Recensione a: Simone Pieranni, Cina globale, Manifestolibri, Roma 2017, pp. 95, 8 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Lottero
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La Cina vuole tornare al centro del mondo. Cina globale di Simone Pieranni, giornalista del Manifesto e di Eastwest, è il racconto di come Pechino intenda riprendersi il posto che sente proprio di diritto.
Il volume si concentra soprattutto sulla stretta attualità, ed evidenzia come il gennaio 2017 abbia costituito un importante momento, se non di svolta, quantomeno di riformulazione e accelerazione dei progetti globali cinesi. In quel momento, infatti, Donald Trump si è appena insediato alla Casa Bianca sfoggiando una retorica che a tratti appare neo-isolazionista, mentre il presidente cinese Xi Jinping, dal palco del World Economic Forum di Davos, parla la lingua della globalizzazione. C’è la diffusa sensazione che sia in corso un ribaltamento di ruoli.
Ma la vocazione globale cinese, in realtà, è storia antica, ci dice Pieranni, che anche gli imperatori del passato avevano ben presente mentre ricevevano gli ambasciatori venuti a rendere omaggio da terre lontane. Una vocazione necessariamente messa da parte durante il secolo che in Cina chiamano “delle umiliazioni”, iniziato con la prima guerra dell’oppio (1839-42) e concluso con la nascita della Repubblica Popolare (1949) e poi sospesa, ma mai dimenticata, durante le presidenze Mao Zedong e Deng Xiaoping (quando l’obiettivo primario era lo sviluppo economico interno), e che oggi torna alla ribalta con le sembianze del Chinese dream. Il “sogno cinese” di oggi è personificato nella figura di Xi, un leader capace di concentrare nelle proprie mani un potere immenso, ridimensionando drasticamente le opposizioni interne al Partito Comunista cinese tramite una colossale campagna anti-corruzione, di inserire, al pari di Mao e Deng, il proprio pensiero in Costituzione nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese e di concentrare nella propria persona tanti ruoli e incarichi da essere definito il “presidente di tutto”.
Ma come ci apparirà questa nuova globalizzazione dal volto cinese? E, soprattutto, gli Stati Uniti sono davvero pronti a cedere lo scettro di nazione-guida del mondo? Nell’analisi proposta, quest’ultima domanda, che ossessiona e divide gli analisti, passa in secondo piano. Innanzitutto perché, come sostiene l’inventore del concetto di soft power Joseph S. Nye jr. (di cui Pieranni cita il testo Fine del secolo americano) sarà sempre più difficile che uno Stato raggiunga un’effettiva egemonia globale a causa della crescita dell’importanza di attori non statali quali banchieri, terroristi o hacker informatici che i governi fanno fatica a controllare. In secondo luogo perché la Cina non punterebbe a sostituire gli Stati Uniti e nella propria autorappresentazione globale si vede come paese di primo piano, ma non egemonico. Il mondo immaginato da Pechino resta dunque multipolare e la sua leadership “paternalista” si propone e in parte si applica secondo una logica win-win.
Principale esempio di questo approccio è il progetto chiamato One belt one road o, con un suggestivo richiamo storico, Nuova via della seta. OBOR punta a collegare almeno 3 continenti (Asia, Africa ed Europa) con un’imponente rete di infrastrutture marittime e terrestri. È un progetto aperto, a cui chiunque può contribuire, potenzialmente anche gli Stati Uniti, ma la cabina di regia è saldamente della Cina, che al progetto ha dedicato, nel 2014, un apposito fondo dal valore di 40 miliardi di dollari. L’idea entusiasma i paesi in via di sviluppo che ne sarebbero attraversati e preoccupa molti rivali regionali come l’India o lontani come l’Unione Europea (che lo scorso aprile si è pronunciata molto negativamente al riguardo, quasi all’unanimità) e naturalmente gli Stati Uniti. La nuova via della seta, inoltre, attraverserebbe alcune delle zone più instabili del pianeta e da qui viene un’altra conditio sine qua non per l’instaurarsi della “globalizzazione cinese”: la pace, o quantomeno un ambiente pacificato, propizio allo sviluppo del business.
Pieranni e la vocazione globale di Pechino
Nel penultimo capitolo del libro, Pieranni elenca alcuni motivi per cui la leadership cinese potrebbe avere un maggior successo di quella americana. In primo luogo, con il progetto OBOR la Cina propone una piattaforma aperta al contributo di tutti, non un trattato rigido sul modello del TPP. Inoltre, non punta ad esportare alcun modello politico-sociale, fedele al principio di non ingerenza negli affari interni degli stati con cui entra in contatto (i trattati di libero scambio americani, invece, richiedevano il rispetto dei diritti umani e un certo grado di democratizzazione delle istituzioni) e non immagina nessun tipo di regime change, poiché ritiene che la stabilità interna dei partner commerciali venga prima di ogni altra cosa. Gli organismi internazionali creati dalla Cina, come la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) o il fondo per la via della seta mettono poi in primo piano i paesi in via di sviluppo, a differenza degli organismi “americani” come la World Bank dove è evidente il protagonismo di Washington. L’ultimo motivo indicato da Pieranni è di tipo culturale: i cinesi sono storicamente più orientati al compromesso che allo scontro.
La dimensione globale della Cina è dunque al tempo stesso una vocazione storica e un’ambizione scientemente perseguita dall’attuale classe dirigente. La circostanza dell’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump ha semplicemente accelerato un processo già in corso. In Cina la scalata politica del tycoon è stata vissuta in modo diverso a seconda dei punti di osservazione. Il partito comunista era diviso tra una minoranza che ne auspicava la vittoria elettorale, convinta che una politica degli Usa isolazionista avrebbe spinto la Cina a intensificare gli sforzi per le riforme economiche volte al rafforzamento del mercato interno, e la parte più vicina a Xi, che alla Casa Bianca avrebbe preferito Hillary Clinton, spesso critica nei confronti del regime sul tema dei diritti umani, ma più prevedibile. Tra i cittadini cinesi, invece, un sondaggio ospitato dal sito del quotidiano Global Times prima delle elezioni statunitensi rivela che il 54% avrebbe preferito Trump. I motivi individuati dall’autore sono sostanzialmente tre: la stima apolitica per l’uomo di spettacolo e il self-made man, il diffuso sentimento anti-establishment che ha spinto, per esempio, i cinesi ad appoggiare con convinzione la campagna anticorruzione di Xi e infine un sentimento politico ultranazionalista. Per quel che riguarda quest’ultimo tipo di simpatia popolare nei confronti di colui che allora era il candidato repubblicano alla Casa Bianca, una parte veniva dalla volontà di dimostrare la superiorità del sistema politico cinese rispetto a quello occidentale, capace di creare “mostri” come appunto era considerato Trump. Un’altra, però, era figlia di una reale vicinanza tra quella parte consistente di opinione pubblica cinese che in rete esprime la propria avversione per i cosiddetti baizuo (i radical chic di sinistra, secondo la vulgata più preoccupati dei diritti delle minoranze che dei problemi reali) e il messaggio elettorale di Trump. Un “incontro tra populismi”, come lo definisce Pieranni, “che potrebbe creare, in futuro, inattesi cortocircuiti”.
Il forte vento del nazionalismo cinese non soffia in senso contrario alla vocazione globale di Pechino, ma anzi la rafforza e la completa. Il commercio, l’intraprendenza militare nel Mar Cinese Meridionale, l’intensa attività diplomatica e l’attivismo economico in Africa sono tutti tasselli del piano per portare la patria cinese al centro del mondo, al posto che la storia le ha assegnato e che le è stato illecitamente sottratto. Xi Jinping è il leader che sintetizza queste pulsioni, al tempo stesso globaliste e nazionaliste.
Pur essendo stato pubblicato ormai quasi un anno fa, Cina Globale resta uno strumento utile per comprendere la direzione intrapresa dalla Cina contemporanea nella scena internazionale. Vista l’estrema brevità del libro, ognuno degli argomenti trattati meriterebbe ulteriori approfondimenti, ma con quest’opera l’autore ha elencato efficacemente i tratti fondamentali della vocazione globale della Cina, offrendo una visione fresca e lontana dai luoghi comuni occidentali.