dal chiederci: «Là c’è un là?».

Alla fine degli anni Sessanta, il termine «populismo» ricorreva nelle discussioni sulla decolonizzazione, nelle ipotesi sul futuro del «movimento rurale» e – forse in modo più sorprendente dal nostro punto di osservazione all’inizio del ventunesimo secolo – nelle discussioni sulle origini e sui possibili sviluppi del comunismo in generale e del maoismo in particolare. Anche oggi, soprattutto in Europa, ogni tipo di ansia – e, più raramente, di speranza – si concretizza nel termine populismo. In modo schematico, da un lato i liberali sembrano essere preoccupati del fatto che masse sempre più illiberali cadono preda del populismo, del nazionalismo e persino di un’aperta xenofobia; dall’altro, i teorici della democrazia temono l’ascesa di quella che considerano una «tecnocrazia liberale» – ossia, un «governo responsabile» di un’élite di esperti intenzionalmente indifferente ai desideri dei comuni cittadini[2]. Il populismo potrebbe allora essere ciò che il politologo olandese Cas Mudde ha definito una «risposta democratica illiberale al liberalismo antidemocratico». Il populismo è visto come una minaccia ma anche come una possibile azione correttiva per una politica che in qualche modo si è allontanata troppo dal «popolo»[3]. Potrebbe esserci qualcosa di vero nell’immagine impressionante che Benjamin Arditi ha proposto per descrivere il rapporto tra populismo e democrazia. Il populismo, secondo Arditi, assomiglia a un ospite ubriaco a una cena: non rispetta le buone maniere a tavola, è scortese, potrebbe persino cominciare a «flirtare con le mogli degli altri ospiti». Ma potrebbe anche sputare fuori la verità su una democrazia liberale che ha dimenticato il suo principio fondante di sovranità popolare[4].

Negli Stati Uniti, il termine populismo resta per lo più associato all’idea di un’autentica politica egualitaria di sinistra potenzialmente in conflitto con la posizione di un Partito Democratico che, agli occhi degli oppositori populisti, è diventato troppo centrista o, facendo eco alle discussioni in Europa, è stato attirato dai tecnocrati (o, ancora peggio, dai «plutocrati»). Dopotutto, sono in particolare i difensori di «Main Street» rispetto a «Wall Street» a essere elogiati (o detestati) in quanto populisti. E questo si verifica anche nel caso di politici affermati, come Bill de Blasio, sindaco di New York dal 2014 al 2021, e la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Negli Stati Uniti, è normale sentir parlare di «populismo liberale» mentre questa espressione in Europa sarebbe un’evidente contraddizione, considerando le differenti interpretazioni di liberalismo e populismo sulle due sponde dell’Atlantico[5]. Come è noto, in Nord America «liberale» ha un significato simile a «socialdemocratico», e la parola «populismo» ne suggerisce una versione inflessibile; in Europa, invece, il populismo non può mai essere associato al liberalismo, se con quest’ultimo termine intendiamo un rispetto del pluralismo e un’interpretazione della democrazia che preveda necessariamente pesi e contrappesi (e, in generale, limitazioni alla volontà popolare).

Come se questi diversi utilizzi politici della medesima parola non confondessero già abbastanza, le cose sono state ulteriormente complicate dall’ascesa alcuni anni fa di nuovi movimenti sulla scia della crisi finanziaria, in particolare il Tea Party e Occupy Wall Street. Entrambi sono stati variamente descritti come populisti, tanto che è stata suggerita persino una coalizione tra forze di destra e di sinistra, critiche rispetto alla politica dominante, con il «populismo» come possibile denominatore comune. Questo curioso senso di simmetria è stato rafforzato dal modo in cui i mass media hanno diffusamente descritto le elezioni presidenziali del 2016: presumibilmente Donald Trump e Bernie Sanders sono entrambi populisti, uno di destra e l’altro di sinistra. Viene spesso ribadito che entrambi hanno in comune almeno il fatto di essere «ribelli antiestablishment» spinti dalla «rabbia», dalla «frustrazione» o dal «risentimento» dei cittadini.

Il populismo è ovviamente un concetto politicamente contestato[6]. Gli stessi politici di professione conoscono le poste in gioco degli scontri sul suo significato. In Europa, per esempio, presunti «esponenti dell’establishment» sono impazienti di etichettare i loro oppositori come populisti. Ma alcuni di quelli bollati come tali sono passati al contrattacco, e hanno rivendicato con orgoglio questa definizione sostenendo di essere davvero dei populisti se ciò significa lavorare per il popolo. In che modo dobbiamo giudicare tali affermazioni, e come dovremmo operare delle distinzioni tra veri e propri populisti e chi è semplicemente etichettato come tale (e forse altri che non vengono mai chiamati populisti, non si definiscono mai tali, eppure potrebbero esserlo)? Rischiamo forse un completo caos concettuale, dal momento che praticamente tutto – sinistra, destra, democratico, antidemocratico, liberale, illiberale – può essere definito populista, e il populismo può essere considerato al tempo stesso amico e nemico della democrazia?

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Io sostengo che il populismo non è nulla di simile a una dottrina codificata, ma piuttosto un insieme di distinte rivendicazioni, provvisto di ciò che potremmo definire una logica interna. Esaminando tale logica si scopre che il populismo non è un utile correttivo per una democrazia che in qualche modo è diventata troppo «guidata dalle élite», come sostengono molti osservatori. L’immagine secondo cui la democrazia liberale prevede un equilibrio in cui possiamo scegliere di avere un po’ più di liberalismo o di democrazia è fondamentalmente fuorviante. Di certo, le democrazie possono differire legittimamente su questioni come la possibilità e la frequenza dei referendum o il potere dei giudici di invalidare leggi adottate in una legislatura con una maggioranza schiacciante. Ma la teoria secondo cui ci avviciniamo maggiormente alla democrazia opponendo a un politico eletto una «maggioranza silenziosa», presumibilmente ignorata dalle élite, non è solo un’illusione, è una convinzione politicamente dannosa. In tal senso, ritengo che una comprensione adeguata del populismo contribuisca anche ad approfondire la nostra conoscenza della democrazia. Il populismo è qualcosa di simile a un’ombra permanente della moderna democrazia rappresentativa, oltre che un pericolo costante. Essere consapevoli della sua natura può aiutarci a cogliere i tratti distintivi – e, in parte, anche i difetti – delle democrazie in cui effettivamente viviamo[7].

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La logica del populismo

A mio parere, il populismo è una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamentalmente immaginario – a delle élite ritenute corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori[8]. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista. Altrimenti lo sarebbe per definizione chiunque disapprovi i potenti e lo status quo in qualsiasi paese. Oltre a essere antielitari, i populisti sono sempre antipluralisti. Sostengono di essere gli unici a rappresentare il popolo[9]. Altri concorrenti politici fanno parte delle élite immorali e corrotte pur non avendo alcun potere, o così sostengono i populisti; quando salgono al governo, questi ultimi non riconoscono alcuna opposizione legittima. Inoltre, la loro rivendicazione di fondo è che chiunque non appoggi realmente i partiti populisti non possa innanzitutto essere ritenuto parte del popolo vero e proprio. Citando le parole del filosofo francese Claude Lefort, il cosiddetto popolo vero deve prima essere «estratto» dalla somma complessiva dei cittadini effettivi[10]. Si presume poi che questo popolo ideale sia moralmente puro e infallibile nella sua volontà.

Il populismo nasce con l’arrivo della democrazia rappresentativa; è la sua ombra. I populisti ambiscono a quello che il teorico politico Nancy Rosenblum ha definito «olismo»: il concetto che il sistema di governo non debba più essere suddiviso e l’idea che sia possibile avere un popolo unico in cui tutti abbiano un solo vero rappresentante[11]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. Gli attori politici non dediti a questa causa semplicemente non sono populisti[12]. Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico[13]. In altre parole, non può esserci populismo senza qualcuno che parli a nome del popolo nel suo insieme.

Pensiamo al famigerato discorso di George Wallace da neo-eletto governatore dell’Alabama: «In nome del popolo più grande che abbia mai calcato questa terra traccio una linea di demarcazione sul suolo e getto il guanto di sfida alla tirannia [] e dico [] segregazione ora [] segregazione domani [] segregazione per sempre»[14]. La segregazione non durò in eterno, ma le parole proferite da Wallace macchiarono per sempre la sua reputazione; si trattava chiaramente di razzismo. Tuttavia, la retorica che rivelò il carattere populista di Wallace si concentrava nella sua pretesa di parlare esclusivamente «in nome del popolo più grande che abbia mai calcato questa terra». Che cosa esattamente dava al governatore dell’Alabama il diritto di parlare a nome di tutti gli americani – con l’eccezione, evidentemente, dei sostenitori della «tirannia», ovvero, naturalmente, l’amministrazione Kennedy e chiunque altro fosse impegnato per porre fine alla segregazione? E ancora, che cosa lo autorizzava a sostenere che la «vera America» fosse ciò che egli definiva «il grande Sud anglosassone»[15]? Chiaramente, qualunque cosa ci fosse di buono e autentico negli Stati Uniti era del Sud, o così sembrò quando Wallace esclamò: «E voi, figlie e figli nativi dell’antico patriottismo intransigente del New England […] e voi risoluti nativi del grande Midwest […] e voi discendenti dello spirito ardente di libertà dei pionieri del far West [] vi invitiamo a unirvi a noi […] poiché voi condividete le idee del Sud […] e lo spirito del Sud […] e la filosofia del Sud […] anche voi siete gente del Sud e nostri fratelli nella nostra lotta». Verso la fine del discorso, Wallace arrivò a sostenere che praticamente tutti i Padri Fondatori provenivano dal Sud[16].

È questa la rivendicazione di fondo del populismo: solo una parte del popolo è davvero il popolo. Pensiamo a Nigel Farage che ha festeggiato la Brexit dichiarando che è stata una «vittoria della gente vera» (rendendo così un po’ meno vero il 48 per cento dell’elettorato britannico che si era opposto all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea – o, per dirla in maniera più diretta, mettendo in discussione il loro status di membri effettivi della comunità politica). Oppure consideriamo un’osservazione di Donald Trump passata quasi inosservata, data la frequenza con cui il miliardario di New York ha rilasciato dichiarazioni oltraggiose e profondamente offensive. Durante un comizio nel mese di maggio 2016, Trump ha annunciato che «l’unica cosa importante è l’unificazione del popolo – perché gli altri non contano nulla»[17].


[1] Ghiță Ionescu e Ernest Gellner, Introduction, in Ghiță Ionescu e Ernest Gellner (a cura di), Populism. Its Meaning and National Character, Weidenfeld & Nicolson, Londra 1969, pp. 1-5; qui p. 1.

[2] Per una trattazione sistematica del dilemma dei governi tra responsabilità e reattività, si veda Peter Mair, Ruling the Void. The Hollowing of Western Democracy, Verso, Londra e New York 2013.

[3] Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltwasser (a cura di), Populism in Europe and the Americas. Threat or Corrective for Democracy?, Cambridge University Press, Cambridge e New York 2013.

[4] Benjamin Arditi, Populism as an Internal Periphery of Democratic Politics, in Francisco Panizza (a cura di), Populism and the Mirror of Democracy, Verso, Londra e New York 2005, pp. 72-98.

[5] Di certo, negli ultimi anni, in alcuni paesi europei si è affermato un certo tipo di populismo in nome dei valori liberali. Si pensi a Pim Fortuyn e Geert Wilders in Olanda. Ma si tratta comunque di un populismo che utilizza i concetti di «libertà» e «tolleranza» come indicatori di una differenza morale per distinguere un popolo autentico da altri che non appartengono a questa categoria; non si tratta di liberalismo.

[6] Ciò non significa che tutto è relativo. Anche la democrazia è un concetto fortemente contestato, ma questa non è una ragione per rinunciare a fare della teoria democratica.

[7] Confesso una certa preoccupazione per quella che potremmo definire la «teoria della teoria» – la teoria politica che si occupa principalmente di rispondere ad altre teorie, contrapposta a un impegno nella storia contemporanea in tutta la sua complessità e, spesso, nella sua assoluta opacità. Tuttavia, non credo che una simile preoccupazione sia espressa al meglio attraverso richiami istrionici al «realismo», che possono solo alimentare una maggiore teoria della teoria, anche se su un «realismo» reificato. Anziché discutere per stabilire se «Che cosa occorre fare?» sia una domanda legittima, i teorici dovrebbero fare qualcosa.

[8] Come dirò più avanti, i populisti non sono contro la rappresentanza, pertanto mi trovo in disaccordo con le analisi che oppongono «democrazia populista» e «democrazia rappresentativa»; si veda per esempio l’eccellente articolo di Koen Abts e Stefan Rummens, Populism versus Democracy, «Political Studies», vol. 55 (2007), pp. 405-24.

[9] Esistono alcune prove empiriche che gli elettori dei partiti populisti sposano anche opinioni chiaramente intolleranti e antipluraliste. Si veda Agnes Akkerman, Cas Mudde e Andrej Zaslove, How Populist Are the People? Measuring Populist Attitudes in Voters, «Comparative Political Studies», 2013, pp. 1-30.

[10] Claude Lefort, Democracy and Political Theory, traduzione di David Macey, Polity, Cambridge 1988, p. 79.

[11] Nancy L. Rosenblum, On the Side of the Angels. An Appreciation of Parties and Partisanship, Princeton University Press, Princeton 2008.

[12] Si veda anche C. Vann Woodward, The Populist Heritage and the Intellectual, «The American Scholar», vol. 29 (195960), pp. 55-72.

[13] Andrew Arato, Political Theology and Populism, «Social Research», vol. 80 (2013), pp. 143-72.

[14] The Inaugural Address of Governor George C. Wallace, 14 gennaio 1963, Montgomery, Alabama, disponibile online su http://digital.archives.alabama.gov

[15] Wallace rese molto esplicita questa equazione tra i veri Stati Uniti e la «terra del Sud» affermando: «Ascoltatemi, gente del Sud! Voi, figlie e figli che vi siete spostati verso nord e ovest attraversando questa nazione [] ci rivolgiamo a voi dalla vostra terra natia perché vi uniate a noi nel sostenere la nazione e votare [] e sappiamo [] ovunque siate [] lontani dal cuore della terra del Sud [] che risponderete, perché pur vivendo magari nei luoghi più remoti di questo vasto paese [] il vostro cuore non ha mai lasciato Dixieland» (ibidem).

[16] Ibidem.

[17] Ringrazio Damon Linker per avermi segnalato questa citazione. Si veda «CBS Weekend News», Internet Archive, 7 maggio 2016, disponibile online.

Scritto da
Jan-Werner Müller

Professore di Social Sciences e Politics presso la Princeton University dove ha fondato e dirige il Project in the History of Political Thought. Ha studio presso la Freie Universität di Berlino, l’University College di Londra, il St. Antony’s College di Oxford e la Princeton University. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: “Cos’è il populismo?” (Egea 2023), “Democracy Rules” (Penguin 2021) e “Contesting Democracy. Political Ideas in Twentieth Century Europe” (Yale University Press 2011)

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