Scritto da Alberto Prina Cerai
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I leader del G20, sotto la presidenza del Premier Mario Draghi, hanno raggiunto un accordo di massima per accelerare i piani contro il riscaldamento globale e finanziare la transizione energetica. «Un’azione significativa e efficace», come si legge nel comunicato finale, è dunque necessaria per rispettare gli impegni siglati alla COP21 nel 2015 e passati alla storia come Accordi di Parigi. Mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5C° «richiede sforzi e impegni da tutti i paesi» e rappresenta il livello minimo che gli scienziati ritengono vitale per evitare il disastro e la drammatica accelerazione di eventi estremi su scala planetaria. Ma quali sono stati i punti di accordo? Innanzitutto, la cessazione degli investimenti per l’estrazione di carbone (la membership del G20 include i principali produttori e consumatori, tra cui Cina e India) sembrerebbe un buon punto di partenza ma insufficiente se non accompagnato anche da una chiara roadmap dei paesi coinvolti e senza una data prestabilita (il documento si limita ad un non troppo rassicurante «as soon as possible»). Inoltre, sembra non esserci un chiaro riferimento al 2050 come la data per raggiungere la neutralità climatica – e questo è significativo del fatto che i National Determined Contributions (NDC) fissati a Parigi continuino ad essere strumenti a forte discrezione dei paesi a discapito dell’obiettivo comune. L’ultimo documento presentato dall’International Energy Agency (IEA), Net Zero by 2050 ha chiaramente indicato come sia necessario porre fine ai finanziamenti ai combustibili fossili tra i paesi OECD entro il 2030 e nel resto del mondo entro il 2040. Sembra esserci invece un chiaro impegno alla riforma dei finanziamenti alla transizione, necessari a promuovere il dispiegamento delle tecnologie rinnovabili. In generale, gli esperti delle Nazioni Unite ritengono che se gli attuali impegni nazionali fossero completamente raggiunti, il mondo sarebbe comunque destinato ad affrontare un aumento delle temperature di circa 2,7C°, con effetti catastrofici.
Sono dunque molti i punti critici ancora irrisolti – come l’impegno alla riduzione delle emissioni di metano, il secondo gas climalterante, e gli aiuti finanziari ai paesi in via di sviluppo per affrontare la transizione ecologica – e che con tutta probabilità verranno affrontati da qui al 12 novembre in occasione della Conferenza delle Parti a Glasgow. Il countdown, infatti, si è concluso e l’evento internazionale che attrarrà più di 190 leader mondiali potrà svolgersi in presenza dopo essere stato posticipato, come molti altri forum globali, per via dell’emergenza pandemica. Sono passati sei anni dagli Accordi di Parigi dove i paesi firmatari avevano stabilito le rispettive NDC per la riduzione delle emissioni la cui somma avrebbe dovuto corrispondere agli impegni di decarbonizzazione su scala globale. Tuttavia, permane ancora un ampio gap tra gli impegni presi e i piani effettivamente messi in campo: come ha dichiarato il Presidente della COP26, Alok Sharma, in un discorso all’UNESCO, «se Parigi ha promesso, Glasgow deve adempiere». Alla precedente Conferenza delle Parti, tenutasi a Madrid nel 2019, i leader mondiali hanno di fatto fallito nel raggiungere un generale consenso: un risultato che il segretario dell’ONU António Guterres aveva definito «deludente» dal momento che la «comunità internazionale [perse] un importante opportunità per dimostrare una maggiore ambizione sulla mitigazione, sull’adattamento e sul finanziamento per affrontare la crisi climatica».
L’avvicinamento a Glasgow, tuttavia, non è stato molto promettente. Pesa una crisi energetica e delle materie prime che per molti osservatori rappresenta l’eccessivo zelo, soprattutto dei paesi occidentali, nei confronti dei piani climatici: troppo disconnessi da una realtà, economica ed energetica, che fatica a conciliarsi con i seppur necessari impegni per svincolarci dalla dipendenza dei combustibili fossili e così tracciare un percorso di crescita sostenibile e carbon-free. Ma si tratta di riflessioni che spesso non tengono conto di tutti i fattori che stanno stimolando il rally dei prezzi energetici e che nulla hanno a che vedere, come ha rimarcato il direttore esecutivo dell’IEA Fatih Birol in un’intervista al Financial Times, con la spinta verso la neutralità climatica. «Alcune persone stanno cercando di dipingere tutto questo come la prima crisi della transizione energetica», ha detto al quotidiano londinese lo scorso 11 ottobre. Accusare le politiche “verdi” è «inaccurato e fuorviante», e se questa narrazione dovesse consolidarsi «potrebbe diventare una barriera alle politiche che abbiamo bisogno di implementare per far funzionare la transizione energetica». I rincari sono reali e impattanti e necessitano di soluzioni dai governi per tamponare gli effetti inflattivi, i costi della produzione industriale in un momento anche di forte tensione sulle catene logistiche globali e di crescita della domanda globale. Tuttavia, la crisi in corso deve essere un incentivo alla transizione: perché ci svela le debolezze del sistema energetico legato ai combustibili fossili piuttosto che suffragare i limiti del sistema del futuro. «Abbiamo appena iniziato ad intraprendere un processo di cambiamenti strutturali», ha scritto Adam Tooze in un articolo su New Statesman. «Data la fragilità del nostro sistema energetico, potremmo avere a che fare in futuro con periodi in cui i prezzi ruotano e appaiono imprevedibili colli di bottiglia. In questi momenti la sfida non è soltanto quella di affrontare i problemi immediati, ma di accelerare la decarbonizzazione. Non possiamo più permetterci la dissonanza cognitiva di mettere insieme obiettivi radicali per il 2030 o il 2050 con una difesa a breve termine dello status quo. Dobbiamo tenerlo bene a mente, specialmente in riguardo alla COP26». In breve, lasciarsi il passato alle spalle è una scelta, un costo ma anche un’opportunità. Soprattutto in una fase storica in cui l’innovazione tecnologica – sia sul lato digitale che su quello delle rinnovabili – ci offre una reale alternativa per raggiungere la neutralità climatica senza sacrificare una crescita sostenibile. Secondo Jeffrey Sachs, in una lunga intervista al Financial Times, le tessere del puzzle si stanno allineando. «Per prima cosa, abbiamo il vasto potenziale dell’energia rinnovabile. Secondariamente, i costi dell’energia rinnovabile sono essenzialmente già in parità con i combustibili fossili. O meglio, non vedo grossi ostacoli per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050: nessuna faticosa barriera finanziaria o tecnologica che non possa essere raddrizzata. […] Abbiamo bisogno di decarbonizzare l’energia e di maggiore energia allo stesso tempo, ma non c’è nessuna incompatibilità nell’avere entrambe le cose».
Se guardiamo alla tendenza storica dell’ultimo decennio, i dati sono piuttosto promettenti. Secondo l’International Renewable Energy Agency (IRENA), i costi per l’aumento della capacità installata delle tecnologie rinnovabili e l’output energetico sono crollati, grazie ai benefici dell’innovazione, delle economie di scala e in certi casi grazie ai sussidi governativi. Un fattore molto importante è stata anche la riduzione dei costi materiali per la manifattura delle tecnologie abilitanti, come batterie, generatori, pannelli fotovoltaici e infrastrutture per la rete elettrica. Secondo le stime riportate dall’IEA nell’ultimo rapporto World Energy Outlook 2021 – rilasciato proprio a ridosso della COP26 e di fatto designato ad essere una sorta di «bibbia» e «guida ai lavori» per la Conferenza sul clima – per esempio il costo delle batterie agli ioni di litio si è ridotto del 90% dal 2010, con la conseguenza che ora la percentuale delle materie prime sui costi totali, seppur variegata rispetto alla tecnologia di riferimento, rappresenta tra il 50 e il 70% del costo finale. Un discorso simile vale per i pannelli fotovoltaici, per i quali i materiali come il silicio e l’argento rappresentano la maggior parte dei costi dei moduli (rispettivamente il 10-15% e il 5-7%), e per le turbine eoliche il 15% (acciaio, rame, zinco e terre rare per i magneti, utilizzati soprattutto per gli impianti offshore). Nel caso della rete elettrica, rame e alluminio rappresentano circa il 14 e il 6% dei costi complessivi sugli investimenti. L’ultimo decennio, dunque, è stato caratterizzato da un crollo dei costi delle materie prime, che seguono spesso un andamento ciclico ma sicuramente promosso dalla stabilità delle catene di fornitura, da equilibri tra domanda e offerta e soprattutto da una generale elasticità del mercato, specialmente per quanto riguarda le commodity più consolidate (rame, alluminio, nickel etc.). Ma quali potranno essere le conseguenze di un rimbalzo considerevole della domanda in ossequio alle aspettative e ai possibili esiti della Conferenza delle Parti? Nella sezione dedicata ai “minerali critici”, l’IEA si limita a dire che il «rapido dispiegamento delle tecnologie a bassa intensità di carbonio come parte della transizione energetica implica un significativo aumento nella domanda per i minerali critici». Questo scenario, che va ben aldilà di quanto sperimentato nel settore e che potrà variare a seconda dei target climatici di riferimento, «solleva problemi riguardo la disponibilità e l’affidabilità dell’offerta». Più precisamente, secondo i piani fino ad ora annunciati (stated policies scenario, STEPs) – e che tanto hanno disatteso le promesse degli Accordi di Parigi – la domanda globale per i minerali cruciali per le tecnologie rinnovabili triplicherà entro il 2050. Se invece dovessero essere intrapresi percorsi più virtuosi e ambiziosi, in linea con la necessità di raggiungere lo scenario Net Zero (NZE) entro la metà del secolo, la domanda globale potrà crescere di sei volte rispetto all’output odierno. In particolare, ciò significherà una crescita di 50 volte della domanda di materiali dall’industria dell’automotive elettrico e delle batterie, un raddoppio della domanda di rame per le reti elettriche e un impatto significativo sul mercato del cobalto, del litio, del nickel e anche delle terre rare[1]. Rispondere a queste sfide sul lato della domanda sarà davvero molto difficile e «aggravato da tempistiche dilatate per lo sviluppo di nuovi progetti [estrattivi], per la diminuzione della qualità delle risorse, il crescente controllo dell’ambiente e delle performance sociali [ESG] e di una mancanza di diversità geografica nell’estrazione e delle operazioni di raffinazione». In sostanza, in sei pagine l’IEA lancia un monito la cui importanza è troppo spesso sottovalutata: le dinamiche complesse dell’industria mineraria, un settore dai ritorni sugli investimenti sempre molto risicati e già sotto pressione per la ridotta produttività dei siti (pochi e sempre meno di qualità), il crescente screening delle società d’investimento sugli standard ambientali e sociali, oltre a dinamiche geopolitiche rischiano di creare ulteriori strozzature sul lato dell’offerta. Seppur non si debba sottostimare «l’importante ruolo delle scelte tecnologiche e dell’innovazione nel dare forma ai futuri requisiti materiali e nell’alleviare potenziali tensioni sull’offerta», come dimostra il caso delle batterie elettriche, ciò nonostante è illusorio pensare che guadagni in efficienza, riduzione dell’input per prodotto o, in taluni casi, il ricorso alla sostituzione dei materiali possano controbilanciare l’aumento esponenziale della domanda globale in assenza di investimenti massici negli stadi della supply chain più a monte – dalle miniere fino alle capacità di processazione dei materiali.
La situazione di calma apparente nell’ultimo decennio non è già più la base su cui programmare gli investimenti nel settore, disattesa negli ultimi mesi con un aumento progressivo dei prezzi del paniere dei metalli e minerali. Secondo l’ultimo studio del Fondo Monetario Internazionale, la situazione è piuttosto critica: «Se la domanda di metalli si intensifica e l’offerta è lenta a reagire, potrebbe seguire un aumento pluriennale dei prezzi – che potrebbe far deragliare o ritardare la transizione energetica». Lo scenario in questo senso potrebbe da una parte beneficiare gli investitori e i pochi paesi produttori – che negli ultimi anni guardano sempre più al settore estrattivo come un asset strategico per avanzare i propri interessi e i programmi di sviluppo, soprattutto per scalare la catena del valore e così diversificare l’economia dalle attività meno remunerative e più invasive a livello ambientale – ma dall’altro porre fine al decennale crollo dei costi di manifattura delle tecnologie rinnovabili.
Secondo le stime del FMI, seppur l’offerta si adeguerà nel lungo termine sfruttando aumenti strutturali dei prezzi, che incentiveranno gli investimenti privati nelle esplorazioni geologiche e l’apertura di nuovi siti, oltre all’innovazione tecnologica nelle pratiche estrattive, i prezzi «potrebbero raggiungere picchi storici per un periodo sostenuto e senza precedenti nello scenario Net Zero al 2050», con i prezzi di cobalto, litio e nickel che potrebbero crescere del 100% rispetto ai livelli del 2020 potenzialmente «ritardando la transizione energetica». Il picco, atteso per il 2030, è comprensibile per la domanda di tecnologie rinnovabili nello scenario di neutralità climatica più stringente, dal momento che i costi sono riflessi in anticipo nella produzione; in secondo luogo, perché in seguito ci si attende una riduzione dei colli di bottiglia dal lato dell’offerta a partire dalla quarta decade del millennio. In totale, le cifre sono davvero sbalorditive: a fronte di una crescita di sei volte, il valore di mercato dei soli quattro metalli presi in considerazione (litio, cobalto, nickel e rame) raggiungerebbe la cifra di 12,9 trilioni di dollari entro due decenni.
Considerato il contesto odierno, tra lo shock che la pandemia ha causato sulle filiere della globalizzazione e la crescente competizione commerciale e industriale, è plausibile ritenere che la volatilità dei prezzi potrà proiettarsi ben oltre l’attuale congiuntura e così avere «un effetto significativo sui costi per trasformare i nostri sistemi energetici» (IEA, 2021). L’aumento dei prezzi che ha colpito il mercato in questi mesi, secondo l’Agenzia parigina, potrebbe generare una pressione sul costo totale dei capitali del 5-15%, traducendosi in un aumento di investimenti cumulati di 430 miliardi o 700 miliardi, a second dello scenario (STEPs o NZE), per pannelli fotovoltaici, batterie e reti elettriche. Le stime di Wood Mackenzie – un importante gruppo di ricerca e consulenza globale attivo nei settori dell’energia e delle materie prime – sono ancor più ampie: gli investimenti sull’estrazione dei metalli di base (rame, alluminio, zinco), senza considerare i metalli critici, dovranno quadruplicare, raggiungendo la cifra di due trilioni di dollari per supportare i piani di decarbonizzazione globali nello scenario più ambizioso. E se a ciò si aggiunge l’incertezza tecnologica oltreché quella politica – come ha dichiarato l’IEA nel suo rapporto di maggio, la volontà di rispettare i piani climatici rappresenta un punto cruciale per rassicurare gli investitori ad affrontare gli immensi costi sul lato dell’offerta – il quadro è davvero intricato.
In conclusione, due delle più rispettate e autorevoli agenzie internazionali lanciano un allarme che sembra essere relegato in sottofondo, surclassato dalle conclusioni del summit di Roma e dalle aspettative per la COP26, quando dovrebbe essere al centro del dibattito internazionale. Non esiste infatti una transizione che possa essere realistica e in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile se non si affrontano i costi materiali che il raggiungimento degli Accordi di Parigi richiederà tanto alle aziende del settore quanto ai governi nazionali. In una lettera firmata da attivisti da tutto il mondo e redatta da Human Rights Watch, la preoccupazione è evidente anche per il potenziale impatto dell’industria estrattiva nel prossimo futuro. «[…] Responsabile del 10% delle emissioni antropogeniche globali, l’attività mineraria è legata a degrado ambientale, contaminazione e sfruttamento dell’acqua, abusi dei diritti umani, dislocamento forzato, perdita di biodiversità, conflitti violenti e condizioni lavorative scadenti, finanziamenti illeciti in molte parti del mondo».
L’Unione Europea è, come scritto di recente su queste colonne, al centro di questo dilemma tra la ricerca di una maggior sicurezza per quanto concerne le forniture di materiali critici, quanto fortemente focalizzata a fare del Green Deal il suo punto di forza nei negoziati a Glasgow. Tuttavia, come ha evidenziato con buona dose di pragmatismo Hildegard Bentele, l’europarlamentare e membro della Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia del Parlamento europeo: «i metalli critici sono il nuovo petrolio dell’industria “verde”» e pertanto qualunque discussione sulla decarbonizzazione non può iniziare senza discutere degli elementi alla base delle tecnologie pulite. Perché «non esiste Green Deal senza un accesso alle materie prime critiche».
Garantire una gestione il più possibile multilaterale delle materie prime – aumentando gli sforzi per abbassare le barriere al commercio, tra cui le restrizioni all’export, per garantire il corretto funzionamento di correzione dei prezzi del mercato, e un tracciamento sostenibile delle forniture oltre a standard trasparenti e condivisi – dovrebbe essere al centro delle discussioni a Glasgow. Il Fondo Monetario ha persino avanzato la proposta di istituire un Agenzia internazionale dedicata ai metalli, come l’IEA e la FAO. È chiaro che in un contesto geopolitico in forte irrigidimento, il dossier rimarrà molto caldo e la capacità di deterrenza per prevenire un conflitto esteso sulle materie prime rimarrà un fattore determinante per stabilire «se i materiali critici rimarranno abilitatori vitali della transizione all’energia pulita o diventeranno un punto di rottura del processo» (IEA, 2021).
[1] Per un resoconto dettagliato sul ruolo dei minerali critici per la transizione energetica, si veda The Role of Critical Minerals in Clean Energy Transition (IEA, maggio 2021).