“Cinque domande sull’Italia” di Paolo Pagliaro
- 23 Dicembre 2022

“Cinque domande sull’Italia” di Paolo Pagliaro

Recensione a: Paolo Pagliaro, Cinque domande sull’Italia. I dilemmi di un Paese inquieto, il Mulino, Bologna 2022, pp. 208, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Giulio Pignatti

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«Se un ragazzo mi chiedesse che lavoro ho fatto da quando avevo 20 anni, gli direi che ho selezionato fatti che meritavano di diventare notizie», questo il compito del giornalista secondo Paolo Pagliaro – lo affermava in un’intervista a «Pandora Rivista» dell’anno scorso –. Sembrerebbe banale: i fatti sono fatti, e quando sono rilevanti parlano da soli. E invece, per rispondere ai dilemmi del nostro tempo, occorre innanzitutto saper dove cercare, come far parlare i dati, a quali esperti affidarsi e quali voci invece scartare.

Proprio ai «dilemmi di un Paese inquieto» fa riferimento il sottotitolo del nuovo libro di Pagliaro, Cinque domande sull’Italia (il Mulino). Che interroga cinque temi di attualità (ma non certo “a scadenza”) – la qualità e la quantità del lavoro, la distribuzione della ricchezza, l’evoluzione (o meglio, l’involuzione) demografica, le sfide ecologiche e digitali di un futuro già presente – riuscendo a svincolarsi da un approccio ideologico che avanza risposte granitiche e di principio. Al contrario, il libro procede attraverso la scomposizione in una molteplicità di punti d’attacco che mettono a frutto statistiche, ricerche, inchieste giornalistiche. «Istantanee scattate in questi anni» (p. 12) – le chiama Pagliaro –, raccolte in un album che non ha pretese sistematiche ma che restituisce un vasto quadro delle sfide del nostro Paese. Dall’importanza degli oratori estivi per il welfare all’iter burocratico per costruire una strada (sono 27 i passaggi), dal bilancio sull’epoca di bonus e superbonus al divario tra le mense scolastiche di Monza e quelle di Reggio Calabria (sono assicurate al 100% dei ragazzi in un caso, allo 0,17% nell’altro).

Paolo Pagliaro, fondatore e direttore dell’agenzia di stampa «9 Colonne», già vicedirettore del «L’Espresso» e caporedattore di «la Repubblica», raccoglie la lunga esperienza de Il Punto, il servizio in onda all’interno della trasmissione Otto e Mezzo (La7), con cui la sua voce entra ogni giorno nelle case degli italiani. E mostra così che quando a parlare, prima delle opinioni, sono i dati i risultati possono essere sorprendenti. Nell’Introduzione si denuncia un certo «politicismo» (p. 8) del giornalismo italiano, cioè l’idea che sia la politica – o ancor più, le sue variopinte vicende quotidiane – a reggere i fili della realtà che ci circonda. Forse si potrebbe aggiungere un vizio di opinionismo, la tendenza a voler già sempre avanzare un’interpretazione a partire dal proprio angolo visuale. Ma le notizie spesso sbaragliano le contrapposte posizioni: chi avrebbe detto, ad esempio, che la metà degli italiani non paga un euro di Irpef, e quindi è tutt’altro che strozzato dal fisco?

Così, alla domanda, che più che un dilemma spesso può essere un dramma, se siamo un Paese ricco o povero, i fatti rispondono piuttosto che siamo disuguali. È il divario tra due Italie – una benestante o sempre più ricca e una che va impoverendosi – che caratterizza la situazione sociale degli ultimi lustri. I ricchi sono in aumento, le disparità tra generazioni e tra territori anche. Non c’è da stupirsi se si pensa che in Italia l’imposta di successione è irrisoria (costituisce lo 0,19% delle entrate fiscali, contro il 4,2% della Francia) e che l’ascensore sociale è fuori uso. Colpa dell’evasione, considerata in Italia ancora come «un peccato veniale, quasi una forma di autodifesa contro la presunta invadenza dello Stato» (p. 32), ma anche della cecità verso proposte come il taglio delle tasse universitarie, la “dote” ai neo-diciottenni o l’introduzione della patrimoniale (a proposito: il 75% dei benestanti si dichiara pronto a finanziare investimenti di utilità pubblica). Per quanto riguarda quella “seconda Italia” che è il Sud, bisogna sperare in un miracolo – o nel PNRR.

Ci sono poi dati che aprono un mondo (il nostro): i redditi da lavoro costituiscono meno della metà del reddito nazionale, nel dopoguerra ne rappresentavano il 65-70%. Non si vive del proprio lavoro, e un quarto dei lavoratori italiani si colloca in una situazione di povertà retributiva, con le donne ancora nettamente penalizzate. Ma intanto il lavoro travalica la sua dimensione economica per investire quella più largamente esistenziale. Il fenomeno delle “Grandi dimissioni” che ha caratterizzato il post-pandemia e che in Italia ha coinvolto, solo nei primi dieci mesi del 2021, 1 milione e 300.000 cessazioni volontarie (soprattutto al Centro-Nord e nel comparto industriale) testimonia una nuova insofferenza verso lavori sentiti come alienanti. Ma è anche l’indice di un rinnovamento travolgente del mercato del lavoro: secondo il World Economic Forum entro il 2025 andranno persi 85 milioni di posti di lavoro e ne verranno creati 97 milioni di nuovi. Ma di tipo diverso: più qualificati, più produttivi, più digitali, concentrati nel terziario… La risposta, oltre a politiche attive e protezione sociale è la formazione, sfida che solo recentemente l’Italia ha iniziato a prendere sul serio. Il modello è la Germania, ma anche l’ITS Camerana di Torino, dove 24 diplomati su 25 hanno trovato subito un impiego (e il venticinquesimo si è iscritto al Politecnico): lì – e in altri 116 istituti tecnici superiori italiani – si studia meccatronica e mobilità sostenibile e il rapporto con le imprese è organico.

Anche perché l’alternativa al lavoro qualificato e formato è il lavoro povero: è quello della cui mancanza si sente lamentarsi spesso – sui cartelli fuori dai negozi non si legge “cercasi big data analyst” –, ma la realtà è che, tra i vari studi riportati nel libro, due terzi dei contratti di lavoro in Italia sono irregolari (con minimi retributivi inferiori anche del 30%) o che tra gli 80.000 addetti ai call center si registrano punte minime di 2 euro netti all’ora di salario.

Notizie più confortanti non arrivano dalla terza domanda, “Siamo troppi o troppo pochi?”. Troppi, se si ascolta chi si preoccupa delle sorti del nostro pianeta. Ma pericolosamente in diminuzione se si prende in considerazione un Paese, il nostro, che si piazza al terzultimo posto in Europa per tasso di fertilità e in cui nel 2020 c’è stato il minimo storico di nascite dall’Unità. Un terzo della popolazione è costituito da pensionati: è l’emergenza demografica, «minaccia più insidiosa di qualsiasi altra crisi economica perché ne promette una strutturale e irrimediabile, quando i pochi non basteranno più a garantire le pensioni e le cure dei molti» (p. 101).

Una fotografia statica però non basta: la popolazione non solo invecchia e diminuisce, ma si trasforma lentamente (neanche troppo in verità). Mentre si denuncia l’“invasione” dei migranti in arrivo dai barconi, il numero di richieste di cittadinanza da parte di stranieri ogni anno è superiore a quello degli sbarchi, gli immigrati regolari versano all’Inps 5 miliardi di euro in più di quanto ricevono e, a proposito di lavoratori che mancano e di cui si sente gran bisogno, il 68,8% di colf, badanti e babysitter è composto da immigrati. Ciò che servirebbe davvero è una politica di integrazione e di gestione dei flussi migratori. Se non si vuole passare per “buonisti”, suggerisce Pagliaro, si parli di “risorse umane aggiuntive”. Lo aveva capito Giovanni Giolitti 110 anni fa, quando varò una legge facilitante sulla cittadinanza: allora come oggi mancava manodopera, ma c’era meno paura e più lungimiranza.

Possiamo almeno rivendicare un impatto ecologico meno pesante, dunque? In parte sì: l’Italia è un’eccellenza europea in merito a riciclo (80% sul totale dei rifiuti), produttività delle materie prime e in generale negli ambiti dell’economia circolare. Ma anche su temi così innovativi come la transizione ecologica si scontano i vecchi problemi di un Paese che, scrive pessimisticamente Pagliaro nelle conclusioni di Cinque domande sull’Italia, «sembra impermeabile alle sollecitazioni della storia» (p. 194). Spendiamo in ricerca e sviluppo la metà rispetto alla Germania, il cancro mafioso è riuscito ad aprire una sua filiale – le “ecomafie”, che lucrano soprattutto sulla gestione dei rifiuti industriali – e si stima che siano stati sottratti fino a cinque miliardi attraverso piccole e grandi truffe nella stagione delle detrazioni fiscali per l’efficientamento energetico. Ci sono poi abitudini nocive: l’Italia “vanta” il più alto tasso di motorizzazione privata in Europa (614 auto ogni 1.000 abitanti). Ma la colpa non è solo dei cittadini: siamo pur sempre il Paese in cui per spostarsi da Potenza a Matera coi mezzi pubblici si impiegano tre o quattro ore.

Se ancora manca il collegamento ferroviario tra un capoluogo di regione e uno di provincia, calma con gli entusiasmi “digitali”. Pagliaro mette in guardia: «L’idea che la vita si sia trasferita all’interno delle piattaforme digitali è un abbaglio» (p. 160). Il Covid-19 ci ha reso tutti più connessi, certo, ma è stato calcolato che, ad esempio, solo il 10% del lavoro della pubblica amministrazione può essere svolto da remoto e Michael Clauss, ambasciatore tedesco presso l’Unione Europea, ha stimato che la resa delle riunioni online è del 20% rispetto a quelle fisiche. Si inizia a parlare di diritto alla disconnessione nei contratti aziendali sotto la voce smart working.

È dunque un invito alla cautela quello di Pagliaro nei confronti dell’innovazione digitale, che pur costituirà buona parte del nostro futuro (anche economico). Nonché una presa di posizione in controtendenza sul giornalismo: troppo spesso a pensare che online ci sarebbe la vita vera, gli umori autentici, sono proprio i media mainstream, sempre pronti a rilanciare ogni contenuto, anche di scarso interesse. Quando, a ben vedere, sui social spesso non si parla d’altro che di ciò che accade nella “realtà” e del modo in cui la raccontano proprio i giornali o la televisione. La disintermediazione non garantisce una maggiore vicinanza al mondo reale, ma la dittatura della comunicazione, che, al contrario dell’informazione, ha come fine la persuasione. Ed è proprio ciò da cui il giornalismo dovrebbe difendere.

Dalle ricerche sulla fuga dei cervelli alle good practice sul ripopolamento dei comuni montani altoatesini: c’è molto da imparare da Cinque domande sull’Italia, non da ultimo per chi ha incarichi amministrativi e politici. E c’è, infine, un’altra lezione che si può trarre dal libro di Paolo Pagliaro, e riguarda l’utilizzo giornalistico dei dati. Sebbene essi siano uno dei pochi modi per bucare le ormai celebri echo chamber, le bolle in cui non risuonano altro che narrazioni familiari che confermano le nostre opinioni, anche in questo caso il rischio di un impiego “disintermediato” è tutt’altro che assente. I fatti non parlano da soli, dicevamo. In un’epoca in cui sempre più sui data vengono costruiti lavori, programmi di ricerca e policy, c’è probabilmente bisogno di una maggiore consapevolezza nel loro impiego. Una vera e propria epistemologia, che circoscriva e contestualizzi il valore di verità del dato (che, estrapolato singolarmente, è, se non bugiardo, muto) e che tenga a bada surrettizie pretese normative (la decisione la prende la politica, non i numeri). Ma proprio lì sta la bravura del giornalista, che naviga tra gli Scilla e Cariddi dello storytelling da una parte e dello specialismo tecnicista dall’altra. Il lavoro di Paolo Pagliaro è un grande esempio di buona navigazione.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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