“Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la Grande Crisi” di Giunta e Rossi
- 12 Settembre 2017

“Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la Grande Crisi” di Giunta e Rossi

Recensione a: Anna Giunta e Salvatore Rossi, Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la Grande Crisi, Laterza, Roma – Bari 2017, pp. 240, 20 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Comini

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Il testo di Giunta e Rossi apre lo sguardo sulle imprese italiane, sul loro stato di salute e più in generale su ciò che le imprese “sanno fare”. Il focus del libro dei due economisti è infatti l’impresa italiana oggi: sia pur caratterizzata dalla carenza di investimenti e da una dimensione troppo limitata e una gestione “familistica”, essa è ancora l’elemento imprescindibile della nostra economia, pertanto elemento cardine da cui partire per una trattazione sul capitalismo italiano.

Gli Autori hanno esposto obiettivamente i problemi del sistema produttivo senza cadere in facili stereotipi, spesso non vicini alla realtà, e senza nascondere gli ostacoli che l’Italia dovrà affrontare per uscire da una stagnazione decennale.

Giunta e Rossi partono dal ruolo dell’impresa come generatrice primaria della ricchezza nazionale. L’economia italiana ha conosciuto una spettacolare evoluzione nell’arco di qualche decennio. L’Italia dell’Ottocento era povera ed arretrata, sebbene con differenze territoriali anche marcate. Solo con l’età giolittiana, a inizio XX secolo, la Penisola ha avviato l’industrializzazione che ha generato una prima fase di progresso economico.

Ma è solo con il secondo Dopoguerra che l’Italia è progredita a tal punto che ne è cambiata la fisionomia: «il PIL pro-capite, tra il 1951 e il 1973, è aumentato in media del 5% e la produttività del lavoro di quasi il 6%, in tutti i settori»: l’abbondante manodopera a bassa specializzazione e a basso costo ha rappresentato il “serbatoio” ideale per le fabbriche del Nord strutturate sul modello fordista. La parità tra lira e dollaro, stabilita a Bretton Woods, «favoriva la competitività dei produttori nazionali e il trasferimento di risorse dai settori più tradizionali verso quelli che producevano beni esportabili».

Se il contesto politico-internazionale del Secondo Dopoguerra rappresentava un vantaggio per l’Italia, dagli anni Ottanta/Novanta la situazione è radicalmente mutata: da un lato è finita la Guerra Fredda e l’Italia non era più un paese di “confine” tra i due blocchi, dall’altro il sistema produttivo italiano, assuefatto dalle svalutazioni monetarie, non ha migliorato la propria competitività e non ha colto l’occasione del boom del settore informatico. Questi aspetti rappresentano i principali motivi per cui, a partire dalle crisi del 1992-93, l’economia italiana non è stata più in grado di rilanciarsi. A tale situazione di stagnazione hanno ovviamente concorso ulteriori elementi: l’invecchiamento della popolazione, la presenza di moltissime PMI e di poche grandi imprese, con un enorme divario di produttività tra piccole e grandi imprese.

Tutti i fattori citati, che più avanti nella recensione verranno ripresi, hanno fiaccato l’economia italiana rendendola particolarmente esposta al “peso” della “Guerra dei 7 anni”, cioè della crisi economica del 2008. Nel 2015 il sistema produttivo italiano produceva quasi un decimo di meno rispetto a 7 anni prima e l’apparato manifatturiero ha subito un calo di 1/6 della sua capacità produttiva. Gli investimenti nel 2014 erano 1/3 di meno rispetto al periodo antecedente alla Crisi.

 

Le peculiarità del modello italiano

Tra le peculiarità italiane vi è indubbiamente la massiccia presenza di microimprese (1-9 dipendenti) sul totale (95%) delle imprese, con un numero limitato di lavoratori dipendenti di grandi imprese (22%). Da questo punto di vista l’Italia rappresenta un’anomalia tra i principali paesi industriali europei. In realtà anche in Italia è esistita la grande impresa, che occupava un gran numero di lavoratori, ma essa era in gran parte di proprietà pubblica. Dagli anni Ottanta in poi tali imprese hanno conosciuto tutte le vicissitudini successive alla loro privatizzazione. Le imprese privatizzate sono state fortemente ridimensionate, quando non hanno chiuso i battenti.

Se negli anni Sessanta le imprese italiane con più di 500 dipendenti erano 700, oggi (2016) esse sono 471 e impiegano solo il 16,2% del totale degli occupati. Le grandi imprese italiane erano in gran parte imprese pubbliche: «lo stato imprenditore, attraverso le finanziarie dell’IRI, assunse un ruolo preminente nell’indirizzo e nelle promozione dello sviluppo economico italiano». Le imprese pubbliche avevano la funzione di riequilibrare, per quanto possibile, il divario tra il Nord e il Sud del Paese. Durante il boom economico, a fianco della mano pubblica, anche alcuni imprenditori sono riusciti a far crescere le loro aziende nel settore alimentare, in quello degli elettrodomestici e nel settore delle autovetture.

Le grandi imprese italiane dell’Età dell’Oro erano fabbriche “fordiste”. L’Età dell’Oro, cioè il sistema politico-economico affermatosi nell’Occidente industrializzato nei primi tre decenni del Dopoguerra, si fondava su un sistema produttivo fondato sulla grande impresa, che aveva consentito, parallelamente allo sviluppo del Welfare State, di elevare la qualità di vita e il benessere materiale come mai in passato.

Negli anni Settanta tale modello entrò in crisi a causa di due fattori:
1) La crisi petrolifera del 1973 che contribuì ad elevare notevolmente il costo delle fonti di energia.
2) La fine del regime di cambi fissi.

Inoltre erano mutate anche le esigenze dei consumatori, divenuti negli anni del Boom sempre più sofisticati. Questi elementi, assieme a numerosi altri che gli Autori citano e argomentano nel libro, rappresentano le ragioni principali per cui il sistema produttivo italiano sia mutato così radicalmente dagli anni Settanta in poi. Le grandi imprese hanno iniziato a esternalizzare lavorazioni non essenziali, creando grandi indotti. Se nel triangolo industriale del Nordovest il numero di occupati nel settore secondario è rimasto pressoché immutato tra il 1971 e il 1981, nel Nordest e nel Centro (la “Terza Italia”) vi è stato un aumento notevole (quasi mezzo milione in più).

Mentre l’Italia delle grandi fabbriche entrava in un declino che, da allora, non ha conosciuto una fine, si stava affermando l’Italia delle PMI e dei distretti industriali. Nei distretti le aziende collaboravano tra loro per la realizzazione di un bene finito. “Il miracolo del Made in Italy”, cioè lo sviluppo dell’Italia dei distretti negli anni Ottanta, ha trovato un primo ostacolo con l’avvento, negli anni Novanta, delle nuove tecnologie informatiche. Le aziende italiane si sono trovate impreparate alla rivoluzione informatica e altrettanto alla maggiore integrazione dei mercati (globalizzati), realtà che ha aperto la porta a prodotti a basso costo realizzati in alcuni Paesi del Terzo Mondo, dove il costo del lavoro è irrisorio se paragonato agli standard italiani.

 

Le sfide dell’economia italiana

Di fronte alla somma di tali sfide le aziende italiane si sono spesso trovate spiazzate. Il mondo globalizzato ha reso la vita difficile a tutte le imprese e, in special modo, a quelle più piccole e incapaci, per carenza di mezzi, di investire per rendersi più adeguate al nuovo contesto informatizzato e globalizzato.

Con l’apertura dei mercati si è iniziato a parlare di CGV (catene globali di valore). Con le CGV ci si riferisce alla riorganizzazione spaziale dei sistemi produttivi come conseguenza delle nuove tecnologie. Negli ultimi decenni la divisione internazionale del lavoro ha assecondato l’apertura dei mercati. Nelle CGV il processo produttivo è diviso in diverse fasi di produzioni poste in luoghi diversi, ognuna delle quali incrementa il valore del prodotto.

Nei sistemi produttivi del mondo globalizzato l’organizzazione della produzione varia continuamente poiché si delocalizza la produzione dove i costi di produzione sono più bassi. La delocalizzazione produttiva ha portato all’affermazione di «un nuovo paradigma per l’analisi dell’organizzazione internazionale della produzione, dove al centro dell’attenzione sono gli scambi fra nazioni di compiti produttivi e non più i tradizionali scambi di beni».

Nei paesi sviluppati si è persa buona parte della produzione. Contemporaneamente sono cresciuti quei settori ritenuti più remunerativi sia a monte del processo produttivo, come la ricerca e il design, sia a valle, come il marketing, la logistica e le vendite. Una peculiarità delle imprese italiane è che esse, vista la loro dimensione limitata, sono in gran parte solo aziende fornitrici, cioè non hanno dei clienti veri e propri, ma si interfacciano solo con altre imprese. Per la vendita diretta al consumatore finale dei propri prodotti occorre una serie di elementi di cui una piccola impresa non può facilmente dotarsi: disporre di risorse sufficienti per fare della ricerca adeguata, per un buon marketing, per curare la vendita ecc.

Inoltre la produzione deve saper essere flessibile per rispondere alle richieste dei clienti. Nel relativamente recente mondo globalizzato le piccole imprese italiane si sono trovate in gran parte spiazzate sia per la presenza, in un contesto globalizzato, di un maggior numero di concorrenti, sia per il costo del lavoro molto basso nei paesi di recente sviluppo.

Nonostante tali difficoltà molti articoli accademici affermano che l’Italia sia un paese competitivo sullo scenario internazionale. La competitività internazionale italiana tiene ed è dinamica: le esportazioni sono il principale elemento che sancisce la competitività generale di un Paese. L’economia italiana vede alcuni settori in cui gli attori economici si sono specializzati e si sono affermati a livello globale: il settore tessile, dei pellami e il settore dell’arredamento rappresentano il tradizionale “Made in Italy”. Inoltre anche il settore meccanico è particolarmente sviluppato in Italia.

Proprio questi settori di maggiore specializzazione del nostro Paese sono quelli sui quali i paesi emergenti hanno più puntato: ciò ha fatto sì che le imprese italiane più competitive, per “salvarsi” dalla concorrenza low cost, abbiano scommesso su segmenti di mercato medio-alto migliorando la qualità e il design dei prodotti. Le imprese italiane, occupato il segmento di alta gamma, con l’apertura dei mercati negli anni Novanta hanno esportato sempre più i loro prodotti all’estero, sia per le classi medio-alte dei paesi industrializzati, sia per i ceti emergenti dei paesi in via di sviluppo. Si consideri che dal 1990 al 2015 le esportazioni italiane sono passate da 8 a 73 miliardi di dollari. In realtà l’aumento delle esportazioni nasconde un elemento problematico: in Italia (ma in generale nell’Occidente) non c’è una crescita della domanda nel segmento di alta gamma. Il che rende problematica la sostenibilità futura di tale modello di sviluppo.

In particolare è preoccupante la stagnazione dei consumi interni a partire dalla Crisi del 2008 che è stata controbilanciata dalla domanda estera. Se guardiamo le imprese italiane che esportano (190mila) balza subito all’occhio che esse costituiscono pressoché la totalità delle aziende sopra i 100 dipendenti circa e oltre la metà di quelle tra 10 e 50 dipendenti circa. Inoltre le aziende esportatrici sono più produttive, sono più articolate le funzioni aziendali e, generalmente, garantiscono ai dipendenti salari più elevati. Pertanto le aziende esportatrici sono di maggiore qualità, sono un’élite relativamente limitata che costituisce il principale traino dell’economia italiana.

Per gli Autori i venti di protezionismo che soffiano in Occidente hanno come obiettivo quello di imporre restrizioni al libero commercio: ciò rappresenta un rischio poiché riporterebbe l’economia italiana al campanilismo dal quale è stata (ed è) largamente influenzata. Gli autori del testo ritengono che sia indispensabile per un’impresa partecipare alle CGV, che dovrebbero essere sgravate da eccessivi costi internazionali di transazione, che scoraggiano le imprese più piccole a parteciparvi, incrementando la produttività.

Il fenomeno del familismo e del campanilismo italiano ha fasi alterne: negli anni Ottanta esso si accentua per dare una risposta moderna alla crisi del fordismo. Ad oggi la situazione è mutata ed è indispensabile per un’impresa padroneggiare le nuove tecnologie ed internazionalizzarsi conquistando nuovi mercati del mondo globalizzato: per svolgere una tale funzione le imprese devono avere una forza che è garantita loro solo da una dimensione medio-grande.

Le imprese italiane sono in gran parte “familiari” (86%), ma tale dato è in linea con i principali paesi europei; l’anomalia sta nel fatto che ben l’84% delle imprese vede un membro della famiglia titolare ricoprire la carica di amministratore delegato. E in particolar modo si evidenzia una netta peculiarità italiana nel dato che evidenzia la percentuale di imprese in cui tutto il management è appartenente alla famiglia: i 2/3 in Italia contro l’1/3 in Spagna e 1/4 circa in Francia e Germania.

Tale incidenza coinvolge per lo più le PMI, ma anche nelle imprese grandi, sopra i 250 dipendenti, si registra la medesima anomalia, sebbene su percentuali molto più basse, in termini comparati tra il caso italiano con quelli dei principali paesi europei. Al di là dell’elemento culturale fortemente familistico, tale fenomeno ha l’effetto concreto di rendere molto più raro lo sviluppo aziendale nei casi in cui il management sia familiare.

 

Le questioni aperte

Secondo Giunta e Rossi è indispensabile che muti “l’ecosistema normativo-istituzionale”, da un lato stimolando gli imprenditori all’innovazione e al rischio e dall’altro facendo quelle riforme di snellimento della burocrazia e di efficientamento della giustizia civile. Essi rappresentano spesso ostacoli che dissuadono gli investimenti. Se nei decenni antecedenti gli anni Novanta la crescita del Paese è stata riconducibile all’aumento della produttività, la variazione dell’occupazione ha invece giocato un ruolo chiave negli ultimi 20 anni. Il tono di occupazione femminile è cresciuto dal 1995 al 2008 dal 51,2% al 58,6%, un dato di circa dieci punti in meno rispetto alla Germania, un gap che comunque tende sempre più ad assottigliarsi. Nello stesso periodo il tasso di occupazione è cresciuto in Italia del 15%, in Francia del 6% e in Germania del 10%.

L’accrescimento del numero di occupati non ha però portato un significativo aumento di produttività (solo +2,4% in 14 anni). Il motivo di tale fenomeno è che l’occupazione è cresciuta “grazie” a lavori precari, interinali, che sono letteralmente proliferati rendendo il mercato del lavoro italiano uno tra i meno rigidi d’Europa. Al maggior numero di occupati la quantità di capitale per lavoratore non è accresciuta: ogni lavoratore ha avuto a disposizione un minor numero di attrezzature, macchinari ecc.

Inoltre un capitolo a parte richiede la mancata occasione rappresentata dalla Rivoluzione delle ICT negli anni Novanta. Le ICT (Information and Communications Technology) assumono un ruolo solo nelle grandi imprese (di cui l’Italia è carente, come più volte sottolineato) poiché “solo in organizzazioni complesse possono sviluppare appieno il loro potenziale razionalizzatore”. Alla luce delle peculiarità del capitalismo italiano non è difficile capire che un tessuto produttivo siffatto sia stato maggiormente colpito dalla Crisi economica. Il PIL è calato dell’8,4% dal 2008 al 2014. Nello stesso periodo gli occupati sono calati di quasi un milione. Il tasso di occupazione infatti è calato sensibilmente (-5,1%) mentre è cresciuto in Germania (+4,4%) e rimasto stabile in Francia. Gli investimenti sono crollati di 1/3 nello stesso lasso di tempo.

Dal punto di vista della ricerca e sviluppo l’Italia è ben distante dai principali paesi europei che, Germania in testa, spendono più del doppio di ciò che l’Italia investe in tale settore (1,3% del PIL). In Italia le imprese private contribuiscono solo al 58% della somma totale di ciò che l’Italia investe in R&S. Sebbene la ricerca italiana abbia avuto negli anni del Boom una certa dinamicità, come si evince dai dati sui brevetti, questa è stata solo un’impennata destinata a declinare rapidamente. Anche in quest’ambito la maggiore dimensione aziendale favorisce investimenti più consistenti e significativi: l’Italia, dato il suo sistema produttivo, ne è pertanto penalizzata.

Un dato preoccupante è il significativo calo di investimenti in ricerca dopo il 2008. Il management familiare, spesso inadeguato e impreparato alle sfide della globalizzazione, tende a investire poco nella ricerca e, inoltre, agisce in termini solipsistici evitando collaborazioni con le università, che infatti sono una rarità in Italia rispetto ai principali paesi europei. In un contesto sempre più innovativo è naturale che le imprese richiedano personale più qualificato per produrre innovazione. Il settore dell’istruzione rappresenta un elemento chiave per garantire alle imprese risorse umane adeguate alle nuove sfide.

I lavori dove non è richiesto un intervento cognitivo sono destinati a ridursi rapidamente. Nuove abilità, specie quelle informatiche, sono richieste. Se nell’ambito dell’istruzione sono sempre più richieste le “competenze” piuttosto che il sapere nozionistico è anche perché il sistema produttivo necessita di personale capace, competente, cioè che sappia rispondere in modo efficace a situazioni sempre diverse.

In Italia, dal punto di vista industriale, c’è un elemento positivo che contraddistingue la “creatività” del Made in Italy: la compenetrazione tra le conoscenze artigianali e le conoscenze scientifiche che vengono dall’esterno del sistema produttivo. La capacità di combinare le conoscenze in modo flessibile rende peculiari i prodotti italiani. È però preoccupante lo stato in cui versano gli istituti tecnici che sono stati depotenziati dalla Riforma Gelmini e che spesso sono considerati “licei di serie B”. Essi potrebbero svolgere un ruolo fondamentale in ambito formativo vista la diffusa creatività artigianale italiana.

Per il progresso economico delle imprese bisogna che vi sia un sistema finanziario che lo supporti. Le imprese che investono hanno bisogno di risorse esterne che possono essere ricavate da un debito o dal ricorso al mercato azionario. In Italia le aziende quotate nel 2015 erano 256, contro le 700 di Francia e Germania. Inoltre il valore di mercato delle società non finanziarie quotate era di poco superiore al 20% del PIL in Italia a fronte del 47% e del 69% in Germania e Francia. In realtà il ricorso al mercato azionario è più consigliato per le imprese innovative perché “non richiede garanzie e consente agli investitori di beneficiare interamente dei rendimenti dei progetti in caso di successo”.

In Italia il ricorso al credito bancario va per la maggiore. Negli anni duemila esso è costantemente cresciuto a causa di tassi d’interesse che tendevano progressivamente a ridursi e con basse possibilità di vedersi rifiutato il finanziamento (tra il 2006 e il 2008 solo il 3% delle imprese italiane richiedenti un finanziamento non lo ottenne). Anche in questo caso il problema del limitato numero di imprese che ricorrono al mercato azionario si ricollega con la scarsità di grandi imprese in Italia, poiché solo aziende medio-grandi possono sostenere i costi di trasparenza che l’ingresso nel mercato azionario richiede. Inoltre l’eccessivo ricorso al sistema bancario da parte delle imprese le rende fortemente vulnerabili qualora il sistema bancario entri in crisi, come è avvenuto negli ultimi anni.

Quanto riportato finora è volto a dare al lettore un’idea sufficientemente dettagliata dei principali temi affrontati nel libro. Gli autori offrono, in definitiva, un quadro generale accurato e preciso dello stato di salute del capitalismo italiano, mettendone in evidenza buona parte degli elementi critici. Qualora si volesse muovere un rilievo alla trattazione si potrebbe osservare la scarsa attenzione, da mettere in relazione al punto di vista degli autori, al ruolo che gli investimenti pubblici possono svolgere nel sostenere e promuovere lo sviluppo del Paese. La stessa interpretazione che viene proposta della crisi del 2008 si concentra specialmente sui deficit di efficienza e legalità del sistema italiano, che sarebbe incapace di attrarre investimenti poiché il quadro istituzionale, legale e culturale non è idoneo a promuovere l’assunzione di rischio da parte degli imprenditori. Eppure questa interpretazione rischia di essere parziale, non evidenziando come importanti dinamiche legate al nesso tra innovazione tecnologica e globalizzazione siano cruciali per comprendere i processi che hanno investito l’economia italiana.

Scritto da
Enrico Comini

Classe 1993. Studente di Scienze Politiche presso l'Università di Bologna. Si interessa di Storia Contemporanea e politica.

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