Scritto da Raffaele Alberto Ventura
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Né fascisti né antifascisti: la linea della destra al governo è ormai esplicita e rivendicata. Si parla ormai di “afascismo”. È una linea furbesca poiché, nel rispetto dell’ordinamento formale che sanziona l’apologia del fascismo, riesce comunque a tradire la sostanza della Costituzione antifascista.
Per giustificare questo equilibrismo, la destra invoca il buonsenso e ripete che la storia deve essere contestualizzata, il male è sempre relativo, i tempi cambiano, d’altronde Mussolini ha fatto anche cose buone. Roberto Benigni ammetteva: «Anche il Mostro di Firenze l’avrà detto “buongiorno” a qualcuno qualche volta». Argomenti imparabili. Solo che poi la stessa destra puntualmente deroga dal sano relativismo quando deve esprimere un giudizio su qualsiasi altro fenomeno storico o sociale, a partire dalla Resistenza partigiana. E a questo punto viene il sospetto che contestualizzare il fascismo serva un po’ a giustificarlo. Chi l’avrebbe detto che il giudizio storico su Mussolini sarebbe stato al cuore del dibattito un secolo dopo l’inizio del ventennio?
Se possono prestare a ironia gli intellettuali progressisti in posa partigiana, non è nemmeno tanto chiaro cosa motivi la destra a giocare questa strana partita a Taboo dove vince chi non proferisce la parola proibita, “antifascismo”. Forse questa parola suona retorica – comunque meno di “sovranità alimentare” – ma maneggiare la retorica dovrebbe essere l’onere dei politici. D’altra parte nessuno può realisticamente credere che all’alba del ventunesimo secolo Giorgia Meloni, da navigata guardiana dello status quo, abbia intenzione di realizzare una replica 1:1 del fascismo storico. La questione, allora, non può che essere di principio: la professione di non-antifascismo serve da collante identitario per la sua base elettorale; un risarcimento simbolico per quella fetta di popolazione italiana che si sarà pur messa dalla parte sbagliata della Storia ma era, giura, “in buona fede”. La leader di Fratelli d’Italia non intende commettere l’errore che fece Gianfranco Fini, il quale ignorò che quella espressa dall’elettorato di destra era innanzitutto una domanda di riconoscimento.
Da questo punto di vista il 25 Aprile è effettivamente, come si dice, una festa “divisiva”. Per essere politicamente corretti – d’altronde cos’è la destra se non una grossa e rumorosa minoranza culturale? – potremmo persino dire che è escludente. Come lo sono tutte le feste, persino la Pasqua. Ma di solito è proprio la destra a tuonare contro chi vuole cambiare le tradizioni in nome dell’inclusività.
Questa esclusione ha una funzione meta-politica fondamentale. Assieme alla Repubblica era stato istituito un perimetro, che definisce un dentro e un fuori. Si chiama “religione civile”, ovvero l’insieme di credenze, valori e pratiche condivise che garantiscono la coesione di ogni società. Ecco, l’antifascismo non è un’opinione tra le tante o un enunciato da sottoporre a verifica – vero o falso? – bensì una liturgia democratica, il fondamento della religione civile della nazione italiana dal 1946 a oggi. Domani chissà. Per ora ne abbiamo bisogno come i matematici dei loro assiomi e gli astronomi tolemaici del primus motor. È il tavolo su cui poggia quel castello di carte che chiamiamo società.
Questo tavolo oggi traballa, e non solo in Italia. Erosi dalle troppe contraddizioni e promesse non tenute, dalle ipocrisie e dai doppiopesismi, i principi del liberalismo e dell’illuminismo sono rimessi in discussione nell’intero Occidente, e tutto quello che fino a qualche anno fa era convenzionalmente considerato “neutrale” – foss’anche la medicina, si veda alla voce antivaccinismo – viene risucchiato nella mischia dell’agone politico.
Certo, quella neutralità era una costruzione artificiale e il risultato di particolari rapporti di forza; ma in qualche modo garantiva una parvenza di pace civile. Oggi, come segnala la larvata crisi costituzionale innescata da Giorgia Meloni con i suoi silenzi, le cicatrici della storia sembrano pronte a riaprirsi. Le religioni civili possono cambiare e le liturgie evolversi, soprattutto quando non sono più adeguate ai tempi, ma all’orizzonte non si vede nessun nuovo mito politico capace di tenere assieme una nazione fatta di tante memorie e culture. Riusciremo a vivere assieme senza un immaginario condiviso?