Recensione a: Marina Miranda (a cura di), La Cina quarant’anni dopo Mao. Scelte, sviluppi e orientamenti della politica di Xi Jinping, Carocci, Roma 2017, pp. 216, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Isabel Pepe
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Marina Miranda con La Cina quarant’anni dopo Mao – secondo volume della collana di studi Cina Report edita da Carocci – ha inteso raccogliere i saggi di più autori con l’obiettivo di presentare un’ampia panoramica dell’attuale Repubblica Popolare Cinese. Attraverso la suddivisione del libro in 6 macroaree sono stati sviluppati i temi della politica interna e internazionale, della società cinese, della letteratura, dell’economia, del rapporto Cina-Vaticano e dei new media.
Al termine delle 216 pagine, in cui è doveroso inserire anche il glossario di termini cinesi, molto dettagliato e tecnico, gli spunti di riflessione che si possono estrapolare sono tanti e di diversa natura. La complessa società cinese è molto spesso analizzata facendo riferimento soltanto alle fonti “occidentali”, colpa certamente da attribuire anche al massiccio controllo da parte del governo cinese delle notizie che possono, o no, varcare i confini nazionali. Ma il valore aggiunto di questo volume è la possibilità di poter avere accesso ad alcune fonti cinesi, utili per avere un quadro, dove possibile, più chiaro e non necessariamente allineato ai dettami del Partito. Alla luce di questa breve analisi iniziale, alcuni argomenti, in ordine sparso, meritano particolare attenzione, lasciando a chi vorrà approfondire l’argomento, la piacevole scoperta delle rimanenti sezioni in cui è diviso il libro.
Che fine hanno fatto i Maopai, i famosi sostenitori di Mao? Leggendo le pagine del testo, molto spesso, tra le righe, si ripresenta questa domanda. Il passato, nonostante la propensione del nuovo governo cinese a guardare al futuro, è tuttavia presente e permea, forse inconsapevolmente, l’attuale società. In particolare la Cina e Mao Zedong sono due elementi di una “coppia simbiotica”, inseparabili nel bene e nel male. Il Grande Timoniere è la prima personalità che viene collegata alla Cina, ed è il protagonista in numerosi contesti: dalla politica, all’economia, dalla Rivoluzione Culturale alle banconote, passando per i numerosi gadget e le più estrose opere artistiche. A prescindere da questa grande memoria simbolica, il contributo di Marina Miranda, si interroga su quale sia la l’eredità del periodo maoista e soprattutto quali possano essere i parametri della Rivoluzione Culturale che sono tutt’ora in auge in Cina, alla luce dei numerosi cambiamenti avvenuti. Se si osservano le azioni dell’attuale élite politica, si evince una diffusa tendenza a non voler favorire il ricordo e il dibattito circa la Rivoluzione Culturale, nonostante i sentimenti espressi da una buona parte degli studiosi e storici cinesi confermino una volontà contraria. La Rivoluzione Culturale, ormai giunta al 60esimo anno dalla sua conclusione, escludendo le “Risoluzioni su alcune questioni concernenti la storia del nostro Partito dalla fondazione della Repubblica Popolare cinese” adottate il 27 giugno 1981, in cui il contributo apportato da Mao alla Rivoluzione è stato valutato comunque positivamente rispetto agli errori commessi, con il Presidente XI Jinping è diventata uno dei “sette punti di cui non parlare”. Se si esclude una brevissima parentesi di pochi anni, dal 1977 al 1980, in cui agli scrittori è stato consentito di parlare degli orrori della Rivoluzione nella cosiddetta “letteratura della ferita”, le tracce nella letteratura e sulla stampa cinesi sono davvero ridotte. Infatti a partire dagli anni Ottanta, il dibattito è diventato clandestino, e relegato alla sfera privata e domestica.
Nonostante la scelta di cristallizzare a quegli anni le riflessioni sulla Rivoluzione Culturale e l’operato di Mao, Xi Jinping non può permettersi di ignorarne totalmente l’importanza, e, infatti, con un lavoro certosino di separazione del ricordo legato alla personalità di Mao da quello legato al suo pensiero, ne continua a tenere viva ,debolmente, la memoria. Un esempio è la commemorazione del 120 anniversario della nascita e non della morte di Mao, in quanto, strategicamente ritenuto, il “collegamento” per la legittimazione del suo potere. Così l’ombra di una possibile “Nuova Rivoluzione Culturale” è sempre dietro l’angolo, soprattutto su internet, in forum dedicati, come “Tianya Shequ” (Tianya Club), in cui si paventava un’imminente Rivoluzione Culturale.
Il controllo ossessivo che Xi Jinping da sempre persegue, ha portato il Governo a creare una sorta di milizia del web, “l’esercito dei cinquanta centesimi”, pagato per schierarsi a favore del regime nei dibattiti presenti in rete. Estremamente significativa è anche la posizione di Facebook, bloccato dal 2009, il quale, come riporta Davide Vacatello nella sezione Nuovi Media, sta cercando con ogni possibile strategia di penetrare nel vasto bacino cinese che conta circa 700 milioni di utenti. Il CEO del social network, pur di porre la propria bandierina sul suolo cinese, starebbe lavorando ad un software in grado di filtrare e rimuovere i post degli utenti provenienti da determinate aree geografiche, e non è difficile ipotizzare quali, considerando le non poche divergenze che Pechino sconta all’interno del proprio territorio con le minoranze etniche. Nel libro, anche dal monitoraggio della stampa, tradizionale e non, emerge come la memoria storica sia ostacolata dalla stretta repressione e dal capillare controllo che Xi opera sia sui giornali che sui portali web: Silvia Picchiarelli, attenta ai trend dei media, porta alla luce i casi in cui giornali e pagine web siano state chiusi perché “interferivano” con gli ideali del Partito e “minacciavano” l’integrità del Paese.
Il contributo di Simone Dossi, invece, ci fornisce una panoramica della riforma della difesa nazionale e delle forze armate di cui si iniziò a parlare soltanto nel 2013, e i cui primi dettagli comparvero con il Parere pubblicato nel gennaio del 2016. Questa riforma, benché strutturale, rispondeva ad una necessità strategica che si era palesata agli occhi di Xi e di altri attenti osservatori: le guerre non erano più “locali” come sul finire degli anni Ottanta, ma i numerosi progressi nel campo delle tecnologie militari, e la (americana) “rivoluzione degli affari militari”, mutarono le “guerre locali” in “locali in condizioni di informatizzazione”. Adesso era fondamentale riuscire a coordinare operazioni congiunte integrate, in cui le differenti forze militari in campo, siano esse di terra, marittime, aeronautiche o informatiche, potessero operare contemporaneamente e anche in diversi scenari. Tornando al Parere del 2016, esso stabiliva che le forze dell’Esercito Popolare di Liberazione, sarebbero state divise in due filoni, entrambi però supervisionati dalla Commissione militare centrale: la Commissione delle Regioni, con competenze operative e la Commissione ai Servizi per la gestione amministrativa. La riforma toccava anche livelli gerarchicamente subordinati: infatti i preesistenti quattro Dipartimenti generali furono smantellati e sostituiti da quindici Dipartimenti funzionali; i tre Servizi armati, Forze di terra, Marina e Aeronautica militare, furono ampliati con il “passaggio di grado” a Servizio armato della Forza missilistica, inquadrata come Corpo; a questi quattro sono aggiunte le Forze di supporto strategico, competenti in ambito spaziale e informatico.
Tutti questi dettagli quindi, rendono tangibile la volontà da parte di Xi Jinping, soprattutto a partire dal 2016, di diventare l’indiscusso core leader[1] della Cina a 360 gradi, senza lasciare spazio alcuno alla tanto agognata leadership collettiva. A conferma di ciò, Xi ha adottato due strumenti: articoli, certamente pilotati, pubblicati su giornali ufficiali, quali Renmin Luntan (Tribuna del Popolo) o Renmin Rebao (Quotidiano del Popolo), e la famosa campagna anticorruzione lanciata dal leader per eliminare gli oppositori all’interno del Partito, che potessero ostacolare il suo piano di accentramento di potere. Tra gli obiettivi della campagna in primis ci sono i cosiddetti Tuanpai, alleati del premier uscente Hu Jintao, il “gruppo di Shanghai”, capeggiato da Jiang Zemin, e l’ex capo supremo dei servizi di sicurezza Zhou Yongkang, condannato all’ergastolo. Dall’analisi proposta si evince un forte fattore geografico nelle scelte dei propri collaboratori da parte di Xi: infatti molti hanno in passato occupato posizioni politiche gerarchicamente molto alte in distretti, dipartimenti o città collegate con il Presidente, come la provincia della Zhejiang, in cui Xi è stato segretario dal 2002 al 2007, o la città di Sha’anxi, zona che gli ha dato i natali.
Altro spunto interessante è il burrascoso rapporto tra il Vaticano e la Chiesa cattolica cinese. Le pagine di Elisa Giunipero, partendo dalla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1951, quando l’Internunzio, mons. Antonio Riberi, venne espulso dalla RPC perché considerato “nemico del popolo”, ci conducono attraverso l’altalenante percorso che unisce Roma e Pechino. La “questione cattolica” in Cina è legata in linea generale a due fazioni, definite secondo il punto di vista cinese, “patriottica” e “clandestina”, altrimenti definita “sotterranea”: la prima approvata dall’APCC, l’Associazione patriottica dei cattolici che, insieme all’Ufficio nazionale per gli affari religiosi, si occupa della gestione complessiva dell’operato della Chiesa Cattolica; la seconda ritenuta illegittima in quanto non allineata con i “principi religiosi” dell’APCC. È di facile comprensione che la prima è completamente assoggettata al controllo e alle direttive del Governo, mentre la seconda, non avendo registrato le proprie comunità presso un registro, è “libera” di organizzarsi e agire come meglio ritiene opportuno. Questa divisione ha da sempre creato molte tensioni e diverse repressioni nei confronti dei “sotterranei”, è riportato nel libro l’episodio accaduto nella provincia dello Zhejiang, dove nel 2014, il governo ha distrutto chiese e simboli, in una feroce campagna contro la città di Wenzhou, considerata la Gerusalemme cinese. Secondo il contributo, Control and containment in the reform era di Mickey Spiegel, la politica religiosa cinese si basa essenzialmente su due capisaldi della Costituzione, il n.36 in base al quale le attività religiose non possono essere soggette a controlli esterni, leggi Vaticano, e il Documento n.19, del 1982, il quale vieta qualsiasi attività religiosa al di fuori dell’APCC, leggi la legittimazione da parte del Governo a reprimere, torturare, eliminare qualsiasi persona sospettata di non rispettare questo principio. Da ciò ne deriva la diffusa percezione che un reale e trasparente riavvicinamento tra le “due” Chiese sia di non facile realizzazione, nonostante i tanti sforzi perpetrati da entrambe le parti: si pensi alla concessione data all’aereo del Papa Francesco di sorvolare lo spazio aereo cinese nel 2014, o la tenacia del cardinale Parolin di incentivare il dialogo e le trattative per stabilire una procedura per la nomina dei cardinali, a prescindere dalla possibilità di instaurare reali relazioni diplomatiche tra lo Stato del Vaticano e la Cina.
Sara Pilia, grazie all’analisi di fonti cinesi, ci propone uno spaccato del fallimentare tentativo, da parte di Xi Jinping, di alleggerire il controllo da parte dello Stato tramite la privatizzazione delle imprese, progetto annunciato agli inizi degli anni Novanta e ufficializzato nel 2013. L’obiettivo del governo era dunque quello di eliminare il monopolio in alcuni settori ed incentivarne la concorrenza. Negli ultimi anni, invece, si è assistito ad un totale cambio di rotta, con l’intento di tornare a porre il Partito al di sopra dei board aziendali. Qui sorge l’annosa problematica dei gruppi di interesse. Nonostante Xi Jinping voglia limitare l’autonomia dei manager aziendali, secondo alcune inchieste condotte e grazie all’analisi dei rapporti gerarchici, il sistema delle SOE è strettamente intrecciato al Partito, in quanto molte delle alte posizioni manageriali delle aziende sono occupate da esponenti del Partito, in questo modo le lobby collegate alle varie aziende sono coperte e fortificate da questo legame. Dunque una delle soluzioni proposte dagli economisti cinesi per combattere questa corrotta influenza dei gruppi di interesse è riuscire a scindere, come suggerito dalla riforma di Zhu Rongji, il potere amministrativo da quello manageriale, lasciando a quest’ultimo le scelte economiche.
Consultando il sito della citata World Internet Conference, si possono trovare news e sezioni dedicate agli interventi degli ospiti internazionali e le ultime novità tecnologiche. Peccato che analizzando più attentamente la situazione in cui l’internet delle cose verte in Cina, si tende ad essere scettici circa la “copertina” patinata che la Cina vuole presentare. Il capitolo scritto da Davide Vacatello, propone una panoramica delle strategie adottate nel settore del web, partendo proprio dalla terza World Internet Conferenze tenutasi a novembre 2016 a Wuzhen, nella provincia dello Zhejiang. La grande conferenza internazionale, dopo i saluti di Xi Jinping, ha visto susseguirsi sul palco personalità note nel settore, tra cui i vertici di Facebook, IBM, Huawei, Alibaba, Tesla, con l’obiettivo di presentare le più moderne e innovative tecnologie per la gestione di internet e dell’informatizzazione, utili a realizzare quel “mondo più interconnesso, condiviso e governato da tutti” che lo slogan dell’evento si prefigge. In realtà come, sottolineato dall’autore, l’obiettivo finale del leader cinese è quello di sponsorizzare la gestione condivisa della cyber-security, in cui condivisa si potrebbe intendere da parte degli altri Stati, in quanto la strategia che Xi vuole adottare è quella di anteporre, come sempre, le prerogative cinesi agli standard internazionali. La maschera del tutti insieme nella stessa “rete”, sembra essere solo un escamotage per rendere ancora più restrittivi i controlli sugli utenti del web e sulle loro libertà di espressione. Nel libro si fa riferimento, per esempio al Great Firewall, sistema di filtraggio di parole chiave sui siti, messo a punto dal Partito Comunista Cinese, con l’obiettivo di eliminare i dati sensibili e lesivi per la stabilità nazionale.
La domanda da porsi come naturale prosieguo del libro potrebbe essere: alla luce del XIX Congresso del Partito appena terminato, e che ha visto riconfermata la posizione apicale di Xi Jinping ai vertici del Partito e dei più importanti organi deputati al controllo della società cinese, quali potrebbero essere i risvolti futuri per il “socialismo con caratteristiche cinesi”, tanto promosso dal Presidente?
Dal Congresso inoltre, non è emerso alcun nome valido per la carica di Presidente della Repubblica Popolare Cinese una volta terminato il mandato di Xi, quindi, considerando anche le possibili conseguenze dell’attuale apertura della Cina nei confronti del resto del mondo, grazie ad iniziative di respiro internazionale come la OBOR, la volontà di porsi (o imporsi?) come nuovo padre della Patria, condurrà il leader ad una maggiore apertura nei confronti della politica, o ad più intensivo controllo in ogni settore della società, anche ben oltre il consueto periodo di 10 anni?
[1] Termine coniato da Deng Xiaoping nel 1989: “Una leadership collettiva deve avere un centro; senza un centro, nessuna leadership può essere abbastanza forte”.