Cinquant’anni di Piazza Fontana
- 12 Dicembre 2019

Cinquant’anni di Piazza Fontana

Scritto da Andrea Germani

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Milano, 18 novembre 2019, Via Larga: è in corso una piccola celebrazione officiata dal sindaco Giuseppe Sala. Il primo cittadino ha appena scoperto una targa dedicata a un poliziotto ucciso nello svolgimento delle sue funzioni molto tempo prima, per l’esattezza cinquanta anni prima. Il suo nome era Antonio Annarumma, ventiduenne irpino figlio di braccianti, uno dei tanti meridionali emigrati per scappare dalla povertà. Fu ucciso con un colpo alla testa inferto da un tubo di ferro[1] durante gli scontri di piazza scoppiati nel corso di una massiccia manifestazione contro il caro-affitti indetta dalle confederazioni sindacali CGIL-CISL-UIL. Come succedeva sul finire del 1969, il famoso autunno caldo, le manifestazioni pubbliche organizzate dalle forze di sinistra erano spesso teatro di violenti scontri con le forze dell’ordine. A farne le spese erano quasi sempre operai, braccianti, emigrati meridionali, studenti e disoccupati, malmenati dai reparti celere e, successivamente, arrestati e interrogati nelle questure. In questa occasione la vittima fu un poliziotto, una cosa inaudita per l’Italia conservatrice dell’epoca. Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della morte dell’agente Annarumma aprono la “stagione commemorativa” a ricordo dei tragici eventi avvenuti negli ultimi giorni degli anni Sessanta e lungo tutto l’arco dei Settanta; poche settimane dopo l’uccisione di Annarumma sarebbero iniziati gli anni della strategia della tensione.

Milano, 12 dicembre 1969, Piazza Fontana, qualche centinaio di metri da Piazza Duomo. Poco più avanti c’è Via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale; il Santuario di San Bernardino alle Ossa è a pochi passi di distanza e anche Via Larga è là nei dintorni. Qui cinquant’anni fa si trovava la Banca Nazionale dell’Agricoltura, fondata nel 1921 come consorzio di istituti di tremila agricoltori e novantacinque casse popolari. Sopravvisse alla crisi finanziaria dei primi anni Trenta grazie a un conte romano, Giovanni Armenise, che la rilevò nel 1936 e ne fece uno dei più potenti istituti di credito italiani. La sua solidità era dovuta, forse, anche alla fedeltà dei suoi dipendenti: il sindacato dei bancari vicino alla Cisnal, costola sindacale del Movimento Sociale Italiano, aveva l’appoggio di quasi tutti i lavoratori. Luogo di riferimento per le contrattazioni degli agricoltori del lodigiano, della lomellina e dei colli piacentini (lavoratori provenienti da aree rurali a maggioranza democristiana – come buona parte delle campagne italiane – territori caratterizzati da un certo familismo conservatore). Insomma, la BNA era considerata un punto di riferimento della destra agraria. Alle ore 16 e 37 si stavano chiudendo le contrattazioni, particolarmente concitate visto che si era a ridosso delle vacanze natalizie. Raramente l’androne della banca si riempiva come in queste occasioni: il tavolo al centro era pieno di scartoffie e qualcuno vi aveva nascosto sotto una valigetta di pelle. Improvvisamente un’esplosione. I primi rumors parlarono di una caldaia difettosa ma non ci volle molto a capire che una caldaia non potesse fare una carneficina simile: nella Banca Nazionale dell’Agricoltura era appena esplosa una bomba ad alto potenziale. Morirono 17 persone e 88 rimasero ferite. Altre bombe furono ritrovate a Milano e a Roma, tuttavia nessuna di queste fece danni ingenti a cose o persone, e una rimase inesplosa.

Nel giro di qualche ora cominciò il lungo percorso che porterà alla prima sentenza della Corte di Cassazione del 27 gennaio 1987, che assolverà definitivamente i maggiori indagati per la strage, uomini ad oggi ritenuti da storici e inquirenti come i suoi reali esecutori. Tutto iniziò nella questura di Milano, all’epoca diretta da Marcello Guida, napoletano, direttore dal 1939 al 1943 del confino politico di Ventotene, noto per la sua fedeltà al fascismo. Graziato dall’amnistia Togliatti, continuò la sua carriera in polizia. Il nome di Guida ritornò spesso nelle indagini, le sue scelte in merito alle investigazioni furono discutibili sin dai primi attimi dopo l’esplosione. Guida fu difatti da subito convinto sostenitore, anche in assenza di elementi probatori, di una discutibile teoria che la bomba si portò appresso per anni: la pista anarchica. La notte del 12 dicembre furono arrestati un centinaio fra attivisti e simpatizzanti dei vari circoli anarchici milanesi. Solamente anni dopo venne fuori che si trattò di un’ingiustificata criminalizzazione: oltre alle prove concrete mancava un movente credibile. I “petardi” esplosi in aprile e agosto a Milano e in altre città italiane erano state attribuiti agli anarchici e si credeva che la strage in uno dei templi del capitalismo agrario, vicino alle posizioni della destra rurale, fosse un atto della guerra dichiarata dagli anarchici allo Stato italiano. A farne le spese furono soprattutto Pietro Valpreda (ballerino milanese che subì anni di processi per poi venire definitivamente assolto) e Giuseppe Pinelli, ferroviere membro del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, che dopo tre giorni di interrogatorio volò dalla finestra dell’ufficio del commissario addetto all’ufficio politico della questura milanese, Luigi Calabresi, ucciso anch’egli nel 1972 da alcuni esponenti di Lotta Continua. Morirà poche ore dopo in ospedale, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. La vicenda della morte di Pinelli non fu mai chiarita. Ancora oggi la “verità ufficiale”, così come recita la sentenza emessa nell’ottobre 1975 dal giudice Gerardo d’Ambrosio, parla di un malore a cui seguì la caduta dalla finestra, ma anche in questo caso ci sono elementi sospetti e questioni lasciate irrisolte. Calabresi affermò di non essere presente al momento della caduta ma Pasquale Valitutti, uno degli anarchici arrestati presente in quel momento in questura, disse di non aver visto nessuno uscire dall’ufficio di Calabresi; alcuni si chiesero perché il commissario che stava conducendo l’interrogatorio fosse uscito dal suo ufficio e, soprattutto, perché Pinelli fosse stato trattenuto in questura dopo la scadenza del fermo giudiziario valido tre giorni. Nessuno fu mai indagato per abuso d’ufficio. Il malore non spiega la caduta dalla finestra, qualcuno o qualcosa avrebbe alterato il suo “centro di equilibrio”, nonostante ciò non si ritenne di dover indagare ulteriormente. Da ultimo, il questore Guida inizialmente parlò di suicidio sostenendo che Pinelli, vistosi scoperto, decise di buttarsi per sfuggire alla condanna: versione poco credibile considerato che Pinelli era totalmente estraneo alla vicenda. Non seguì nessuna imputazione per falso ideologico.

Tutta la storia della bomba è una storia di “verità ufficiali” ritenute poco credibili, soprattutto dagli inquirenti. Questi si trovarono le mani legate e subirono pesanti interferenze da parte di uffici ministeriali, come l’UAR, Ufficio Affari Riservati, o dei servizi segreti, sia civili sia militari. Pietro Calogero e Giancarlo Stiz, magistrati a Treviso; Gerardo D’Ambrosio, procuratore capo di Milano; Maria Grazia Pradella, Ugo Paolillo e Guido Salvini, magistrati a Milano. Ognuno di loro dovette fare i conti con intralci alla giustizia di ogni tipo, come disse D’Ambrosio nel 2005: «I depistaggi sono partiti lo stesso pomeriggio della strage. Il 12 dicembre la polizia di Milano prese l’assurda decisione di far saltare l’unica bomba rimasta inesplosa, facendo sparire così qualsiasi frammento di prova. Ma l’inquinamento più grave fu l’arresto degli anarchici. Valpreda e Pinelli non c’entravano nulla con la strage»[2]. Sin da subito si decise di far seguire le indagini ai magistrati romani, perché lì avvenne l’ultima esplosione, il processo si aprirà solamente il 23 febbraio 1972, per venire poi spostato a Milano e successivamente, per ragioni di ordine pubblico, a Catanzaro il 13 ottobre dello stesso anno. Carte, prove, corpi del reato girarono l’Italia per decenni, perdendosi o deteriorandosi; testimoni scomodi morirono in circostanze misteriose o sparirono dalla circolazione. Al processo sulla strage si sovrappose quello sull’omicidio Pinelli e quello contro Pio Baldelli, direttore di Lotta Continua, a seguito delle denunce per diffamazione che il commissario Calabresi mosse contro il giornale che lo accusava di essere il responsabile dell’omicidio di Pinelli.

Oggi Franco Freda, editore neonazista padovano, è a piede libero, e i suoi “camerati” Giovanni Ventura, Guido Giannettini, Carlo Maria Maggi sono morti. Prima di morire nel 2018 Maggi verrà condannato per essere il mandante della strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974. Anche Delfo Zorzi, ordinovista veneziano, è a piede libero, ma in Giappone, nazione che gli ha concesso la cittadinanza. Questi nomi, in particolare quelli di Freda e Ventura spuntarono già pochi giorni dopo la strage: a farli fu Guido Lorenzon, un professore di Maserada sul Piave in provincia di Treviso, segretario della DC nel suo paese, uomo mite e di sincero spirito democratico che frequentava suo malgrado persone che invece operavano nell’ombra per distruggere la democrazia. Giovanni Ventura nel 1969 era un editore venticinquenne di Castelfranco Veneto che aprì una libreria-stamperia a Treviso: pubblicava libri di Céline, Platone, Marx, Evola, Pound, Nietzsche, ma anche il Mein Kampf di Adolf Hitler. Proprio con quest’ultimo Ventura dimostrava grandi affinità ideologiche. Grazie alla sua tenacia e alla sua incrollabile fede salì ai vertici veneti di Ordine Nuovo. Da piccolo neo-nazista di provincia divenne in pochi anni uno degli esponenti di punta del terrorismo nero, anche grazie alla frequentazione di uno dei maggiori rappresentanti internazionali dell’eversione nera, Franco Freda. Freda nell’anno della bomba era un avvocato padovano di ventotto anni, procuratore legale assunto da Confagricoltura – forse anche per i suoi metodi squadristi nel sedare gli scioperi di contadini e braccianti nei periodi della vendemmia. Tentò di assassinare con una bomba il rettore dell’ateneo patavino Enrico Opocher, partigiano azionista che fu relatore della sua tesi di laurea anni prima, e infastidì per anni la comunità ebraica di Padova. Convinto antisemita, non fece mai segreto della sua fede nazista e del suo sostegno alla tesi del razzismo spirituale di Julius Evola. Fondò la sua casa editrice AR, tuttora operativa, a Padova nel 1963, e tre anni dopo aprì in centro città la libreria “Ezzelino da Romano”. Qui si tenevano conferenze e incontri con vari estremisti di destra e molto probabilmente si ideò e fabbricò materialmente la bomba. Lorenzon raccontò ai magistrati trevigiani tutto ciò che sapeva sui circoli della destra radicale attivi fra Padova e Treviso. Anche lì intervennero uomini delle istituzioni che prontamente insabbiarono, spostarono faziosamente le indagini e silenziarono testimoni con metodi poco ortodossi, e Lorenzon rischiò persino di essere indagato per falsa testimonianza.

Il 13 aprile 1971 Freda e Ventura vennero arrestati per la prima volta. Due anni dopo fu il turno di Guido Giannettini, giornalista esperto di studi strategici a libro paga dei servizi segreti militari. Giannettini partecipò assieme ad altri neofascisti italiani alla spedizione nella Grecia dei colonnelli nell’aprile del 1968, al fine di apprendere tecniche di guerriglia controrivoluzionaria e metodi di propaganda anticomunista. Oggi è ricordato anche per aver scritto a quattro mani con Pino Rauti, leader di Ordine Nuovo, il pamphlet Le mani rosse sulle forze armate, testo che serviva ad incoraggiare le caserme a prepararsi a un colpo di stato in chiave autoritaria per anticipare una presunta avanzata comunista da Est. Il saggio uscì nell’estate del 1966. Lo stesso anno duemila ufficiali dell’esercito ricevettero a casa un opuscolo in cui venivano avvisati dell’imminente guerra civile e della necessità di guidare una rivolta contro le istituzioni democratiche, ribellione finalizzata a distruggere la Repubblica dalle fondamenta. Lorenzon riferì proprio di queste e di altre informazioni vaghe che gli confidò Ventura, tutte relative al bisogno di preparare il terreno ad un golpe mediante atti violenti che avrebbero spaventato la popolazione e l’avrebbero indirizzata contro i “rossi” che da più di un anno creavano scompiglio nelle fabbriche e nelle università, e che all’epoca si riteneva fossero a un passo da compiere la rivoluzione. A dicembre esplose a Piazza Fontana l’ultima di una serie di bombe. Furono prontamente incolpati gli anarchici, si auspicarono misure emergenziali e si arrivò, un anno dopo, l’8 dicembre 1970, a tentare il tanto agognato colpo di Stato, il Golpe Borghese, abortito all’ultimo momento.

Alla luce di queste informazioni si può ipotizzare con grande plausibilità quale fosse lo scopo della bomba di Piazza Fontana, chi la collocò e i motivi che lo mossero. In cinquant’anni di indagini migliaia di informazioni come queste circolarono fra gli addetti ai lavori, dentro e fuori gli uffici giudiziari, ma i depistaggi furono tanti e tali da riuscire a bloccare ogni tentativo di fare giustizia. Da anni circolano gli stessi nomi, da anni si ha la certezza quasi assoluta che Silvano Russomanno – dirigente dell’UAR e eccellente agente dei servizi segreti – e Federico Umberto d’Amato – all’epoca direttore dell’UAR – operarono per deviare le indagini sin dal primo momento, sin da quando Russomanno, la sera stessa dell’esplosione, fece pressioni nell’ufficio del questore per spedire materiale prezioso a Roma e far convergere lì le indagini. Tutto questo avvenne con la compiacenza del questore Guida, del direttore dell’ufficio politico Antonino Allegra e del Procuratore di Milano Enrico de Peppo che, messo sotto pressione, accettò prima di far brillare la bomba inesplosa, poi di togliere l’inchiesta al magistrato Ugo Paolillo (fra quelli seriamente intenzionati a scoprire la verità) infine, due anni dopo, di far trasferire il processo a Catanzaro.

Cinquant’anni di segreti, depistaggi, infiltrazioni nei gangli della giustizia che la Repubblica e i suoi cittadini si portano sulle spalle. Ad oggi l’unico condannato, reo confesso, è Carlo Digilio, ordinovista romano morto nel 2005 e primo pentito del terrorismo neofascista, confessò che a porre la bomba nell’androne della banca fu Delfo Zorzi, poi assolto per mancanza di prove. Usufruì della prescrizione concessagli in qualità di collaboratore di giustizia. Nel 2019 sono usciti alcuni libri che tentano di ricostruire gli eventi di quel 12 dicembre, volumi che vanno ad aggiungersi alla sterminata letteratura sull’argomento; si va da testi generici sulla strage, come La Bomba di Enrico Deaglio o Piazza Fontana. Il primo atto dell’ultima guerra italiana di Gianni Barbacetto a testi in cui gli autori raccontano la tormentata vicenda giudiziaria, come La maledizione di Piazza Fontana dove l’ex-magistrato Guido Salvini racconta l’ultimo decennio di indagini dopo le assoluzioni del 2005, o Piazza Fontana. Il processo impossibile di Benedetta Tobagi che analizza tutti i processi svolti dal 1972 a oggi. Infine, il volume di Paolo Morando Prima di Piazza Fontana: la prova generale (qui recensito da Pandora) in cui l’autore fa luce sugli attentati del 1969 precedenti alla strage, mostrando come alcuni esponenti dello Stato costruirono il sistema di criminalizzazione degli anarchici. Nonostante fiumi di inchiostro e montagne di carte processuali l’Italia si ritrova a chiedersi ancora chi sia il colpevole. Mandanti ed esecutori della strage di Piazza Fontana non hanno ancora un nome, oggi, a cinquant’anni dall’accaduto.


[1] Mario Capanna avanzò un’ipotesi alternativa: Annarumma sarebbe morto a causa di un trauma cranico provocato dall’impatto della jeep in cui si trovava con un altro automezzo in dotazione alla polizia.

[2] La verità su Piazza Fontana? La chiederei a Rauti e Andreotti, articolo di Paolo Biondani uscito sul Corriere della Sera del 28 aprile 2005.

Scritto da
Andrea Germani

Nato a Perugia, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare filosofia, successivamente ha conseguito un dottorato in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria specializzandosi in Filosofia Politica. Attualmente è Knowledge Transfer Manager all’Università di Bologna e collabora con alcune riviste di cultura; il suo podcast “Libri che NON hanno fatto la storia” è disponibile sulle principali piattaforme.

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