La Cina e la corsa all’Africa: la penetrazione cinese tra economia e geopolitica
- 02 Maggio 2018

La Cina e la corsa all’Africa: la penetrazione cinese tra economia e geopolitica

Scritto da Federico Rossi

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“Con nuove circostanze arrivano nuove opportunità. Cina e Africa dovrebbero abbracciare la loro orgogliosa tradizione di sincera amicizia e potenziare l’assistenza reciproca e la cooperazione”. Sono le parole del presidente cinese Xi Jinping, pronunciate alla sesta conferenza ministeriale del Forum sulla Cooperazione Cina – Africa del 2015 in concomitanza con l’esposizione dei notevoli risultati raggiunti negli ultimi anni, soprattutto sul piano economico, dalla cooperazione sino-africana.

La stampa di settore francese ha coniato il nuovo termine Chinafrique per indicare il complesso di relazioni fra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati africani, un’espressione che si contrappone significativamente alla Françafrique, la tradizionale politica egemonica francese in Africa. Il quadro che viene spesso dipinto è quello di una Cina predatrice che, come una vera e propria potenza neocoloniale, tenta di mettere le mani sulle risorse del continente africano, sfruttando questi paesi e finanziando i più spietati dittatori. La questione però è più complessa di come appare.

Il primo elemento da considerare è che le relazioni sino-africane non nascono nel XXI secolo, ma sono il coronamento di un lungo rapporto diplomatico che affonda le sue radici nel processo di decolonizzazione. Nel corso della storia già l’Impero cinese vantava stretti rapporti con i regni e gli imperi nordafricani e dell’Africa orientale, ma a partire dal periodo coloniale le relazioni con il continente si erano completamente interrotte. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la neonata Repubblica Popolare Cinese, nel tentativo di assumere un ruolo rilevante all’interno del movimento terzomondista, ha però riaperto i canali con i nascenti Stati africani, legandosi fin da subito ai movimenti indipendentisti.

 

La lunga storia della penetrazione cinese in Africa

La penetrazione cinese comincia quindi alla metà del secolo scorso soprattutto da quei paesi dove la decolonizzazione assume alti livelli di conflittualità con l’ex colonizzatore: in Algeria la Repubblica Popolare Cinese fornisce armi al FLN durante la guerra civile, la Guinea, rimasta fuori dalla sfera di influenza francese, cerca nella Cina un nuovo partner e, successivamente, Zimbabwe e Angola si appoggeranno a Pechino per chiudere la stagione delle guerre civili e iniziare la costruzione del nuovo Stato. Ci sono naturalmente alcune eccezioni, fra cui la più rilevante è sicuramente l’Egitto di Nasser, primo Stato africano ad aprire nel 1956 rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese.

La strategia diplomatica della Cina in Africa, avviata soprattutto dal Primo Ministro comunista Zhou Enlai, porta con sé anche i primi investimenti, tanto che lo stesso Mao Zedong negli anni Sessanta sponsorizza la costruzione della TAZARA, la rete ferroviaria di collegamento fra Zambia e Tanzania. In cambio la Cina comunista chiede soprattutto in questi primi anni il “voto di scambio” nelle sedi internazionali e all’ONU, dove i nuovi Stati sostengono diplomaticamente le rivendicazioni della Repubblica Popolare Cinese contro Taiwan.

Il 2000 è un anno di svolta nelle relazioni sino-africane, che subiscono una decisa impennata con la creazione, fortemente voluta dall’allora presidente cinese Jang Zemin, del Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (FOCAC). Da questo momento in poi la crescita degli investimenti cinesi negli Stati africani raggiungerà livelli vertiginosi: nel 1950 il volume degli scambi con il continente africano ammontava a poco più di 12 milioni di dollari, nel 1999 quella cifra era salita a circa sei miliardi e mezzo, ma nel 2008, anno in cui la Cina diventa il primo partner commerciale dell’Africa, si supera la quota dei 100 miliardi di dollari.

Questa espansione si è accompagnata ad una consistente mole di critiche, incentrate sui danni ambientali causati dalle aziende cinesi in molti Stati africani, lo sfruttamento dei lavoratori e l’accusa di imperialismo, che molti basano anche sul fatto che, nei suoi progetti sul continente, la Cina impiegherebbe soprattutto lavoratori di origine cinese. Prima di passare all’analisi specifica di queste criticità è tuttavia necessaria un’importante premessa.

Africa

Il Presidente cinese, Xi Jinping, durante il Forum della cooperazione tra Cina e Africa tenutosi nel 2015 a Johannesburg.

Quando si parla di relazioni sino-africane un errore frequente è quello di considerare l’Africa come un blocco unico, non soffermandosi sulle specificità delle relazioni fra i singoli Stati africani e la Cina. Questo errore diviene più grave anche in considerazione del fatto che quest’ultima – a differenza dell’Unione Europea che, quando possibile, ha cercato il dialogo con le associazioni regionali – ha prediletto nel corso degli anni la costruzione di una rete di relazioni bilaterali, che coprono ormai quasi tutto il continente e si sviluppano in modo diverso da paese a paese.

In Nord Africa la penetrazione cinese si è concentrata soprattutto in Marocco, Algeria ed Egitto, tralasciando la Tunisia, tradizionalmente più vicina all’Europa, e la Libia, un contesto da sempre problematico che per il momento la Cina guarda con interesse ma ad una certa distanza. Se le relazioni economiche con l’Algeria si concentrano soprattutto sul settore petrolifero, al punto che la cinese Sinopec ha messo le mani sui principali pozzi del paese, quelle con Marocco ed Egitto sono incentrate perlopiù sulla costruzione di infrastrutture.

Con il Regno del Marocco la Cina ha firmato infatti nel 2016 ben 15 accordi di cooperazione, che fotografano una situazione in cui le aziende cinesi hanno ottenuto i principali appalti per la costruzione di case popolari e per il potenziamento del porto di Tangeri, che, se verrà firmato l’accordo di libero scambio in progetto fra i due paesi, diventerà la porta d’accesso al Marocco per le merci cinesi. Per l’Egitto la Cina è invece il primo partner commerciale ormai da molti anni e il principale fornitore di tecnologie per lo sviluppo del paese. Particolarmente interessante è il fatto che le relazioni sino-egiziane non abbiano minimamente risentito dei recenti avvenimenti nel paese nordafricano: l’entità degli scambi fra questi paesi ha infatti continuato ad aumentare costantemente da Mubarak a Morsi fino ad al-Sisi, che si appoggia ai finanziamenti cinesi per tentare la costruzione della nuova capitale egiziana.

Ancora diversa è invece la situazione in Africa orientale, che vede una forte penetrazione cinese nei paesi del Corno d’Africa con l’eccezione della sola Somalia, in cui la presenza cinese si limita alla collaborazione per il contrasto alla pirateria nel tratto di mare attraversato dalla nuova via della seta marittima. In questa regione l’Etiopia è uno dei maggiori destinatari degli investimenti e dei prodotti cinesi, che qui trovano soprattutto un ampio mercato di consumatori per merci a basso costo e opportunità di investire in progetti infrastrutturali, come il potenziamento dei collegamenti fra Addis Abeba e il porto di Gibuti.

Anche il Sudan è storicamente inserito da molti anni nell’orbita della Cina la quale, in cambio dell’accesso alle risorse petrolifere, ha dato sostegno a Khartoum per resistere alle molte spinte centrifughe del paese, salvo tuttavia aprire ottimi canali diplomatici con il governo di Juba dopo l’indipendenza del Sud Sudan, il neonato Stato in cui si trovano la gran parte dei giacimenti petroliferi della zona. Anche in questa regione l’investimento in termini di infrastrutture è stato ingente, soprattutto nell’ottica dell’inserimento di questa zona nella “nuova via della seta” (One Belt One Road Initiative) assieme ai già menzionati Egitto, Etiopia e Gibuti e al Kenya, destinazione principale della via della seta marittima nell’Oceano Indiano.

Già da questa prima panoramica si comprende come la natura dell’espansione cinese in Africa sia molto più complessa e articolata di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Il primo assunto da sfatare nel concepire le relazioni tra Cina è Africa è il fatto che la Cina cerchi negli Stati africani soprattutto materie prime: la cifra di investimenti cinesi nel settore estrattivo è infatti di circa il 28% del totale contro il 66% di quelli statunitensi. Pechino si espande sul continente soprattutto attraverso società di costruzione e scambi commerciali, cercando sul continente nuovi mercati per i propri prodotti in Stati molto popolosi come l’Etiopia o la Nigeria.

Ciò detto, è comunque vero che gli investimenti in campo minerario hanno un’enorme rilevanza strategica per la Cina, che fa molto affidamento per le importazioni petrolifere sull’Angola – fino al 2016 il principale fornitore di petrolio della Cina (ora superato da Russia e Arabia Saudita) – e sui nuovi progetti di sfruttamento dei giacimenti offshore nel Golfo di Guinea, che garantiscono maggiori garanzie a fronte dell’instabilità politica di molti Stati della regione.

Sempre più importante è inoltre il ruolo del cobalto, necessario per la costruzione di batterie per smartphone e auto elettriche, settore su cui la Cina sta investendo molto alla luce degli obiettivi di riconversione energetica contenuti nel progetto di Made in China 2025. I principali giacimenti si trovano oggi nella Repubblica Democratica del Congo e vengono sfruttati soprattutto da aziende cinesi al prezzo però di una deforestazione incontrollata.

 

La strategia cinese in Africa

Una critica che deve invece essere probabilmente ridimensionata è quella che vedrebbe le aziende cinesi in Africa servirsi soprattutto di lavoratori cinesi. Secondo un report del FOCAC, il tasso di lavoratori locali impiegati nei singoli Stati africani dalle aziende cinesi ammonterebbe a circa i quattro quinti del totale, un numero che sembrerebbe essere confermato dai dati per singolo paese e per le principali multinazionali cinesi operanti sul continente. Huawei ad esempio, la principale azienda cinese di telecomunicazioni che realizza in Africa il 15% del totale dei suoi profitti, ha dichiarato che nelle sue aziende nei vari Stati africani impiega in media l’80% di lavoratori locali.

Accanto a questo però bisogna aggiungere altre considerazioni. Se, stante le considerazioni precedenti, sembra essere vero che i cinesi impiegano per la gran parte manodopera locale, creando fondamentali posti di lavoro in molti Stati, è altrettanto vero che i lavoratori non cinesi raggiungono raramente posizioni di vertice e versano perlopiù in condizioni di lavoro prossime allo sfruttamento con salari molto bassi e orari di lavoro proibitivi. Inoltre, in molti casi la penetrazione cinese in un dato settore sta spazzando via la concorrenza di aziende locali, come accaduto ad esempio in Nigeria nel campo dell’industria tessile, con ricadute economiche e sociali importanti per il paese.

Un terzo ordine di problematiche riguardo alla presenza cinese in Africa è stato invece sollevato in merito al sostegno cinese ad alcune delle più controverse dittature del continente. Fra i tanti esempi spicca quello di Mugabe, a lungo Capo di Stato indiscusso dello Zimbabwe, definito addirittura come un “amico personale” da Xi Jinping in persona. Questo sostegno, così come quello ad Omar al-Bashir in Sudan, si è poi rivelato comunque meno stabile del previsto e, dopo la deposizione di Mugabe, la Cina ha mantenuto comunque ottime relazioni con il nuovo governo, tanto che si è parlato, dopo la visita a Pechino del generale Chiwenga, di un vero e proprio assenso dato al colpo di Stato da parte delle autorità cinesi.

Il criterio di base dell’azione cinese in Africa sembra essere dunque quello del coinvolgimento dovunque e ad ogni costo, il tutto in nome di un pragmatismo anche politico che vorrebbe mascherarsi dietro la bandiera del non-interventismo politico. Ciò che rende più attrattivi gli investimenti e gli aiuti cinesi per molti Stati africani è infatti la loro assenza di condizioni: a differenza dell’Europa, la Cina non chiede riforme o il blocco di flussi migratori, ma offre il suo supporto economico chiedendo in cambio, almeno apparentemente, solo l’apertura delle porte del mercato nazionale ai prodotti cinesi e alle sue aziende.

Come già abbiamo intravisto però, dietro il proclama del non-interventismo si nasconde un chiaro intento egemonico, tanto di tipo economico quanto politico e culturale: Pechino è un attore fondamentale sul teatro africano, detiene una parte consistente del debito di molti Stati ed è un partner commerciale irrinunciabile, condizione che costringe molti governi del continente a mantenersi strettamente legati alla Cina anche da un punto di vista politico. L’Africa è per la Cina non solo un’opportunità economica, ma anche un laboratorio geopolitico in cui confrontarsi con le altre potenze globali, come testimoniato ad esempio dalla crescente mole di investimenti nell’area francofona in un’ottica di concorrenza proprio all’egemonia francese su una buona parte della zona.

Africa

Un ultimo tassello da considerare è quello dell’immigrazione cinese in Africa, che ha superato negli ultimi anni il milione di persone sul continente. La diaspora cinese si concentra soprattutto negli Stati dell’Africa meridionale, tanto che Sudafrica e Angola assorbono circa la metà di questa migrazione, ma più in generale vi è una forte presenza di comunità cinesi proprio laddove gli investimenti di Pechino sono più ingenti.

Come nel caso degli investimenti economici, anche in questo caso la reazione a quest’immigrazione varia a seconda del paese. Un caso di integrazione particolare sembra essere la Nigeria, dove i cinesi si sono impiantati soprattutto nel settore tessile, forti del sostegno del proprio Stato di appartenenza, ma allo stesso tempo si sono perfettamente inseriti nel tessuto sociale. Non è da sottovalutare in questo senso il lavoro fatto in Nigeria dall’Istituto Confucio, che ha una fortissima presenza nelle università nigeriane. Dall’altra parte vi sono però situazioni come quella dello Zambia, dove la comunità cinese è spesso associata allo sfruttamento delle miniere clandestine e il livello di integrazione resta ancora molto basso.

 

Una nuova egemonia?

L’espansione politica ed economica della Cina nel continente africano è insomma un fenomeno complesso, che ha una serie di luci immediatamente visibili, ma anche di ombre potenzialmente molto scure. Le aziende cinesi che investono in Africa, infatti, soprattutto le grandi multinazionali, agiscono spesso nello sprezzo delle normative esistenti nei vari paesi, provocando non solo lo sfruttamento dei lavoratori impiegati, ma anche ingenti danni all’ambiente che nel lungo periodo possono avere effetti anche molto gravi.

A questo scopo la Cina ha cercato di ripulire la propria immagine appoggiandosi ad alcune personalità di spicco come l’attrice Li Bingbing, divenuta ambasciatrice dell’UNEP e promotrice di una campagna contro il bracconaggio di elefanti e rinoceronti, (le cui zanne e corni trovano un’ampia gamma di sbocchi illeciti in Cina), ma anche agendo con azioni in prima persona, come le recenti sanzioni e restrizioni sulle imprese ittiche cinesi in Africa occidentale. Questo tipo di interventi restano però principalmente di facciata e lo sguardo delle autorità cinesi resta ben lontano dai problemi più gravi, come la distruzione sistematica delle foreste in Gabon o gli espropri di massa collettivi, che hanno causato notevoli proteste in Etiopia.

Ma c’è anche un altro lato più prettamente economico, che fa dubitare che la presenza cinese in Africa sia un rapporto in cui entrambe le parti escono vincitrici. Si tratta dell’aumento spropositato del debito dei paesi africani verso la Cina che, al di là dei tagli simbolici proclamati dalle autorità cinesi, resta su livelli mediamente molto alti, tanto che già nel decennio 2001-2010 la Cina aveva prestato agli Stati africani più di quanto avesse fatto la Banca Mondiale. Uhuru Kenyatta, premier keniano, ha espresso la sua inquietudine a proposito del deficit commerciale dell’Africa di fronte alla Cina, sostenendo che per costruire una vera strategia vinci-vinci “la Cina dovrà aprirsi all’Africa come l’Africa ha fatto con la Cina”.

Infine, vi è l’aspetto politico a cui abbiamo sopra accennato. La favola del non interventismo cinese sul continente appare sempre meno sostenibile di fronte all’evidenza dei fatti e, anche se ancora non si può parlare di un vero e proprio neocolonialismo, è chiaro che la Cina sta ricercando in Africa una nuova egemonia, tanto economica, quanto politica e culturale. La competizione è in particolare con l’Europa e gli Stati Uniti, che stanno perdendo la partita sullo scacchiere geopolitico soprattutto perché sembrano intenzionati a mantenere con gli Stati africani un rapporto troppo ancorato ai vecchi sistemi di potere per apparire efficiente e quindi attrattivo.

Scritto da
Federico Rossi

Nato nel 1995, attualmente studente di Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna e di Governance delle Migrazioni presso l’Università di Pisa, dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche Internazionali nello stesso ateneo. Attivo in alcune associazioni di volontariato e sportello legale per le migrazioni, tiene una rubrica a tema immigrazione per la rivista online “Il Fuochista”.

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